di Emiliano MORRONE
Ci sono parole oscene, vuote e irripetibili. Ne è pieno il vocabolario della politica, oggi fuori del sociale, priva di contenuti e luogo di costante blasfemia.
In realtà, però, il problema è ancora un altro: la politica non ha più voce perché le sue parole sono dettate dalla finanza occidentale, che ha imposto un linguaggio tecnico-burocratico a una classe dirigente supina, scelta per ratificarne i piani, drogata di progressismo capitalistico e insensibile rispetto al mistero, alle condizioni e al senso della vita.
Per esempio, la scuola pubblica è stata trasformata, nel silenzio della politica, in mercato generale dell’incultura, in cui si vende a caro prezzo un sapere minuto, frammentato, preventivamente sintetizzato, funzionale a orientare gli studenti verso una visione sempre più parziale del mondo e del futuro, fondata sulla logica bancaria debito-credito, che nulla dice su chi e come produce debito, su chi e perché ha maturato credito.
In realtà, la sovversione dei princìpi fissati nelle costituzioni repubblicane - sovranità popolare, libertà ed eguaglianza innanzi alla legge - si materializza e rappresenta proprio nel sistema debito-credito della finanza occidentale, gestito dalle banche centrali e commerciali e poi alimentato dai governi, parlamenti, agenzie di formazione e media. La sovversione dei valori - religiosi e laici - del lavoro, della produzione e della ricompensa, intesi anche in ambito morale e per esempio espressi nella famosa parabola cristiana dei talenti (Mt 25, 14-30), si concentra nella “coppia ontologica” debito-credito.
Tutti sappiamo, a prescindere dalla vicenda Fiat di Sergio Marchionne, che oggi non conta realizzare buone automobili nel rispetto degli operai della catena di montaggio; l’importante è che le vetture piacciano e si vendano, anche se durano poco e se escono da processi industriali di sfruttamento, da ricatti aziendali e riduzione a ingranaggio fungibile della forza lavoro umana.
Così, la produzione è mera apparenza: il singolo prodotto non è di qualità e nemmeno utile, ma sembra garantire al compratore-possessore uno status, una soddisfazione ed emancipazione che in realtà non esistono, se non nel suo immaginario, identico a quello della collettività che ha introiettato i disvalori propagandati con/per quello specifico pezzo di mercato.
In sintesi, la globalizzazione del post-post-moderno si può intendere come sovversione definitiva dei princìpi pubblici giuridicamente codificati e dei valori fondativi delle società democratiche, raggiunta con l’estensione dell’apparenza a ogni ambito dell’attività umana.
La politica non si sottrae a questo schema, anzi ne è totalmente succube. Matteo Renzi è, al momento, il paradigma dell’apparenza del - e al - potere, che si esprime con linguaggio di superficie ed effetto, del tutto antipolitico.
La politica è invece progetto, nel senso heideggeriano del termine. Il discorso politico, pertanto, deve essere di prospettiva, partendo dall’analisi del presente e dalla memoria del passato.
La politica non può proporre le «ricette» berlusconiane, perché le ricette competono ai medici, i quali, peraltro, hanno un prontuario che le case farmaceutiche hanno piazzato con metodi risaputi.
Il discorso politico vero non ha nulla da vedere, allora, con i programmi elettorali, ma riguarda l’orizzonte comune immaginato e perseguito da candidati e forze politiche. Il grande imbroglio - già lo diceva canzonatorio Carmelo Bene - si concretizza con la menzogna dei programmi, in cui si elencano obiettivi specifici sulla base delle aspettative dell’elettorato, anche quelle opportunamente condizionate attraverso la tv, il cinema, i troll di Internet e i prodotti di largo consumo.
Il discorso politico è per definizione alto, perché non vi è nulla di più alto della politica, che riunisce responsabilità, sacrificio, passione e carità cristiana, cioè dedizione completa nei confronti degli altri. Perciò, le parole della politica nascono, per statuto, dalla sofferenza interiore per la degenerazione e distruzione contemporanea, voluta e compiuta dalle banche, artefici della sovversione di cui si scriveva prima.
Ancora, le parole della politica vengono, al di fuori di ogni renzismo, dall’esperienza diretta della cancellazione dei segni e delle opere del passato, dello stravolgimento dei modi - umani - di vivere e relazionarsi, della trasformazione dell’ambiente in spazio commerciale o commerciabile, senza scrupoli per i danni al paesaggio, alla natura e alla salute.
Le parole della politica autentica, perciò, non possono essere espressioni idiote di un manuale del candidato 2.0, redatto e distribuito da banche e apparati di potere, che ogni volta scelgono una faccia, un volto elettorale, costruendo il personaggio di governo con una comunicazione martellante.
Un esempio di questi meccanismi è la comparsa di Gianluca Callipo, eleggibile alle recenti primarie del centrosinistra per la scelta del candidato governatore della Calabria. Giovane sindaco di Pizzo (Vibo Valentia), Callipo è stato inserito d’un tratto nel flusso dell’informazione calabrese, proposto come l’innovatore della corrente renziana del Pd e come catalizzatore delle energie, competenze e proiezioni dei giovani. I suoi strumenti sono stati Twitter e le frasi fatte, rispettivamente negazione concreta di ogni approfondimento e meccanica ripetizione di formule persuasive, già condivise su larga scala in maniera acritica. Prova lampante è, a riguardo, l’espressione - usata da Callipo nei suoi giri elettorali - «marketing territoriale», che, insieme all’insopportabile «volano di sviluppo», è quanto di più vacuo la politica abbia saputo trasmettere e il quarto potere universalizzare.
Ecco, «marketing territoriale» non significa niente: è una di quelle “pose” verbali che si usano in mancanza di argomenti, nel disordine di pensiero e discorso che caratterizza i politici dell’euro-era, inscatolati dal sistema della finanza privata e messi in bella mostra sugli scaffali del supermercato elettorale. Di più, «marketing territoriale» rivela in sé la volontà di assoggettare un territorio a logiche terze, esterne, innaturali, perché renda a pochi a scapito di molti.
Due anni fa, Ida Dominijanni mi parlò di una degenerazione sull’impegno a livello locale, ormai assorbito da un territorialismo di maniera, nemico di un’impostazione della politica basata sull’insieme e sul concetto del futuro. Altra verità, aggiungo, è che il territorio è diventato l’area delle speculazioni spacciate per opportunità. Che poi in loco non ci sia l’indispensabile, ospedali, strade, scuole, trasporti, importa a una minoranza e non è oggetto di discussione e battaglia politica.
Io vivo nell’altopiano della Sila, nella solitudine e bellezza dei suoi monti. Anche qui si osserva un rapido declino; ma non per un tardivo ammodernamento. I campi sono stati abbandonati, la piccola ferrovia tace e cresce l’emigrazione. Dagli anni Cinquanta in avanti, grazie all’Ovs, vi fu una vasta antropizzazione della zona, con forti investimenti per l’occupazione: nell’agricoltura, nell’allevamento e nelle attività collegate.
Oggi, nel 2014, si è perduto quasi tutto quel patrimonio di coesione sociale e tipicità. Che noi, per i nuovi politici alla Callipo, dovremmo surrogare col «marketing territoriale» o magari con le biomasse, che nell’eloquio politico garantiscono redditi e prospettive.
Ci sono parole oscene, vuote e irripetibili. Ne è pieno il vocabolario della politica, oggi fuori del sociale, priva di contenuti e luogo di costante blasfemia.
Linguaggio e discorso politico. Della lotta alla finanza e ai programmi elettorali
A COMMENTARE E A METTERE IN EVIDENZA LA PROFONDITA’ E LA PORTATA DELLA RIFLESSIONE DEL DIRETTORE DI "LA VOCE DI FIORE", MI SIA CONSENTITO RICHIAMARE L’ATTENZIONE SULL’AVVIO DEL SUO ARTICOLO E INVITARE I NOSTRI LETTORI A RIFLETTERE SUL COMMENTO DI AMARTYA SEN SULL’ASSEGNAZIONE DEL PREMIO NOBEL A Malala Youssafzay E A Kailash Satyarthi:
L’economista indiano Nobel nel ’98: “Il premio a lei e a Satyarthi ispira anche noi scienziati
Grazie al loro coraggio abbiamo capito qual è la via per uscire dalla miseria: il mondo deve finanziare l’istruzione”
“Malala ci insegna che diritti e scuola camminano insieme. Ora tocca ai governi”
Sono due persone che esprimono valori positivi e hanno avuto il coraggio di correre grandi rischi
È un premio in difesa dei bambini e una denuncia verso la cultura della tolleranza degli abusi
Intervista di Enrico Franceschini (la Repubblica, 12.10.2014)
LONDRA «QUESTO Nobel ci ricorda che la scuola è il mezzo principale per combattere ignoranza, miseria e sopraffazione». Così Amartya Sen, l’economista e filosofo indiano che ha vinto il Nobel per l’Economia nel 1998, reagisce al premio per la Pace assegnato venerdì a Malala Youssafzay e a Kailash Satyarthi. «È un Nobel in difesa dei bambini e, speriamo, anche un gesto per spingere India e Pakistan al riavvicinamento», dice il cattedrattico di Harvard.
Professor Sen, come ha saputo del Nobel a Malala e a Satyarthi?
«Ero a una conferenza all’università di Ginevra, mi hanno dato la notizia e chiesto a caldo le reazioni. Ho provato una grande felicità. A freddo dico che sono deliziato dalla scelta. Si tratta di due persone che non soltanto esprimono valori altamente positivi, ma hanno anche avuto il coraggio di correre grandi rischi per portare avanti le proprie idee. La giovanissima pachistana Malala, naturalmente, è la più nota dei due, diventata famosa in tutto il mondo per ciò che le è capitato. L’indiano Sayarthi ha svolto tuttavia un lavoro molto importante per lungo tempo, impegnandosi per salvare dal lavoro minorile i bambini delle zone depresse, che vengono sfruttati e sottoposti a terribili abusi. Entrambi sono accomunati dal riconoscimento del ruolo fondamentale dell’istruzione nelle nostre vite, dall’avere capito che la scuola, la lotta contro l’ignoranza, è spesso una via decisiva, se non la principale, per uscire dal gorgo della miseria e della sopraffazione».
È dunque in primo luogo un premio in difesa dei bambini?
«Non c’è dubbio. Ed è una denuncia della cultura della tolleranza degli abusi nei loro confronti, nel senso di negazione dei diritti più elementari. Una tolleranza tipica del subcontinente asiatico, ma anche di molte altre zone del mondo».
Cosa ammira di più in Malala?
«Il fatto che non è mai indietreggiata, non ha mai smesso di credere nella fede nella scuola, nell’istruzione, a dispetto della arretratezza della regione in cui è cresciuta e delle minacce a cui è stata sottoposta. Questa sicurezza sarebbe ammirevole in qualunque individuo in circostanze analoghe, lo è ancora di più in una persona così giovane, una ragazza che aveva 15 anni quando è stata attaccata e ne ha appena 17 oggi. Malala ha compreso che l’educazione scolastica è la soluzione a molti problemi. La sua tenacia intellettuale è straordinaria».
E che cosa la colpisce di più in Satyarthi?
«Un atteggiamento simile a quello di Malala. La sua organizzazione è diventata un movimento che combatte e denuncia persone molto violente, persone pericolose. Sarebbe comprensibile spaventarsi. Lui non ha mai fatto un passo indietro».
C’è qualcosa di particolare nell’assegnazione di questo Nobel per la Pace?
«Il Nobel per la Pace è diverso dagli altri pre- mi Nobel per un motivo molto chiaro: dovrebbe premiare le azioni, i fatti, non la teoria. Naturalmente quando uno studioso vince il Nobel per l’economia o per la medicina o per la fisica con il suo lavoro accademico anche questo ha delle applicazioni pratiche e contribuisce al miglioramento della società, al progresso, o perlomeno ha il potenziale per farlo. Con questo Nobel abbiamo il fenomeno opposto: il premio dato a Malala e a Satyarthi per le loro azioni pratiche, concrete, nella vita di tutti i giorni, può e anzi deve avere un impatto sul lavoro scientifico, accademico, deve avere effetti sull’istruzione, ispirando gli educatori a raddoppiare gli sforzi per diffonderla e i governi a finanziarli».
Un altro aspetto del premio che è stato notato da molti commentatori è che va a un indù e a una musulmana, a un indiano e a una pachistana. In questo senso è stato paragonato a due Nobel del passato, quelli a Mandela e De Klerk per la fine dell’apartheid in Sudafrica e ad Arafat, Rabin e Peres per l’inizio del processo di pace fra israeliani e palestinesi. Può avere lo stesso valore anche per India e Pakistan?
«Sono due Paesi che sono stati a lungo insieme e che sono separati dal 1947, l’anno della partizione. È difficile prevedere l’effetto del Nobel a Malala e Satyarthy sulle tensioni fra queste due grandi nazioni. Non sono due leader politici. Ma anche un’iniziativa civile può aiutare a spingere India e Pakistan verso il dialogo. Il conflitto viene da tanti problemi, non particolarmente da problemi religiosi perché anche in India esiste un’ampia minoranza musulmana, ma ragioni politiche, storiche, economiche. Anche un piccolo gesto, come è questo Nobel rispetto alla vastità dei problemi, può cominciare a smuoverli. Auguriamoci che accada».