Scritture

Il Teatro della mia Città - di Domenico Monteleone

Storie di emigrazione e ardore culturale di un calabrese orgoglioso e senza patria
martedì 28 aprile 2015.
 

Non credevo di suscitare la reazione, la curiosità, persino il rammarico di tanti Amici e conoscenti che mi hanno contattato in seguito ad una scritta che avevo posto a corredo di una foto pubblicata su Facebook.

di Avv. Domenico Monteleone

La foto mi ritraeva in compagnia di alcuni Amici davanti al Teatro Sannazaro e la didascalia recita testualmente: "La mia Città".

"Ma eri a Napoli?"

"Ti ritieni napoletano?"

"Hai tradito la Calabria?"

"Non dovresti sentirti più romano allora?"

Ero lì a Napoli e ad alcuni non è sembrato possibile e, così, hanno ritenuto di riconoscere i posti più disparati. Alcuni hanno intravisto scorci di Taurianova, altri di Roma, altri di Reggio Calabria o Catanzaro, altri ancora potrebbero giurare che stavo a Milano, altri, infine, hanno riconosciuto in quella foto le ramblas di Barcellona. Ebbene, si ero a Napoli, ero con la Famiglia, ero con Giuseppe Zeno ed ero andato a vedere proprio un Suo spettacolo al Teatro sito in via Chiaia.

Ero a Napoli ed - è vero - ho scritto: "La mia città"! Non so dire razionalmente perché ho scritto così. L’ho scritta e basta, così, senza pensarci tanto. Mi è sembrata la cosa più naturale del mondo e non credevo di suscitare tante reazioni o di fare cosa sgradita o sollevare obiezioni da parte di qualcuno. L’ho fatto e basta. Son vissuto 23 anni in Calabria, 23 a Roma e 2 - solo due anni - a Napoli.

Non c’è un motivo logico per giustificare quella frase. Eppure è così e non si può spiegare perché è così, non lo si può spiegare se non, forse, trasferendosi sull’altro bordo dell’intelligenza, sul bordo più alto che chiamano irrazionale, mistero, imprescrutabile, ignoto. Capita una cosa che senti tua, una vicinanza così ravvicinata da far apparire lontano tutto il resto, un effetto così efficace da farti sentire completamente a tuo agio.

Pur senza rinnegare nulla perché sono e rimango calabrese fin nel midollo, sono e rimango romano d’adozione. Pur se amo infinitamente la Calabria e, ovviamente, adoro l’eterna Roma.

È questo, e non ha senso star li a disquisire sugli anni che hai passato o hai vissuto da una parte o dall’altra. È una magia, chiamiamola se vogliamo così ma è qualcosa di più di una magia perché - pur se della magia ha il senso del fatato, del soprannaturale - la senti come cosa concreta, come cosa distintamente palpabile pur nel suo indecifrabile flusso, come qualcosa che c’è pur non essendoci.

E stai bene e quando stai bene così non c’è bisogno di altro: solo stare li e godere istante per istante di ciò che ti avvolge, che ti contiene, che ti abbraccia, che ti inebria, che ti fa volare. Volare non così, tanto per dire, ma volare per davvero perché quella sensazione ha i connotati estatici del volo, ha i connotati estatici del librarsi e volteggiare nell’aere. Questo è!

E tutto questo l’ho ritrovato in ciò che gli amici attori ci hanno proposto al Sannazaro: "io, Raffaele Viviani". Ed è stata un’esplosione di musica, di canto, di scene mimate, di danze ora ritmiche, ora quasi dinoccolate, ora compassate come la tristezza che coglie lentamente. È stata un’esplosione di emozioni, di ricordi, di percorsi forse ancestrali, di tuffi in un passato che nessuno di noi - nati in un’epoca diversa da Don Raffae’ - ha vissuto ma che, pur tuttavia, ha ben saldo dentro di se, dentro il proprio io di scugnizzo che balla la rumba.

È stata un’esplosione di passi, si, di passi degli artisti verso il pubblico e del pubblico verso gli artisti, una sorta di incontro proprio là - nel golfo mistico - l’ideale buca dove tutto nasce e tutto si perde in questa indistinta ricerca della dimensione dove tutto è e non è in egual misura e nello stesso momento.

È stata un’esplosione di sapori, di odori, di sensazioni. Non so come ciò sia stato possibile ma ho sentito distintamente le atmosfere della mia Napoli, le stesse atmosfere che ho ritrovato - nella celeberrima friggitoria di piazza Trieste e Tresto, li a due passi dal San Carlo - in un morso dato ad una pizza fritta o nell’odore della ricotta di cui è infarcita l’appagante sfogliatella napoletana, la sfogliatella della mia Città. È stata un’esplosione, forse interiore, ma io il botto, il fragore, il boato l’ho sentito e come.

È stata un’esplosione e pazienza per quelli che "lo spettacolo ha ampi margini di miglioramento", pazienza perché lo hanno visto da un bordo dell’intelligenza diverso dal mio, un bordo posto più in basso, un bordo dal quale tutte quelle esplosioni non si sentivano. Erano attutite dal nefasto silenziatore della nostra finzione quotidiana che, forse, può essere vinta solo attraverso un’altra finzione, una finzione più vera, più alta, più intima, più nostra: il Teatro! Il Teatro napoletano!

Il Teatro della mia Città ...

Avv. Domenico Monteleone


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