Approfondimento

Calabria: rinunciare alle divisioni per fermare l’emigrazione

Con la ’ndrangheta, le partenze di massa sono il problema più grave della regione
venerdì 10 settembre 2010.
 

È in corso il rientro degli emigrati. Vanno a nord. Un flusso notevole, rapido, incisivo.

Dopo le vacanze, in Calabria lo svuotamento s’avverte subito. A settembre, nelle strade dei paesi, specie quelli interni, regna la quiete ordinaria. In giro si respira aria d’attesa; palpabile, consueta, condizionante. Come se dovesse arrivare un Godot capace di restituire fiducia alle comunità, segnate dalle partenze, dalla disoccupazione e dall’incedere del tempo. Come se un evento esterno, mancato troppo a lungo, potesse cambiare stati, dinamiche e destino d’un popolo, colpito dalle dominazioni, dalla mancanza di lavoro e dalla disgregazione sociale.

Per certi versi, le scene di questi giorni riportano al senso del Dialogo d’un venditore d’almanacchi e di un passeggere, di Giacomo Leopardi. Mi riferisco alla proiezione della nostra gente rispetto al futuro, la quale, partiti parenti e amici fuori sede, assume i connotati d’una speranza sommessa e vincolata, ciclica.

C’è la coscienza corale, giusto all’esodo degli emigrati, del ritorno allo statu quo ante: alle scuole, che non di rado registrano meno iscrizioni, alla spesa alimentare, alla preoccupazione per il guardaroba, alle provviste, al silenzio desolante dell’inverno, all’abitudine e alla precarietà sociale.

La realtà è più complessa, perfino altra nelle città degli uffici; ma il racconto dell’appennino calabrese, dell’interno, cioè, spesso declassato col bollo transeunte di «provincia», è ancora limitato alle sagre, alle celebrazioni e alle scaramucce della politica.

Il problema dell’emigrazione - benché drammatico, intanto nelle zone di montagna - non è centrato, non ne è colta la portata reale, non se ne valutano abbastanza gli effetti in ambito culturale, economico, sociale ed anche politico: pregiudizi, timori, chiusure, depauperamento del patrimonio pubblico, diminuzione della domanda di beni, carenza di servizi, aumento dei disagi, permanenza di potentati et coetera.

Di là da sbrigative negazioni e oltre la retorica sul villaggio globale, entro il quale è ritenuto pacifico spostarsi per lavoro, lo spopolamento - purtroppo crescente, nonostante i recenti “rimpatri” indotti dalla crisi - comporta una caduta su tutti i fronti e alimenta l’affezione per folklore e consumismo, strumenti privilegiati della conservazione.

Il primo dipende da un’esigenza di compensare la perdita della memoria, avvenuta negli anni con la distruzione dei segni della storia; sicché, nella definizione dell’identità collettiva, sono stati accentuati elementi secondari od esterni. A San Giovanni in Fiore (Cosenza), per esempio, prevalgono, quali emblemi propri, alcune pietanze e usanze della tradizione, in vero manco tra le più antiche. Mentre va colpevolmente a dissolversi la presenza spirituale dell’abate Gioacchino - testimoniata da leggende popolari (apparizioni di fantasmi in località Junture, che potrebbero essere suggestioni, tramandate, del Visio admiranda de gloria Paradisi, opera riconducibile al profeta). Il consumismo come valore origina, invece, dalla sostituzione della cultura della partecipazione solidale - caratteristica della vita contadina e, anche per causa dei traumi psicologici delle migrazioni, speciale nel dopoguerra - con l’esposizione del superfluo, che in un tempo serve ad apparire e nascondere.

Nella «società liquida» del mercato, emigrare non è ancora, in Calabria, una scelta libera: in generale, il contesto obbliga a cercare altrove occasioni che qui sono precluse. Non c’è una responsabilità del momento, di una parte politica da processare. Piuttosto, si tratta di un’evidenza: se tanti giovani si trasferiscono altrove, dopo gli studi, significa che non confidano nella possibilità di trovare occupazione a casa propria.

Di solito, le controdeduzioni, a riguardo, sono due: i cambiamenti economici e antropologici prodotti dalla globalizzazione e la diffusa incapacità, in Calabria, di rischiare nell’impresa. A questo proposito, l’allargamento delle reti di produzione e commercio e la condivisione di saperi e conoscenze non hanno emancipato la nostra terra dai rapporti di forza tipici; sul presupposto che l’attesa sia più utile della reazione. Dunque, per essere concreti, innanzi all’assistenza a fondo perduto di masse proletarie, non c’è stata un’analisi partecipata delle conseguenze nel lungo periodo, né l’indicazione dell’alternativa radicale. In merito all’imprenditoria, poi, molte volte il successo di un’impresa non si basa, da noi, sulla bontà di un’idea o sull’intraprendenza di chi ci investe soldi e tempo.

Se quanto detto si riscontra, è ora di rinunciare all’attesa e alla rassegnazione; è ora di superare l’emigrazione come esperienza dolorosa - così la descriveva, all’inizio degli anni Novanta, l’etnopsichiatra Salvatore Inglese. È ora di cercare le ragioni che uniscono e di rimuovere quelle che dividono. È ora di ricordare, senza l’illusione o la mitologia dello «zio d’America», che veniamo da migranti, il cui sacrificio ed esempio dimostra il valore d’un popolo intero, sovente reietto in luoghi stranieri ma più spesso smembrato in terra madre.

Forse, il motivo principale per convergere è fermare ulteriori partenze.

Emiliano Morrone e Carmine Gazzanni


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