Inchiesta

La rivolta dei precari inesistenti

Il sindaco taglia i sussidi e a San Giovanni in Fiore scoppia la protesta: «Ridateci il fondo sollievo»
martedì 10 maggio 2005.
 

Riproposta l’inchiesta di Gian Antonio Stella su San Giovanni in Fiore, pubblicata sul Corriere del 10 maggio 2004. Omaggio al grande giornalista del Corriere della Sera.

San Giovanni in Fiore - Costretto a cambiare uno dietro l’altro 17 lavapiatti, perduti perché troppi puntavano a un sussidio, il cuoco che gestisce la Scuola Alberghiera di San Giovanni in Fiore, s’è fatto un’idea netta dei progetti assistenziali al Sud: «Siano maledetti!». Quanto al sindaco, non gliene parlate: è assediato da febbraio da una folla di disperati che bloccano la statale, occupano il Comune, si incatenano alle ringhiere: «Abbiamo fame!». E intorno c’è chi liscia loro il pelo da destra e chi da sinistra, chi promette leggine e chi interpellanze parlamentari, chi ammicca che può mettere una buona parola e chi assicura che grazie all’onorevole... Al voto! Al voto! Pochi posti come questo bel paese antico tra i pini laricii della Sila, lungo la strada da Cosenza a Crotone, possono illustrare meglio il fallimento di mille toppe provvisorie inutilmente piazzate sugli sbreghi del Mezzogiorno. Fallimento economico, politico, morale. Del quale sono responsabili in tanti: aspiranti benefattori in buonafede e spregiudicati coltivatori di clientele, anime candide e anime nere, generosi teorici meridionalisti e scafatissimi professionisti della promessa a vanvera.

Stando ai dati dell’Ufficio attività produttive, su 18.577 residenti di questo che si picca d’essere il Comune più popoloso d’Italia oltre i mille metri sul mare, le partite Iva sono 984, cioè una ogni 19 abitanti: meno della metà della media veneta. Gli artigiani e quelli che lavorano nelle aziendine sparse qua e là sono sì e no un migliaio. Quelli che campano coi negozi e i negozietti (le botteghe d’abbigliamento sono 65, quelle di scarpe 38, le bigiotterie 42!) un altro migliaio, i professionisti sono una sessantina, i contadini 54. Fine. Al punto che Giovan Battista Barberio, un consulente aziendale che siede nel Consiglio comunale per la Margherita, ha calcolato che «a mettere tutti insieme quelli che fanno impresa da soli o con rari dipendenti non si arrivi al 2,6% della popolazione. Da piangere».

Tutti gli altri lavorano per la macchina pubblica: 496 insegnanti dalle elementati al liceo, 138 bidelli e personale vario scolastico, 328 impiegati all’Asl, 6 all’Inps, 14 all’Ispettorato agrario, 20 all’Enel, 152 al Comune, compresi il sindaco e gli assessori... Oppure tirano avanti aggrappati a una pensione (1557 dell’Inps, quasi altrettante dell’Inpdap...), a un assegno di accompagnamento oppure a un contrattino precario come i 93 benedetti da un posto tra i lavoratori socialmente utili, i 38 del gruppo dei lavoratori di «pubblica utilità» o i 614 del cosiddetto «Fondo sollievo». Quanto agli iscritti come disoccupati all’ufficio collocamento, compresi i tanti che fanno cento lavoretti in nero, sono una marea: 5.997.

Dicono le statistiche macro-economiche che è tutto il Sud ad andare alla deriva verso la sottoccupazione e l’assistenza. E certo non da oggi, se è vero che secondo la Commissione parlamentare sulla miseria del 1951, già allora la popolazione attiva meridionale era cresciuta dal 1861 solo del 4% contro un aumento delle persone a carico del 228%. Ma qui a San Giovanni in Fiore, una realtà storicamente estranea alle infiltrazioni mafiose, la deriva meridionale e l’immensa difficoltà di individuare soluzioni spiccano in modo accecante.

Una dopo l’altra, spiega il sindaco Riccardo Succurro che guida una giunta rossa come rosse son sempre state le amministrazioni dagli anni mitizzati dell’occupazione delle terre, si sono prosciugate tutte le fonti. Prima l’edilizia, che con le rimesse degli emigrati aveva portato a uno sviluppo urbanistico scriteriato dando però lavoro a un sacco di gente. Poi il pozzo dei forestali, che grazie al rimboschimento della Sila dopo la spoliazione per danni di guerra da parte degli inglesi, erano arrivati ad essere addirittura 800 per ridursi oggi, col blocco del turn-over, a 60. Finché, nel dicembre scorso, non ha smesso di buttare anche il terzo pozzo, quello del Reddito minimo d’inserimento che, promosso dal governo dell’Ulivo, per qualche anno aveva portato in paese 1.278 assegni mensili.

Era una manna, quella pioggia di soldi che avrebbe complessivamente sparpagliato 14.335.885 euro pari a quasi 30 miliardi delle vecchie lire. Una manna perfino più ghiotta dei rimborsi regionali per il bestiame divorato dal lupo della Sila, nobile fiera che deve aver rischiato l’estinzione per indigestione se è vero che in una sola notte si sarebbe mangiato 22 bestie tra vacche, pecore, cavalli e montoni. Tanto più che i compiti assegnati in cambio dello stipendio assistenziale erano così vaghi da sfondare la barriera del ridicolo. Come nel caso dei 6 incaricati di «sviluppo relazionale» o i 403 addetti al «sostegno dei propri genitori».

Da tutta Europa arrivarono, per avere il sussidio. E chi rientrò dalla Svizzera e chi dalla pianura padana. Chi si licenziò dal lavoro. Chi chiuse l’officina, chi il negozio, chi il laboratorio artigiano. Chi per fare punteggio si separò dalla moglie pur restando a dormirci insieme. Chi si segnò a carico il parentando intero. Per lo spirito collettivo del lavoro, già lontano dal calvinismo, fu una devastazione. L’obiettivo di tutti pareva lo stesso: avere la prebenda statale per poi arrotondare con qualche lavoro in nero.

Chiuso il rubinetto, a dicembre del 2003, è dilagata la disperazione. Manifestazioni. Picchettaggi. Blocchi stradali. Occupazioni del Municipio, sgomberato l’altro giorno dalla polizia: «Abbiamo fame!». «Il guaio è che per un sacco di tempo il ribellismo ha pagato», sospira il sindaco. «Per ben tre volte, nell’86, nel ’92 e nel ’96, rivolte di questo genere si sono chiuse coi ribelli che davano un elenco di gente da assumere e i commissari prefettizi che cedevano. I 634 del «fondo sollievo» vengono da lì. Ma quella stagione è finita. Fi-ni-ta. Noi abbiamo cercato di costruire qualcosa di più duraturo. Alternativo a quelle soluzioni provvisorie e clientelari. E da tempo insistiamo perché venga applicata la legge regionale che prevedendo un uomo ogni 65 ettari di parco ci dovrebbe garantire 415 forestali. Ma sono cose difficili da spiegare, a chi per tanto tempo è stato illuso dalla promessa di un assegno. Molto difficile».

«Facevo il cuoco a Udine, sono tornato perché questo è il mio paese», spiega Piero Bibbiani, uno dei 200 manifestanti in guerra da febbraio. «Sono tre notti che non dormo! Ho il frigorifero vuoto! I miei figli! Che ci do da mangiare, ai miei figli?». E non chiedetegli perché mai sia tornato se aveva un lavoro: «Voglio vivere qui. Non voglio regali, voglio lavorare. Ma qui». Antonio Barile, consigliere comunale di Forza Italia, gli dà ragione. Come dà ragione a tutti gli altri manifestanti orfani del reddito minimo: «Sono vittime di cinquant’anni di politica sbagliata. Non credo che la risposta possa essere solo no». Ma certo, sa che al governo, a Roma e a Catanzaro, c’è proprio il suo partito. E sa che il sindaco di sinistra si trova a dover negare ciò che Berlusconi e il governatore Chiaravalloti per primi devono negare da destra. «Però...». Però? «Insomma, si può fare di più...».

Mica è facile cavalcare la tigre, dopo decenni di promesse e aggiustamenti, di scambi elettorali e clientele. E mica è facile andare alle elezioni così, tenendo ferma la barra, a destra e a sinistra, tra furbizie di imbroglioni e sfoghi di disperazione autentica. E il dramma scuote l’intero Mezzogiorno. Da Orta di Atella, Caserta, dove addirittura il 54% degli abitanti venne benedetto dal regalo del reddito minimo, a Isola Capo Rizzuto dove, tra le proteste e le rivolte seguite all’inchiesta su 600 assegni (su 1800 in totale) incassati da chi non ne aveva diritto, il commissario prefettizio Antonio Ruggiero allarga le braccia sconsolato: «E’ spaventoso: stanno facendo tutti campagna elettorale promettendo sussidi su sussidi. E intanto le officine chiudono e i campi vengono abbandonati e tutte le attività produttive vanno in malora».

Gian Antonio Stella

(da www.corriere.it)


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