Società e politica

Una società malata, quella di San Giovanni in Fiore, assente, muta

Un punto di vista severo e vero sui rapporti determinati da una politica stanca
martedì 18 gennaio 2005.
 
L’approssimarsi delle scadenze elettorali crea nel mondo autoreferenziale della nostra politica un clima di attesa impaziente, smaniosa incertezza, ansiosa trepidazione. Vecchie glorie e fresche promesse, impegnati trasversalmente nel campo della partitica spartizione delle risorse, cominciano una nuova campagna elettorale già vecchia nelle forme e nei contenuti. Ma se i politicanti, chi meglio e chi peggio, sono pronti e agguerriti, il resto, la maggioranza dei sangiovannesi, vivrà annoiata e indifferente il prossimo e inevitabile scialo di parole e buone intenzioni condito da un italiano improbabile e improponibile. Il disamore per la politica certo non è fenomeno locale, investe l’Italia intera e in tanti, sociologi, politologi, giornalisti, hanno cercato di capire il perché di questa lunga crisi di fiducia nella forma partito. Anche San Giovanni in Fiore così rientra in queste analisi ma alcune sue qualità, o meglio alcuni suoi vizi, la portano fuori da ogni schema interpretativo, facendone emblema di una Calabria irriducibile ai rigori delle scienze sociali, ancora poco capita perché troppo dimenticata. La società sangiovannese, senza scadere in approssimazioni e falsi moralismi, è una società immobile, bloccata, ferma senza sapere quando e dove, chiusa in se stessa, scadente in un grigio freddo e anonimo, lo stesso che copre le centinaia e centinaia di case non ancora ultimate. Polarizzata fra chi percepisce sicuro ogni mese un guadagno e chi fa fatica ma trova nonostante tutto un modo per andare avanti. Da una parte una borghesia piccola piccola fatta da medici, avvocati, dottori, architetti nella sua parte alta mentre più giù professori, commercianti, dipendenti pubblici vari. Arroccata nella difesa gelosa delle proprie posizioni, attraversata da differenze in quanto a consistenza di guadagni e benefici, accomunata dalla stessa visione etica, pressoché assente, dagli stessi consumi culturali. Di fronte al progressivo peggioramento delle condizioni generali di vivibilità, alla corsa forsennata al mattone, alla perdita di qualsiasi gusto estetico questa borghesia ha scelto da sempre il non impegno, la deresponsabilizzazione, continuando serafica a vivere tranquilla. Arricchirsi, conquistare nuove postazioni in una stupida e inutile corsa al prestigio sociale, mentre tutt’attorno il paese andava e va in malora. Solidale quando c’è la partita del cuore e basta una telefonata o un messaggino per salvarsi l’anima, così come per lavarsi la coscienza la messa domenicale. Della sua meschinità, della faccia servile e benevola rivolta al signore, proprietario terriero, e di quella sprezzante e prepotente rivolta al contadino, già cento anni addietro grandi pensatori come Gramsci e Salvemini hanno dato conto rivelando caratteri, vizi, ambiguità che la letteratura (Levi, Alvaro, Silone tra i tanti) non ha fatto altro che amplificare. Questa borghesia sangiovannese, ricalcante i cliché con cui è stata raccontata la piccola borghesia umanistica meridionale, continua ad offrire l’ennesimo esempio della sua pochezza: architetti che s’indignano per l’ultima perla in fatto d’opere pubbliche, il teatro dietro l’Abbazia, ma rifiutano di “esporsi”, di avanzare pubblicamente la loro contrarietà perché no, questo non si può. La cultura del parlare piano, della non chiarezza, del nascondersi, dell’assistere a nuovi disastri e poi andare con l’animo tranquillo a Soverato, a Copanello, a Praia Longa o sul Tirreno, almeno lì via! non ci trovi i sangiovannesi, ha spinto ancora di più il paese verso il basso, ha fatto chiudere gli occhi credendo stoltamente che dalla salvezza di se stesso, del nucleo familiare di appartenenza, arrivasse poi la salvezza di tutti . A questo sbrindellato blocco sociale si affiancano la miriade d’occupati a metà, sottoccupati, disoccupati par-time. Lsu, Lpu, forestali, verde pubblico attrezzato, regionali, fondo sollievo, per giungere ai famosi 105 cavalli, sigle, gruppi che hanno fatto la storia delle battaglie per il lavoro. Poteva essere però un’altra storia, fatta per la dignità e l’emancipazione di tutta un’intera comunità, è stato invece solo un continuo, asfissiante piagnisteo per “il pane e il lavoro”, nessuna spinta veramente innovatrice, nessun progetto consolidato per il futuro ma l’appiattirsi su egoistici interessi personali. Venti anni d’endemiche proteste, a volte estreme, svolte senza un movimento che possa dirsi tale, un coordinamento, un programma, né tantomeno un portavoce, un rappresentante, una figura diretta emanazione di quelle tensioni. Il risultato antropologico di questi vent’anni è sotto gli occhi di tutti, maschio, adulto, guappo, sbruffone, maschilista, carente di cultura, macchina nuova, o seminuova, presa a rate, gran consumatore di sigarette e vino, frequentatore incallito di bar. Altri gruppi sociali emergono da questa breve ricognizione nella società sangiovannese, che possono ben rientrare fra i due finora sommariamente descritti ma che se ne distaccano per alcuni elementi loro identificanti: la cosiddetta classe politica, i disturbati mentali, i giovani. Ci permettiamo di non considerare i primi due, il primo perché non bastano poche righe ma intere pagine, il secondo per ovvie ragioni di complessità. Quindi ecco i giovani, giovani studenti, laureati, inseriti nei più disparati circuiti lavorativi, non scolarizzati o poco scolarizzati che vivono in città oppure vanno via per brevi periodi per poi tornare. In particolare questi giovani di studio e di cultura fanno senso, fa senso la loro impotenza, fa senso la loro mediocrità, fa senso il loro non sentirsi parte di una sconfitta collettiva. Fa specie vedere quelli delle scuole medie superiori, quelli che frequentano gli atenei calabresi non fare, non dire, non scuotersi, non muoversi in una direzione che non sia il comodo stare seduti a grattarsi. Un insulto all’impegno e alla responsabilità poi il tranquillo bivaccare degli studenti fuori regione, che vengono a passare rilassanti, bucoliche, alcoliche, vacanze nel piccolo borgo natio in estate o a Natale. Ma San Giovanni in Fiore non è “un’isola felice”, per riprendere un’ipocrita espressione che icasticamente sentenziava a sproposito sulla nostra città, e vive senza dubbio alcuno una sua “questione giovanile”. Gli episodi frequenti di teppismo, bullismo, microcriminalità sono il sintomo di un disagio che cresce e che trova facili e pericolose soluzioni a volte in droghe devastanti a volte in solitudini deprimenti. Un problema nuovo e preoccupante aggiunto agli altri ma di cui non si capisce, o non si vuole capire, la gravità interpretandolo come un normale segno dei tempi, una fisiologica espressione di furia giovanile. Bisognerebbe fare molta attenzione invece alla rabbia, allo spaesamento, alla fuga dai valori profondi e forse per questo più difficili da raggiungere, a questo fenomeno postmoderno racchiuso in una società dai vizi antichi non ancora sanati. La gravità di questo nostro tempo impone, come qualcuno ha scritto su questo giornale, di non rinunciare a sperare, di non rinunciare a lottare. Il quadro è deprimente e anche se i furbi, i cinici e gli immorali hanno la meglio, se la solidarietà è inghiottita dall’avido impulso del particulare, è indispensabile ritrovare fermenti, rivolte, eresie, aspirazioni nascoste ma ben radicate nella storia di San Giovanni in Fiore, perso al limite di quest’Italia ma pronto a ritrovare la bussola. Domenico Barberio

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