La lunga estate della rivolta
di Wanda Valli (la Repubblica, 13.06.2010)
Cinquant’anni fa la città si ribella al congresso del Msi. Ex partigiani, camalli, studenti si infiammano alle parole di Pertini: "Difendere la Resistenza, costi quel che costi". Il 30 giugno la Celere di Tambroni viene travolta dai "ragazzi con le magliette a strisce". È in quelle giornate che si disegnerà il futuro dell’Italia Tra aperture alla sinistra e tentazioni autoritarie
La macchia è ancora lì, rossastra, a due passi dal palazzo della Regione, in piazza De Ferrari, cuore di Genova. Hanno provato a ripulirla nel tempo, più e più volte, ma senza riuscirci. Quasi che la storia volesse lasciare un suo segno. La macchia è quel che rimane di una camionetta della Celere di Padova rovesciata e incendiata dai manifestanti, il 30 giugno del 1960. Il giorno in cui Genova brucia, si ribella, si rivolta contro il Msi, fresco alleato del governo Tambroni, che vuole tenere nella città medaglia d’oro della Resistenza il suo congresso il 2 luglio. E vuole che a presiederlo sia Carlo Emanuele Basile, l’uomo delle torture alla Casa dello studente, l’uomo che nel 1944 fece deportare milleseicento operai delle fabbriche e del porto.
Genova non ha dimenticato. È una calda giornata d’estate, il 30 giugno 1960, c’è maccaia, quel tempo umido con le nubi che velano il sole. «Scimmia di luce e di follia» la definirà molti anni dopo Paolo Conte, poeta della canzone. La città vive una calma apparente. Ma ci sono già stati cortei e scontri con la polizia: il 25 è il giorno della prima manifestazione, il 28 giugno Sandro Pertini, con il discorso del bricchettu (del fiammifero) dà il via all’incendio finale.
Tutto è incominciato quasi un mese prima, il 2 giugno, festa della Repubblica. Gli ex partigiani si incontrano a Pannesi, sulle alture sopra Genova, lo stesso posto da dove sono partiti per andare a combattere in montagna. Giorgio Gimelli, ex partigiano, nel 1960 è presidente provinciale dell’Anpi. È lui a parlare con Umberto Terracini, amico di Gramsci, compagno di prigionia di Pertini a Ponza, poi deputato eletto in Liguria per il Pci. Terracini è stato il presidente dell’Assemblea costituente, è sua la firma, nel dicembre del 1947, sotto il testo della Costituzione.
Quel giorno, a Pannesi, Terracini di fronte a tremila persone lancia la mobilitazione. Il resto dell’Italia ignora quanto sta per accadere, il governo minaccia di mandare l’esercito e spera che tutto finisca così. Il tam tam, invece, avvolge la città. A tenere i contatti tra Roma e Genova, sono la Cgil attraverso la Camera del lavoro, e soprattutto l’Anpi, l’associazione dei partigiani.
I protagonisti saranno i giovani, i ragazzi con le "magliette a strisce", operai, portuali, moltissimi studenti dell’università. Paride Batini, leader dei portuali scomparso un anno fa, nel giugno del 1960 ha venticinque anni, è uno di quelli con la maglietta a strisce: «Le portavamo tutti, perché costavano poco» spiegò l’unica volta in cui ruppe il silenzio su quei giorni.
Raccontò, Batini, che il 30 giugno ’60 fu la rivolta dei giovani: «Il miracolo economico lo stavano costruendo sulla nostra pelle, noi volevamo giocarci il futuro». In prefettura tentano una mediazione. Fulvio Cerofolini, ex sindaco socialista di Genova, poi deputato, ora è presidente provinciale dell’Anpi: «Il prefetto propose di spostare il congresso del Msi a Nervi e a noi di manifestare al Righi, sulle alture, una specie di anticipazione della teoria degli opposti estremismi». Che non passa.
Per il 30 giugno la Camera del lavoro prevede uno sciopero di sole due ore, ma due giorni prima, il 28, sono la passione e la foga oratoria di Sandro Pertini di fronte a ventimila persone a scaldare gli animi. Il futuro presidente della Repubblica ricorda gli ideali che hanno unito l’Italia: «Libertà, giustizia sociale, amor di patria. Noi siamo decisi a difendere la Resistenza. Lo consideriamo un nostro preciso dovere: per la pace dei morti e per l’avvenire dei vivi, lo compiremo fino in fondo. Costi quel che costi». Così andrà.
Il 30, quei pochi delegati del Msi che si presentano negli alberghi vengono respinti, i tassisti li lasciano nei posti più impensati, sui tavoli dei ristoranti ci sono volantini antifascisti. Il corteo parte un po’ in anticipo. Raccoglie, via via che attraversa la città, una folla di centomila persone. In piazza della Vittoria arriva l’ordine di scioglimento. Molti ritornano in piazza De Ferrari, ma c’è anche chi non si muove da lì.
Il nucleo di polizia della Celere di Padova è schierato con le jeep e prova a mandar via la gente, a partire da chi si è arrampicato sulla fontana al centro della piazza. Uno di questi è Giordano Bruschi, allora aveva trentacinque anni, era segretario dei marittimi della Cgil: «Dopo il primo carosello, io con molti altri, finisco nell’acqua, mentre le camionette vengono posteggiate sotto i portici», là dove oggi c’è la macchia. Le cariche si susseguono, si fugge lungo i vicoli, e lì la polizia si ritrova impotente.
Bruschi: «La gente tirava vasi, acqua calda e olio dalle finestre», i poliziotti risalgono in piazza De Ferrari, proprio mentre almeno in cinquemila, soprattutto portuali e operai, vanno all’assalto delle jeep. Vengono sollevate di peso dai camalli, gli scaricatori del porto, e rovesciate. Il comandante della Celere finisce nella fontana, lo salvano i portuali e i partigiani, lo portano in un bar, a prendere un caffè.
Quando lo scontro sembra diventare sanguinoso, Giorgio Gimelli va in Questura a parlare con il commissario Costa. Insieme, il partigiano e il commissario, corrono in via XX Settembre dove la gente ha eretto barricate. Lì c’è anche Raimondo Ricci. Avvocato, oggi presidente nazionale Anpi, ricorda: «Le prime cariche, la gente che lanciava tavolini e seggiole. C’erano i lacrimogeni, ci coprivamo con i fazzoletti». Alla fine si riesce a convincere tutti ad andare a casa. In prefettura si tratta. Il centro della città resta presidiato. All’una di notte, il segretario della Cgil, Pigna, annuncia: «Il congresso del Msi è stato annullato». Genova ha vinto ancora.
Leoni in piazza volpi a Palazzo
di Filippo Ceccarelli (la Repubblica, 13.06.2010)
Fu questo dei moti di Genova e del luglio ’60, «a mio parere - come scrisse Aldo Moro nel suo memoriale dal carcere delle Br - il fatto più grave e minaccioso per le istituzioni intervenuto a quell’epoca». Tale il clima, dopo i tre morti di Melissa, Palermo, Catania e i cinque di Reggio Emilia; tanto angosciosi i boatos dopo la tregua proposta a sorpresa dal presidente del Senato Merzagora e il simultaneo sventolio di dossier tra potenti democristiani, specie da parte dello stesso presidente del Consiglio Tambroni, che per qualche giorno l’allora segretario della Dc preferì dormire fuori casa.
Giulio Andreotti, del resto, che rispetto a Moro aveva meno ragioni di temere, più che l’aria di golpe si è poi divertito a descrivere la scena «da film americano» dei ministri della sinistra Dc che acrobaticamente cercavano di consegnare le loro lettere di dimissioni nelle mani di Tambroni, il quale a sua volta ingaggiò i più ingegnosi esercizi fisici per non accoglierle. Perché come spesso accade in Italia c’era il dramma, la rabbia e la paura, ma anche da ridere: così una sera, durante una riunione a piazza del Gesù, quando dalla strada risuonò un improvviso rumore di cavalli al galoppo, un anonimo notabile diede voce al comune sentimento: «Non saranno mica venuti ad arrestarci?».
E insomma: insorta Genova, e manganellati dalla Celere parecchi deputati comunisti a Porta San Paolo, lo scudo crociato non smetteva di traccheggiare di fronte alla scelta del centrosinistra, Tambroni lasciava maliziosamente capire di sapere tutto di tutti («Li conosco uno per uno e al momento giusto li metto a posto») e il presidente della Repubblica Gronchi, terrorizzato dal primigenio complotto comunista, con tale grottesca insistenza pretese un aumento della vigilanza da indicare i requisiti degli agenti di Ps da disporre a tutela della sua persona: «Di alta statura, complessione atletica e rotti - recitava la formula - a tutti gli sport».
Di queste strambe e turbinose manovre, di questo carosello che arrivò a lambire anche la Santa Sede e la Cei, che non mancarono di mettere in campo dispute pure di ordine dottrinale, fece alla fine tesoro l’altro cavallo di razza della Dc: Amintore Fanfani, il grande sconfitto di due anni prima, in tale frangente chiamato a una delle sue consuete, repentine e impetuose resurrezioni.
In realtà già prima della fatidica estate genovese, «il Rieccolo», come di lì a poco l’avrebbe designato Indro Montanelli, aveva cominciato in gran segreto a tessere la sua trama per aprire le porte al Psi con l’ovvia collaborazione di La Malfa e Saragat. Il dato rimarchevole, e se si vuole pure significativo degli usi e costumi della Prima Repubblica è che l’imminente governo Fanfani - poi detto «delle convergenze democratiche» o secondo la più metafisica lectio morotea «delle convergenze parallele» - venne comunque prefigurato in un pranzo tenutosi in una remota trattoria dell’Acqua Acetosa, "Da Giggetto il Pescatore"; dove quella piovosa domenica, insieme agli illustri cospiratori erano capitati almeno un paio di giornalisti, oltre all’incolpevole figliola del presidente Tambroni, che poi era la vittima designata di quella conviviale congiura.
Seguirne con gli occhi di oggi le logiche politiche e le tatticissime sottigliezze tattiche è praticamente impossibile, se non vano. Con ragionevole semplificazione, a mezzo secolo di distanza, è abbastanza evidente che a partire dalla sollevazione antifascista di Genova si giocò in Italia una partita di leoni e di volpi, un passaggio che combinava ruggiti di piazza e tagliole di palazzo.
Di quel luglio anche sanguinoso scrissero a caldo Carlo Levi e Pier Paolo Pasolini, Antonio Delfini vi dedicò una poesia (Genova è in rivolta, Torino ascolta), mentre il giovane Fausto Amodei compose una canzone destinata a diventare celebre, Morti di Reggio Emilia. Ma nel cuore del potere e nel suo immaginario quella mezza insurrezione, proprio in quanto favorì l’affermarsi del centrosinistra, rimase inscritta anche come un potenziale pericolo: di qui probabilmente la redazione del controverso Piano Solo da parte dell’Arma dei carabinieri.
Dotatosi di un suo quasi personale servizio segreto, ma a sua volta spiato dal Sifar che riferiva a Moro, Tambroni non aveva né le intenzioni né la stoffa per portare alle estreme conseguenze l’avventura autoritaria. Allo stesso modo l’allora leader del Msi, Arturo Michelini, mancava di statura per inserirsi in quel gioco rischioso. La stessa storiografia di destra (a cominciare dal saggio di Adalberto Baldoni, Due volte Genova, Vallecchi, 2004) appare piuttosto tiepida, se non dubbiosa, rispetto all’ipotesi che se la sommossa di Genova non avesse impedito quel congresso, il Msi avrebbe anticipato il processo di costituzionalizzazione del neofascismo compiuto da Gianfranco Fini con An tra il 1993 e il 1995.
Vero è che la storia non si fa con i se. Fra gli angosciosi presentimenti di Moro, gli arguti ricordi andreottiani e la rapinosa abilità di Fanfani ce n’è abbastanza perché Genova resti nella memoria collettiva, con la sua energia anche gloriosa, ma anche, come succede, con le sue ambiguità.
SUL TEMA, IN RETE, SI CFR.:
Memoria
I dieci giorni che cambiarono il paese
di Ilaria Romeo (Rassegna Sindacale, 30 giugno 2015)
Genova, Reggio Emilia, Roma, Palermo, Catania. Nelle carte dell’epoca il racconto di quelle terribili giornate di fine giugno-inizio luglio ’60. "In ballo c’era il fondamento dello Stato democratico, l’antifascismo, la Resistenza"
28 giugno 1960, il discorso più bello di Sandro Pertini contro i fascisti (di IlariaRomeo - Archivio Storico Cgil)
Da sempre contro il fascismo
di Moni Ovadia (l’Unità, 3 luglio 2010)
Il 30 giugno scorso ricorreva il 50° anniversario dei moti di Genova contro il governo Tambroni, monocolore democristiano con l’appoggio del Msi.
Il fascismo cacciato dalla Resistenza nell’aprile del ’45 rientrava dalla finestra. La Genova operaia, civile e antifascista insorse con la forza di un’ondata di piena. Il movimento sorse spontaneo dal basso, i partiti della sinistra vi aderirono organizzandolo. Ci furono poderose manifestazioni in altre città d’Italia. A Reggio Emilia ci furono morti. I celerini caricarono e spararono ad altezza d’uomo.
A Roma la polizia a cavallo caricò i manifestanti e furono picchiati selvaggiamente anche i rappresentanti del popolo, senatori e deputati che partecipavano alle manifestazioni. Non fu solo la sinistra ad opporsi a quello sciagurato tentativo di riaccreditare politicamente i fascisti, anche esponenti della Dc provenienti dalla militanza antifascista lo fecero. Correva l’anno 1960. Per me fu un anno decisivo. Nell’aprile di quell’anno divenni consapevolmente antifascista.
Avevo 14 anni, nella mia scuola, la scuola ebraica di Milano nata in seguito alle leggi raziali del 1938, approfittando della recente installazione di altoparlanti in ogni classe e della ricorrenza della Liberazione, il professor Luciano Segre, partigiano comunista fece uno straordinario racconto della lotta partigiana dipanando davanti a noi studenti stupiti e commossi, la grande epopea di popolo che fu Resistenza, un’epopea che vedeva protagonisti gli operai, i contadini, le donne, gli artigiani, gli intellettuali, coloro che riportavano la democrazia all’Italia e che ne avrebbero garantito la natura di luogo dei diritti e dei valori universali. Con i fatti di Genova capii che l’antifascismo riguardava il mio tempo, come lo capiscono i giovani e i giovanissimi che oggi si iscrivono all’Anpi con la qualifica di antifascista.
Le magliette a strisce salvarono la Carta
I ragazzi di Genova e il bastone di Tambroni
Sono passati 50 anni da quel 30 giugno 1960 quando i “ragazzi in maglietta a strisce” insorsero a Genova salvando la Costituzione e la democrazia. Oggi il libro di Annibale Paloscia, “Al tempo di Tambroni” (Mursia editore) ripercorre una delle pagine più drammatiche del Dopoguerra. Lo stralcio che pubblichiamo è tratto dal capitolo XXV.
di Annibale Paloscia (il Fatto, 01.07.2010)
Quella mattina sono le donne genovesi a fare la prima mossa. Arrivano in migliaia al sacrario dei caduti della Resistenza portando mazzi di fiori. “Tonnellate di fiori” scrive con enfasi un cronista. Alle 12 comincia lo sciopero generale. Si sospende il lavoro nelle fabbriche, negli uffici, al porto. Alle 15:30 si forma il corteo in piazza della Nunziata. La folla riempie la lunga via XX Settembre. Secondo la polizia i manifestanti sono trentamila. I cronisti li valutano tra cinquantamila e centomila. La marcia si conclude in piazza della Vittoria, dove la folla ascolta in silenzio il discorso del segretario della Camera del Lavoro Bruno Pigna.
Un folto gruppo di ragazzi con le magliette a strisce si ferma in piazza De Ferrari e occupa lo spazio intorno alla grande vasca di bronzo eretta nel 1934 per celebrare le guerre coloniali italiane. Vicino alla fontana era schierato da ore un reparto di polizia col compito di sorvegliare gli accessi alla zona recintata con i cavalli di Frisia. All’improvviso la mischia, gli scontri, il fuggi-fuggi, gli inseguimenti. Vengono date diverse versioni. La questura di Genova sostiene che i poliziotti hanno reagito a un’aggressione. Giordano Bruschi, partigiano e capo del sindacato dei marittimi, smentisce l’aggressione contro la polizia. “Al massimo un lancio di monetine”.
L’impiego dell’idrante sicuramente è l’errore iniziale della forza pubblica. La polizia che, per proteggere il congresso missino, aveva imprigionato il centro di Genova con reticolati e mezzi blindati, avrebbe dovuto tollerare i fischi e gli slogan di quei ragazzi stanchi di tutti i divieti. Al primo errore ne segue uno più grave: quello di lanciare i poliziotti all’inseguimento dei ragazzi per completare la punizione a colpi di manganello. [...] Lì intorno c’è il gran labirinto dei caruggi, che offre ai manifestanti il terreno adatto per respingere le cariche e fare assalti di sorpresa. Nei vicoli le magliette a strisce ricevono solidarietà e il loro numero si moltiplica. Arrivano anche rinforzi di portuali che, venendo dal luogo di lavoro, si sono portati gli uncini usati per agganciare le balle.
Le cariche alla cieca e i lanci di lacrimogeni coinvolgono migliaia di persone di ritorno dalla manifestazione, con la conseguenza che tutto il centro diventa area di scontri. I reparti che presidiavano piazza De Ferrari sono ormai frammentati, sotto una pioggia di pietre, gambe di tavolini, materiale edilizio di ogni tipo. I celerini lottano corpo a corpo, ma quando i loro avversari diventano cinquemila sono costretti a fuggire. Nei vicoli sono bombardati di oggetti lanciati dai tetti e dalle finestre. Non hanno mascherine di protezione contro i loro stessi fumogeni. Alcune jeep sono incendiate, un capitano della celere viene gettato nella vasca di piazza De Ferrari. [...] Alle 18:30 succede un episodio che fa infuriare gli ufficiali del secondo reparto Celere di Padova, temuto per la brutalità. Mentre gli uomini di questo reparto sono bombardati con sassi e tegole, un reparto dei carabinieri, che segue la situazione senza muoversi dalla sua posizione, viene applaudito dalle “magliette a strisce”.
Alcuni carabinieri si lasciano prendere sottobraccio dai ragazzi usciti dai caruggi, si parla, si scherza. L’ispettore del corpo degli agenti di PS scrive al capo della polizia: “Vedemmo con sbalordimento prima e con indignazione poi, alcuni carabinieri avanzare sulla piazza, in mezzo ai dimostranti, come in una parata”. L’ufficiale denuncia “l’arcinoto atteggiamento dei carabinieri”. Avverte che se perdurasse, “le nostre valorose, pazienti ed educate guardie, nell’espletamento dei loro duri istantanei interventi, potrebbero coinvolgere, contro volontà, i carabinieri nello stesso trattamento riservato ai facinorosi”.
La maggior parte dei manifestanti scesi in piazza durante lo sciopero generale erano lavoratori e impiegati, uomini e donne, che da settimane, appena usciti dalle fabbriche e dagli uffici, andavano alle riunioni in cui si decidevano le iniziative contro il congresso missino. Per questa massa di cittadini, che non si aspettavano le violenze, né erano preparati a difendersi, fu più difficile evitare le manganellate, gli idranti e i lacrimogeni. [...]
Dopo tre ore e mezzo di scontri, verso le 19:30, il presidente dell’Anpi Gimelli sale su una camionetta della polizia, gira per i quartieri, e con un megafono lancia appelli a cessare gli scontri. Poco dopo si torna a camminare nelle strade di Genova senza caroselli di jeep, senza idranti e lacrimogeni, senza ragazzi che tirano pietre. Centonove agenti ricorrono a cure in ospedale. In serata la Camera del Lavoro proclama un nuovo sciopero generale di 24 ore nella provincia per il 2 luglio, in concomitanza con l’apertura del congresso missino. Nel comunicato si dà la colpa degli incidenti alla polizia per il “brutale intervento a manifestazione sciolta”.
A Roma si convoca subito il Senato. Il ministro dell’Interno Spataro rovescia sui comunisti tutta la responsabilità dei disordini di Genova. Il senatore Gaetano Barbareschi, segretario della Federazione socialista genovese, gli risponde: “Lei ci spaventa per la mancanza assoluta di conoscenza dei fatti”. Ricorda che la protesta contro il congresso missino unisce tutti i partiti antifascisti “compresa una parte notevole della Democrazia cristiana”. Denuncia la irresponsabilità del governo “perché non si convoca il congresso del Movimento sociale a dieci metri di distanza dal sacrario dei caduti partigiani”.