Editoriale

Linguaggio e discorso politico. Della lotta alla finanza e ai programmi elettorali

Un contributo per il superamento del renzismo
domenica 12 ottobre 2014.
 

di Emiliano MORRONE

Ci sono parole oscene, vuote e irripetibili. Ne è pieno il vocabolario della politica, oggi fuori del sociale, priva di contenuti e luogo di costante blasfemia.

In realtà, però, il problema è ancora un altro: la politica non ha più voce perché le sue parole sono dettate dalla finanza occidentale, che ha imposto un linguaggio tecnico-burocratico a una classe dirigente supina, scelta per ratificarne i piani, drogata di progressismo capitalistico e insensibile rispetto al mistero, alle condizioni e al senso della vita.

Per esempio, la scuola pubblica è stata trasformata, nel silenzio della politica, in mercato generale dell’incultura, in cui si vende a caro prezzo un sapere minuto, frammentato, preventivamente sintetizzato, funzionale a orientare gli studenti verso una visione sempre più parziale del mondo e del futuro, fondata sulla logica bancaria debito-credito, che nulla dice su chi e come produce debito, su chi e perché ha maturato credito.

In realtà, la sovversione dei princìpi fissati nelle costituzioni repubblicane - sovranità popolare, libertà ed eguaglianza innanzi alla legge - si materializza e rappresenta proprio nel sistema debito-credito della finanza occidentale, gestito dalle banche centrali e commerciali e poi alimentato dai governi, parlamenti, agenzie di formazione e media. La sovversione dei valori - religiosi e laici - del lavoro, della produzione e della ricompensa, intesi anche in ambito morale e per esempio espressi nella famosa parabola cristiana dei talenti (Mt 25, 14-30), si concentra nella “coppia ontologica” debito-credito.

Tutti sappiamo, a prescindere dalla vicenda Fiat di Sergio Marchionne, che oggi non conta realizzare buone automobili nel rispetto degli operai della catena di montaggio; l’importante è che le vetture piacciano e si vendano, anche se durano poco e se escono da processi industriali di sfruttamento, da ricatti aziendali e riduzione a ingranaggio fungibile della forza lavoro umana.

Così, la produzione è mera apparenza: il singolo prodotto non è di qualità e nemmeno utile, ma sembra garantire al compratore-possessore uno status, una soddisfazione ed emancipazione che in realtà non esistono, se non nel suo immaginario, identico a quello della collettività che ha introiettato i disvalori propagandati con/per quello specifico pezzo di mercato.

In sintesi, la globalizzazione del post-post-moderno si può intendere come sovversione definitiva dei princìpi pubblici giuridicamente codificati e dei valori fondativi delle società democratiche, raggiunta con l’estensione dell’apparenza a ogni ambito dell’attività umana.

La politica non si sottrae a questo schema, anzi ne è totalmente succube. Matteo Renzi è, al momento, il paradigma dell’apparenza del - e al - potere, che si esprime con linguaggio di superficie ed effetto, del tutto antipolitico.

La politica è invece progetto, nel senso heideggeriano del termine. Il discorso politico, pertanto, deve essere di prospettiva, partendo dall’analisi del presente e dalla memoria del passato.

La politica non può proporre le «ricette» berlusconiane, perché le ricette competono ai medici, i quali, peraltro, hanno un prontuario che le case farmaceutiche hanno piazzato con metodi risaputi.

Il discorso politico vero non ha nulla da vedere, allora, con i programmi elettorali, ma riguarda l’orizzonte comune immaginato e perseguito da candidati e forze politiche. Il grande imbroglio - già lo diceva canzonatorio Carmelo Bene - si concretizza con la menzogna dei programmi, in cui si elencano obiettivi specifici sulla base delle aspettative dell’elettorato, anche quelle opportunamente condizionate attraverso la tv, il cinema, i troll di Internet e i prodotti di largo consumo.

Il discorso politico è per definizione alto, perché non vi è nulla di più alto della politica, che riunisce responsabilità, sacrificio, passione e carità cristiana, cioè dedizione completa nei confronti degli altri. Perciò, le parole della politica nascono, per statuto, dalla sofferenza interiore per la degenerazione e distruzione contemporanea, voluta e compiuta dalle banche, artefici della sovversione di cui si scriveva prima.

Ancora, le parole della politica vengono, al di fuori di ogni renzismo, dall’esperienza diretta della cancellazione dei segni e delle opere del passato, dello stravolgimento dei modi - umani - di vivere e relazionarsi, della trasformazione dell’ambiente in spazio commerciale o commerciabile, senza scrupoli per i danni al paesaggio, alla natura e alla salute.

Le parole della politica autentica, perciò, non possono essere espressioni idiote di un manuale del candidato 2.0, redatto e distribuito da banche e apparati di potere, che ogni volta scelgono una faccia, un volto elettorale, costruendo il personaggio di governo con una comunicazione martellante.

Un esempio di questi meccanismi è la comparsa di Gianluca Callipo, eleggibile alle recenti primarie del centrosinistra per la scelta del candidato governatore della Calabria. Giovane sindaco di Pizzo (Vibo Valentia), Callipo è stato inserito d’un tratto nel flusso dell’informazione calabrese, proposto come l’innovatore della corrente renziana del Pd e come catalizzatore delle energie, competenze e proiezioni dei giovani. I suoi strumenti sono stati Twitter e le frasi fatte, rispettivamente negazione concreta di ogni approfondimento e meccanica ripetizione di formule persuasive, già condivise su larga scala in maniera acritica. Prova lampante è, a riguardo, l’espressione - usata da Callipo nei suoi giri elettorali - «marketing territoriale», che, insieme all’insopportabile «volano di sviluppo», è quanto di più vacuo la politica abbia saputo trasmettere e il quarto potere universalizzare.

Ecco, «marketing territoriale» non significa niente: è una di quelle “pose” verbali che si usano in mancanza di argomenti, nel disordine di pensiero e discorso che caratterizza i politici dell’euro-era, inscatolati dal sistema della finanza privata e messi in bella mostra sugli scaffali del supermercato elettorale. Di più, «marketing territoriale» rivela in sé la volontà di assoggettare un territorio a logiche terze, esterne, innaturali, perché renda a pochi a scapito di molti.

Due anni fa, Ida Dominijanni mi parlò di una degenerazione sull’impegno a livello locale, ormai assorbito da un territorialismo di maniera, nemico di un’impostazione della politica basata sull’insieme e sul concetto del futuro. Altra verità, aggiungo, è che il territorio è diventato l’area delle speculazioni spacciate per opportunità. Che poi in loco non ci sia l’indispensabile, ospedali, strade, scuole, trasporti, importa a una minoranza e non è oggetto di discussione e battaglia politica.

Io vivo nell’altopiano della Sila, nella solitudine e bellezza dei suoi monti. Anche qui si osserva un rapido declino; ma non per un tardivo ammodernamento. I campi sono stati abbandonati, la piccola ferrovia tace e cresce l’emigrazione. Dagli anni Cinquanta in avanti, grazie all’Ovs, vi fu una vasta antropizzazione della zona, con forti investimenti per l’occupazione: nell’agricoltura, nell’allevamento e nelle attività collegate.

Oggi, nel 2014, si è perduto quasi tutto quel patrimonio di coesione sociale e tipicità. Che noi, per i nuovi politici alla Callipo, dovremmo surrogare col «marketing territoriale» o magari con le biomasse, che nell’eloquio politico garantiscono redditi e prospettive.

Ci sono parole oscene, vuote e irripetibili. Ne è pieno il vocabolario della politica, oggi fuori del sociale, priva di contenuti e luogo di costante blasfemia.


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