La ’ndrangheta di solito non uccide. Salvo a Duisburg. Giovanni Strangio docet, per chi indaga.
A Milano, Fausto e Daniele Cristofoli, proprietari del locale Shining Bar, nei pressi della stazione centrale, hanno ammazzato Abdul Salam Guibre, 19 anni, di colore.
I Cristofoli non sono della Santa né hanno il passaporto calabrese.
Tre neri rubano dei dolci nel bar. I titolari li inseguono, li acciuffano, li ingiuriano, ci litigano e finiscono a sprangate il giovane Abdul.
Costernazione e condanna da parte del sindaco di Milano, Letizia Moratti, e del presidente del senato, Renato Schifani.
I tg ne parlano di striscio: è morto un "negro di merda", questa una delle espressioni rivolte dagli italiani - secondo le notizie pubblicate dalla stampa elettronica - a uno dei tre ragazzi in fuga.
Tra qualche giorno, la storia sarà finita e nella patria delle onorate potrà riprendere l’odio di razza, escluso dalla Costituzione e tollerato per necessità politica.
Il bastone di ferro con cui è stato finito Abdul non è pesante, per la massa, come gli oggetti con cui stranieri hanno tolto la vita a italiani innocenti.
Tornasse Cesare Zavattini, ci scriverebbe un amaro "Ladri di Baci".
Io penso che dovremmo riflettere sull’accaduto. E respingere l’ipocrisia.
Tutti uguali. Un uomo non può uccidere un altro uomo. Ma in Italia siamo arrivati alla preistoria. Ed è soprattutto colpa nostra.
Emiliano Morrone
Vignetta - il manifesto, 16.09.2008.
Abba Vive
Comitato per non dimenticare Abba, per fermare il razzismo
L’omicidio di Fermo è l’ultimo atto del profondo razzismo italiano
Igiaba Scego, scrittrice (Internazionale, 07 Lug 2016)
Emmanuel Chidi Namdi, 36 anni, è morto.
Quando ho letto la notizia mi è mancato il fiato.
Davvero è successo?
Davvero si può scappare da Boko haram, uno dei gruppi terroristici più efferati del mondo, e non sopravvivere all’Italia?
Davvero l’Italia è peggio di Boko haram?
Penso alla moglie che ha assistito impotente all’omicidio. Penso a quegli attimi prima della morte di Emmanuel. Mi immagino una coppia in una tranquilla sera di estate a Fermo, mano nella mano, progettando il futuro. E poi un uomo nel buio, il suo odio, la sua spranga, il sangue, il cervello che schizza tutto intorno, la paura, il dolore, la furia.
Dicono che è stato un ultrà. Che parola strana ultrà. Non ha un reale significato. Ti rimanda allo stadio, alle curve, al tifo. Però nasconde a volte anche altro. Nasconde il razzismo, il fascismo, un certo gusto di menar le mani. Ma dire ultrà, ripeterlo in tutti i telegiornali, è anche un modo di non prendersi le responsabilità di un atto efferato. È lui, solo lui, l’uomo con la spranga, il colpevole, sembrano giustificarsi tutti. Lui, un balordo, uno strano, un emarginato in fondo. Succede, sembra dire la vulgata pubblica, non è colpa nostra se ci sono certe bestie in giro. E ci dimentichiamo che una bestia non nasce per caso. Che anche un omicidio a sfondo razziale è terrorismo.
“Not in my name”, l’ho scritto e detto tante volte contro gli attentati jihadisti. Ci siamo schierati quando occorreva farlo e odiosamente nessuno lo ha notato. Il mondo islamico a cui appartengo sa di essere la prima vittima del terrorismo, ma sa anche che il terrorismo nasce dalle sue devianze. E anche il razzismo, l’odio di cui è avvolto tutto il paese, è roba nostra. Made in Italy. Non è un fatto isolato. E ora, dopo la morte di Emmanuel, non possiamo far finta di nulla. Dobbiamo capire da dove viene quest’odio, quali sono le cause profonde di questa sciagura.
Ed ecco che il nome di Emmanuel Chidi Namdi si mischia con tanti altri con Ahmed, Jerry, Abba, Samb.
Non è la prima volta che succede.
Il primo di cui ho memoria era un somalo, uno studente promettente caduto in disgrazia, di nome Ahmed Ali Giama.
Ahmed era arrivato a Roma nel 1978. Alle spalle aveva una borsa di studio in Unione Sovietica, la voglia di cambiare il mondo, un comunismo a cui credeva più di se stesso. Poi qualcosa andò storto nella sua vita. L’Unione Sovietica lo rimandò a casa, in Somalia, perché il suo comportamento era stato considerato inopportuno. La motivazione ufficiale era che “beveva troppo”. Ma Ahmed Ali Giama sapeva di non bere più degli altri, sicuramente non più di quanto si faceva in Russia. Si sentiva vittima di una profonda ingiustizia.
Ahmed arriva in Italia perché fugge da una dittatura militare, quella di Siad Barre, che gli sta stretta. Ma anche qui niente va bene. Una vita sempre più ai margini, tra i cartoni e le mense che offrono un po’ di cibo. E poi quella notte terribile, tra il 21 e il 22 maggio 1979, quattro ragazzi annoiati gli danno fuoco e lui muore senza un perché sotto l’arco del tempio della Pace, a Roma. I ragazzi erano fascisti? Uno aveva simpatie di destra, ma la ragazza era una che stava nei movimenti, una compagna. Un omicidio né di destra né di sinistra. Solo un grande squallore.
Poi c’è stato Giacomo Valent a Udine. Era uno studente brillante. Anche la sua famiglia era brillante. Una famiglia di quelle che si vedono nei telefilm americani. Il padre era stato cancelliere dell’ambasciata italiana in Jugoslavia e la madre era una splendida somala di nome Egal Ubax Osman. Una coppia che univa il bianco e il nero, con figli belli, eleganti, brillanti. A Udine una famiglia così non l’avevano mai vista. Le ragazze andavano in visibilio per quei Valent. Davvero erano fantascienza. Giacomo, poi, era di sinistra e questo lo rendeva ancora più bello, ancora più tosto. A volte a scuola discuteva con i compagni di destra. Qualcuno lo chiamava scimmia e usava il razzismo perché non aveva argomenti davanti a quel ragazzo così intelligente. Giacomo non si lamentava mai per le battutacce. Andava avanti a testa alta. Sapeva di valere.
Fu così che molti a Udine cominciarono a non sopportare quella famiglia troppo perfetta. Come si permetteva quel “negro” di frequentare una scuola friulana esclusiva? Dovevano dargli una lezione. E poi era troppo di sinistra. E così Giacomo pagò quell’odio strisciante. Due compagni di classe lo attirarono con una scusa in un capanno e lì giù botte e coltellate. Daniel P. (14 anni) e Andrea S. (16 anni) volevano dare una lezione a un diverso. E la lezione furono 63 coltellate che lasciarono Giacomo in un lago di sangue. Era il 1985.
L’Italia dell’apartheid
In seguito arrivò il 24 agosto 1989 a Villa Literno. Era già da parecchi anni che giovani africani venivano usati dai caporali per la raccolta dei pomodori. Erano di fatto schiavi, pagati una miseria, per un lavoro faticoso ed estenuante. I ragazzi dormivano in baracche fatiscenti e anche se non c’era spazio per nulla, loro cercavano comunque di trovare un posticino per i loro sogni e il loro futuro che prima o poi sarebbe decollato. Stringevano i denti, “non sarà per sempre”. Lo deve aver pensato anche Jerry Maslo, un sudafricano scappato dall’apartheid. Jerry aveva tanti sogni. Soprattutto quello di poter camminare libero per le strade del suo paese, senza che nessuno gli dicesse dove poteva o non poteva passare. Sognava la fine dell’apartheid. Non mancava molto. Nelson Mandela aveva resistito così tanto in carcere anche per lui. Jerry lo sapeva, ci sperava.
Ma il giovane sudafricano non vide mai la fine del regime di segregazione razziale perché fu ucciso da chi odiava il colore della sua pelle. Non era il Sudafrica dell’apartheid, era l’Italia dell’apartheid. Quattro persone, con delle calze di nylon sulla testa, fecero irruzione nelle baracche dove dormivano gli africani e cominciarono quella mattanza insensata. Si impossessarono anche di due spiccioli. Ma non erano i soldi il motivo dell’incursione. Il motivo era lo stesso degli assassini di Giacomo Valent: dare una lezione al diverso. L’assassinio di Jerry Maslo fece capire all’Italia che il razzismo non era solo quello degli altri.
L’Italia si risvegliò più brutta, più sporca e più cattiva. Si parlò tanto di razzismo in quel 1989. Lo stesso grido di dolore, che oggi accompagna la morte di Emmanuel Chidi Namdi, accompagnò la salma di Jerry Maslo. Il funerale fu trasmesso in tv. L’Italia pianse, più per se stessa che per Jerry. Era stato un colpo scoprirsi razzista.
A quello di Jerry Maslo seguirono altri omicidi. Abdul Salam Guibre, detto Abba, un ragazzo italiano, una seconda generazione, originario del Burkina Faso preso a sprangate a Milano perché aveva rubato un pacco di biscotti. Lenuca Carolea, Menji Cloptar, Eva Cloptara, Danchiu Caldaran, bambini rom morti in un rogo a Livorno. Samb Modou e Diop Mor, uccisi a Firenze da un simpatizzante di Casa Pound . E come non ricordare, solo due mesi fa, Mohamed Habassi, torturato e ucciso nel silenzio generale dei mezzi d’informazione e della politica? Torturato non a Raqqa, ma a Parma?
Ed ecco che improvvisamente ripenso alle parole sentite in uno spettacolo teatrale. In scena Mohamed Ba, attore e mediatore culturale senegalese. Mohamed il 31 maggio 2009 fu pugnalato mentre aspettava l’autobus a Milano. Un uomo gli si era avvicinato dicendo: “Qui c’è qualcosa che non va”. Poi arrivò quella pugnalata allo stomaco. Mohamed Ba è vivo per miracolo. Non fu soccorso subito. La gente non si fermò ad aiutarlo. L’odio era nella mano che lo aveva pugnalato, ma anche nello sguardo indifferente di chi non lo aveva soccorso mentre si stava dissanguando.
Odio gli indifferenti, aveva detto Gramsci in tempi molto simili ai nostri. Ed è proprio l’indifferenza per questo odio, che viene sparso ogni giorno da giornali, tv e leader politici, che uccide e tortura. Ci siamo abituati ai titoli razzisti e urlati dei mezzi d’informazione, alle battute politicamente scorrette e agli articoli “perbene” scritti da persone “insospettabili” che parlano di civiltà superiori, di occidente moderno contro selvaggi di diversa provenienza. E siamo indifferenti verso la storia di questa Italia che si è formata e costruita sul razzismo e sul solco che ha tracciato sulla pelle del diverso. Sul luogo dell’omicidio a Fermo, il 7 luglio 2016. - Cristiano Chiodi/Sandro Perozzi, Ansa Sul luogo dell’omicidio a Fermo, il 7 luglio 2016. (Cristiano Chiodi/Sandro Perozzi, Ansa)
Dopo l’unità d’Italia si dovevano fare gli italiani, quante volte ce lo hanno detto a scuola? Nel 1861 gli italiani, di fatto, non esistevano. Esistevano i lombardi, i siciliani, i piemontesi, i toscani. L’Italia era pura astrazione. Per questo si cominciò a sottolineare l’idea di un italiano bianco ed europeo. Diverso dal suo meridione per prima cosa. Quindi prima si colonizzò il sud Italia, poi si colonizzò l’Africa per rimarcare questa unicità e diversità italiana. E il nero (ma anche il meridionale) divenne, di fatto, quello a cui l’Italia si doveva opporre.
Una giovane studiosa, Marta Villa, in un suo saggio (contenuto in Costruire una nazione) ricorda un episodio di goliardia tutta maschile legato all’impresa africana. In Calabria un bracciante disoccupato del luogo fu oggetto di uno scherzo a dir poco crudele. Il poveretto aveva il naso schiacciato, la bocca larga, la fronte bassa e un lungo mento che lo faceva somigliare all’imperatore d’Etiopia, contro cui l’Italia di Mussolini aveva non solo scatenato una guerra tra le più assurde del novecento, ma anche una campagna razzista allucinante. Il bracciante fu fatto ubriacare da alcuni abitanti del paese. Poi gli fu impiastricciata la faccia di nerofumo per farlo assomigliare ancora di più a un africano. Infine fu avvolto in un lenzuolo bianco e fu fatto montare su un asino. Così conciato venne portato in giro per il paese, che sfogò la sua violenza su di lui con sputi e cattiverie di ogni genere.
L’Africa, o almeno l’idea di un’Africa da conquistare e sottomettere, era “un perfetto altro da sé atto a rinforzare e così incorporare finalmente l’immagine di una identità italiana condivisa”. I riferimenti alla violenza contro l’altro si ritrovano spesso nelle canzoni fasciste della conquista dell’Etiopia. In Stornelli neri viene detto: “Se l’abissino è nero gli cambierem colore! / A colpi di legnate poi gli verrà il pallore!”. In Povero Selassié, invece, i camerati cantano: “Non piangere, mia cara, stringendomi sul petto / con la pelle del Negus farò uno scendiletto!”.
In una canzone per bambini, Topolino va in Abissinia, c’è un Topolino fomentatissimo che vuol menare le mani e uccidere tutti. Imbrattare le sue appendici da topo con il sangue di gente aggredita impunemente. Nella canzone Topolino dichiara candidamente che “appena vedo il Negus lo servo a dovere. Se è nero lo faccio diventare bianco dallo spavento”. Ma il Negus non gli basta. Topolino vuole massacrare tutti. E ha un motivo ben preciso, che spiega ai suoi comandanti: “Ho molta premura. Ho promesso a mia mamma di mandarle una pelle di un moro per farci un paio di scarpe”. Ma sua madre non è l’unica ad avere bisogno di pelli. Topolino infatti aggiunge: “A mio padre manderò tre o quattro pelli per fare i cuscini della Balilla. A mio zio un vagone di pelli perché fa il guantaio”. E poi chiosa: “Me la vedrò da solo con quei cioccolatini”.
Topolino va in Abissinia, una canzone per bambini....
La macchina del razzismo
Gli omicidi a sfondo razziale in Italia non sono casi isolati, sono alimentati da un pensiero profondo che non è stato mai sradicato. Sono atti quasi rituali, che si ripetono uguali a se stessi nel tempo, una rottura del quotidiano che sfoga su un elemento percepito come altro le frustrazioni di una società in crisi. Ecco perché il colonialismo e l’antisemitismo in Italia non sono fatti secondari, incidenti di percorso della nazione. Come ha detto Tatiana Petrovich Njegosh in Gli italiani sono bianchi? Per una storia culturale della linea del colore in Italia (in Parlare di razza, Ombre Corte), sono di fatto “eventi cruciali nella costruzione dell’identità nazionale italiana”.
Paola Tabet lo aveva già perfettamente spiegato nella prefazione di un volume fondamentale per capire il razzismo in Italia, La pelle giusta. L’antropologa aveva raccolto dei temi di bambini delle elementari dal titolo “Se i miei genitori fossero neri”. In questi temi i bambini scrivono cose come “se i miei genitori fossero neri li metterei in lavatrice con Dasch, Dasch Ultra, Omino Bianco, Atlas, Ace detersivo, Ava, Dixan 2000, Coccolino, Aiax così sarei sicuro che ritornerebbero normali”. I bambini sono razzisti allora? No, certamente. Ma hanno respirato un’aria tossica che considera una pelle giusta e l’altra sbagliata.
Per Paola Tabet il dispositivo xenofobo è “come un motore di un’automobile” che “può essere spento, può essere in folle, andare a cinquemila giri. Ma anche spento, è un insieme coordinato. Il sistema di pensiero razzista, che fa parte della cultura della nostra società, è come questo motore, costruito, messo a punto e non sempre in moto né spinto alla velocità massima. Il suo ronzio può essere quasi impercettibile, come quello di un buon motore in folle. Può al momento buono, in un momento di crisi, partire”.
Ed è ripartito a Fermo, città che già nel 2011 aveva visto l’aggressione di alcuni somali presi di mira da un commando squadrista. Occorre fermare quel ronzio di cui parla Paola Tabet. Un ronzio fatto di mezzi d’informazione che flirtano con il razzismo, di leader politici che incitano all’odio per una manciata di voti, di benpensanti che pensano male abbracciando apocalittici scontri di civiltà. Dobbiamo fermare quel ronzio. Perché l’Italia merita di vivere in armonia abbracciando tutti i suoi colori.
Frantz Fanon, un’anatomia del razzismo
di Valeria Ribeiro Corossacz (Alfadeta-2, 17 marzo 2016)
Da tempo introvabile nelle librerie italiane (lo aveva pubblicato Tropea vent’anni fa), la riedizione di Pelle nera, maschere bianche di Frantz Fanon è una scelta editoriale quanto mai opportuna. Leggere, o rileggere, questo testo classico scritto nel 1952 è infatti l’occasione per riflettere sulle radici del nostro razzismo, che non nasce con i flussi migratori, e sulle nostre esperienze coloniali, questioni che sembrano non riguardarci e che troppo spesso consideriamo sconnesse dalla nostra attualità.
Questo testo non è solo un documento storico, ma uno strumento per capire e smontare ciò che abbiamo imparato a considerare come inevitabile ed eterno: l’atteggiamento razzista che porta al semplice pensiero «Toh, un negro!», al quale si accompagna l’inferiorizzazione dei neri e la valorizzazione dei bianchi.
Uno dei punti più pregnanti dell’analisi di Fanon è proprio l’articolazione di una visione della realtà sociale in cui neri e bianchi esistono nella relazione che li definisce come tali, e non in sé. Quello che intende operare Fanon è, scrive, «un tentativo di comprensione del rapporto Nero-Bianco». È questo certamente il motivo per cui la sua opera è stata ampiamente ripresa dagli studi sulla bianchezza, un campo in crescita anche in Italia. Quando Fanon scrive che il «problema nero» non è unicamente dei neri, non solo vuol dire che è possibile (e necessario) che «un’esperienza soggettiva possa essere compresa dall’altro», ma anche affermare l’urgenza di studiare la posizione dei bianchi nel razzismo e così realizzare quel nuovo umanesimo che difende (su questo è utile rimandare alla lettura di Paul Gilroy).
Pelle nera, maschere bianche mette a nudo quei processi di invisibilizzazione del razzismo che portano a non vedere come i corpi, i loro movimenti e il posto che occupano siano costantemente modellati, e come questo addomesticamento dei corpi costituisca la forma più efficace e profonda di apprendimento del razzismo, sia per i bianchi sia per i neri. Prima della parola (anche forzatamente gentile, infantilizzante) e dell’atto violento, il razzismo è gesto, sguardo. Fanon parla proprio di «epidermizzazione» di questa inferiorità, qualcosa che va oltre l’interiorizzazione dello sguardo inferiorizzante del bianco da parte del nero, e che struttura il proprio sé attraverso il corpo.
Pelle nera, maschere bianche non solo ci parla degli aspetti più nevrotizzati di questo processo, oggetto dello sguardo clinico, ma analizza come il razzismo penetri in tutte e tutti noi. Non dobbiamo tacere questo aspetto del razzismo, ma anzi affrontarlo, anche se può sembrare difficile da cogliere, da oggettivare: se sono imprescindibili i dati statistici che quantificano il razzismo, altrettanto irrinunciabile è studiarlo nelle vite, nei corpi e nelle parole degli individui.
Fanon ci spinge a osare, a pensare che la relazione bianco-nero può e deve essere sovvertita, e lo fa parlando a neri e bianchi. Non solo. Fanon è capace di osservare le differenze di classe che attraversano il razzismo, e di porre la questione della solidarietà, una questione di estrema attualità: «Spesso mi sono fatto fermare in pieno giorno da ispettori di polizia che mi prendevano per un arabo e quando scoprivano la mia origine s’affrettavano a scusarsi: “Sappiamo bene che un martinicano è diverso da un arabo”. Protestavo con veemenza».
La nuova edizione di Pelle nera, maschere bianche è accompagnata da un’introduzione di Vinzia Fiorino, i cui pregi sono molteplici: restituirci alcuni percorsi di lettura che fanno di quest’opera una lettura attuale, offrire un percorso della sua ricezione e circolazione in Italia, e mettere in luce come essa si presti a diverse appropriazioni e accostamenti che attraversano le lotte dei gruppi dominati. Un accostamento in particolare ci viene proposto, quello tra Fanon e Carla Lonzi, che può apparire spiazzante.
Secondo Fiorino, non si tratta di guardare all’analogia tra donne e neri in quanto gruppi di oppressi, ma di soffermarsi su un comune modo di procedere di Fanon e Lonzi - basato anche sul loro, seppur diverso, dialogo con Hegel - nell’analisi della realtà dell’oppressione che porta a «una rottura senza continuità», e che spinge i soggetti dominanti a pensarsi a partire da sé: «la mia coscienza negra non si dà come mancanza».
L’accostamento tra Fanon e Lonzi apre anche ad altri scenari che ci segnalano conflitti e trasformazioni. Esso ci permette di osservare un momento dell’esperienza politica di Lonzi, e del femminismo italiano, rappresentato dall’incontro con Elvira Banotti nel gruppo «Rivolta». La figura di Banotti ci riporta proprio a quei meccanismi di rimozione del nostro passato coloniale, a come essi abbiano alimentato il nostro razzismo attuale, e come essi interroghino ancora oggi le pratiche femministe.
La sessualità come terreno sociale è un altro possibile tema comune a Fanon e Lonzi. Si tratta di un campo che è stato oggetto di un lavoro collettivo di decostruzione da parte del femminismo, che ha svelato il carattere non naturale dell’eterosessualità, e come la sessualità della donna sia condizionata dai rapporti di potere tra i sessi. I due capitoli «La donna di colore e il Bianco» e «L’uomo di colore e la Bianca» descrivono alcuni dei meccanismi di quello che poi sarà analizzato dal femminismo come l’intreccio di razzismo e sessismo.
Tuttavia in Fanon ritroviamo inevitabilmente una concezione della sessualità il cui perimetro rimane l’eterosessualità come dato indiscusso. Sarà il femminismo a nominare, e oltrepassare, questo perimetro.
Un Paese che non sa punire i razzismi
di Francesco Bonami (La Stampa, 10.03.2013)
Il grande paradosso italiano è che pur vivendo in una dittatura del «talk show», travolti quotidianamente da tsunami di parole, loro, le parole, da noi non hanno nessun valore sociale e nessuna conseguenza morale. Tutti possiamo dire il contrario di tutto nel giro di poche ore. Il dialogo civile è costantemente inquinato da parole, a volte pesanti, a volte gravissime, pronunciate irresponsabilmente sia da personaggi politici ed istituzionali sia da poveri disgraziati che dalle gradinate di uno stadio urlano infami improperi a giocatori avversari di diversa origine etnica.
L’Italia è di fatto un Paese profondamente razzista. Un razzismo mascherato ora come barzelletta, ora come sfottò. Un razzismo protetto da un profondo senso di impunità del quale ognuno di noi sembra depositario.
Siamo razzisti verso la gente di diverso colore, verso quella di sesso diverso dal nostro, contro quelli che hanno gusti sessuali differenti dai nostri, contro chi professa religioni che non conosciamo, contro chi abituato a lavorare di più nel proprio Paese vien qui e ci frega il lavoro. Dalla nostra bocca può uscire di tutto, certi che nulla di quello che diciamo avrà conseguenze, non tanto legali ma morali o sulla nostra posizione nei meccanismi professionali e civili ai quali apparteniamo.
Il conduttore televisivo viene beccato su YouTube ad urlare morti di fame a dei disoccupati che lo contestano per la strada e la cosa è vista dai suoi «superiori» come una divertente improvvisazione che aumenta la popolarità del suo programma. Un famoso critico d’arte da del «filippino» pubblicamente e a mezzo stampa ad un collega per disprezzarlo e imperturbabile continua ad essere ospitato a programmi televisivi e scrivere su riviste specializzate. Il giudizio della società è irrilevante, unico spauracchio sono le cause legali che ci possono arrivare per diffamazione e che intasano il sistema giudiziario. La dignità di chi ci circonda non c’interessa proprio. Ma la cosa peggiore è che sembra non interessarci nemmeno la nostra dignità interiore.
La responsabilità delle parole non ci appartiene più, cosa che in un periodo di campagna elettorale è ancora più spaventosa. Per un punto di percentuale siamo capaci di apostrofare un avversario tirando in ballo le menomazioni fisiche più tragiche o facendo commenti razziali allucinanti. Sto generalizzando? Assolutamente no. Scrivo tutto questo con cognizione di causa. Con la mia compagna, afroamericana di Buffalo, passiamo alcuni mesi dell’anno a Milano. Arrivando dagli Stati Uniti la mia preoccupazione è stata quella di far capire all’ignara signora quanto il mio Paese potesse essere razzista.
L’Italia, a differenza degli Stati Uniti, Paese profondamente razzista, non è in grado di creare gli strumenti per controllare e punire, non solo legalmente ma anche socialmente, chi non è capace di controllare i propri odi al di fuori delle pareti della propria casa, figuriamoci davanti ad un microfono di una televisione o di una radio.
Infatti, faccio qualche semplice esempio, la signora afroamericana ha presto scoperto di essere, anche lei come Balotelli, agli occhi di molti una «negretta». In un parco milanese dove tanti bambini diversi giocano ogni giorno, una madre si avvicina e le chiede se è stata assunta dalla famiglia della bambina che porta a passeggio. Risposta: «Sono stata assunta a vita essendo questa mia figlia». Reazione: «Non è possibile! La bambina è bianca! ». Negli Stati Uniti, ma anche in Inghilterra, a nessuno verrebbe in mente o avrebbe il coraggio fare domande del genere o esprimere opinioni simili a quelle della mamma meneghina. Firenze, la mia compagna con nostra figlia e sua madre, afroamericana pure lei, entrano in un ristorante semivuoto del centro nel quale, con una serie di scuse, non viene concesso un tavolo per pranzare.
Potrei raccontare altri «aneddoti» ma non è necessario. La questione non è personale, non è un aneddoto. La questione, grave e profonda, è una nostra responsabilità collettiva. In Italia siamo razzisti come in tanti forse tutti gli altri Paesi del mondo. Il problema è che noi facciam finta di non esserlo scherzandoci su, minimizzando, accusando di moralismo chi invece si scandalizza davanti alla nostra mancanza di controllo. Nei Paesi anglosassoni invece, essendo coscienti di questa orribile tendenza dell’animo umano, si sono premurati di correggerla con leggi scritte e non.
Se un qualsiasi individuo di qualsiasi categoria sociale e fiscale si azzarda a definire pubblicamente «negretto» un individuo con la carnagione scura non raccoglierebbe risate ma una definitiva condanna morale che gli impedirebbe di continuare qualsiasi attività professionale svolga, di successo o meno. Chi nel posto di lavoro fa battute offensive o sessuali ad un collega, maschio o femmina che sia, il giorno dopo non trova più la sua scrivania. Nessun santo sindacale potrà proteggere chi ha utilizzato la parola sbagliata.
Un’esagerazione? No. Un modo semplice ed efficace di ricordarci che le parole hanno un significato, un peso. Un sistema chiaro per non far mai dimenticare che noi siamo responsabili delle parole che diciamo, scherzando o meno. Morale? Se non regoleremo il razzismo in tutte le sue forme, verbali, sociali e civili, diventeremo un Paese morto, demograficamente e moralmente. Un Paese incapace di mettere, quando necessario, gli scherzi da parte è un Paese finito.
IL CASO
Razzismo, dodicenne cubano picchiato
da coetanei italiani per il colore della pelle
L’aggressione nel parco di un piccolo comune nel Milanese: il bambino in ospedale col naso rotto *
Era un anno e mezzo che quei ragazzini poco più grandi di lui - giusto un anno - lo avevano preso di mira per il colore della sua pelle. Un anno e mezzo di offese verbali. Per la prima volta sono passati dalle parole ai fatti. E per un dodicenne cubano la serata è finita con tanto spavento e il naso fratturato. Teatro dell’aggressione un parco di Zelo Surrigone, paese alle porte di Abbiategrasso, nel Milanese, dove il giovane - che giocava con il suo skateboard insieme con due coetanei - è stato avvicinato da altri tre ragazzini, di 13 anni, insultato e poi preso a spinte e qualche pugno.
Tornato a casa,ha raccontato l’accaduto alla madre e, successivamente, è stato condotto all’ospedale di Abbiategrasso. Al giovane - che è stato visitato nel reparto di otorinolaringoiatria del nosocomio di Magenta - è stata riscontrata una contusione al naso, con probabile frattura, e una lesione agli occhi. "Mio figlio era al parco con due amici della stessa età quando sono arrivati i tre ragazzini - ha spiegato la madre del ragazzo, che denunciato la vicenda ai carabinieri - Hanno salutato gli amici italiani e gli hanno chiesto il suo skateboard. Mio figlio glielo ha dato per andare a giocare con una altalena, ma quando ha visto che stavano per rompere lo skateboard è andato a riprenderlo e lì è iniziato tutto".
A quel punto, osserva la donna - cubana, madre del ragazzino e di un altro figlio, in Italia da 15 anni e divorziata dal marito italiano - "lo hanno insultato dicendogli ’sporco negro’ e ’negro di merda’, poi due lo hanno tenuto fermo e uno ha cominciato a colpirlo con pugni: gli hanno rotto il naso e gonfiato tutta la faccia. E’ successo tante volte che lo offendessero verbalmente - ha proseguito la madre - è una cosa che va avanti da circa un anno e mezzo, ma è la prima volta che gli mettono le mani addosso. I due amici italiani che erano con lui - ha chiosato - sono piccolini e tranquilli, si sono spaventati e gli hanno detto di smettere".
I tre aggressori - non ancora identificati con certezza, nonostante siano stati forniti dati abbastanza precisi sul loro conto - non frequentano la stessa classe del ragazzino cubano, ma studiano nella stessa scuola media, l’istituto comprensivo Gianni Rodari di Vermezzo, paesino contiguo a Zelo Surrigone. All’istituto composto da sei plessi distribuiti tra Vermezzo, Zelo Surrigone e Gudo Visconti fanno capo tre scuole dell’infanzia, due scuole primarie e una scuola secondaria di primo grado. Gli alunni iscritti e frequentanti sono circa 800 mentre i docenti sono un’ottantina.
"Di fronte ad atti discriminatori e di razzismo come questo, abbiamo il dovere di agire subito, soprattutto quando sono coinvolti giovanissimi, per combattere alle radici il fenomeno delle discriminazioni". E’ quanto afferma Massimiliano Monnanni, direttore generale dell’Ufficio per la promozione della parità di trattamento e la rimozione delle discriminazioni (Unar), operante presso il dipartimento delle Pari opportunità della presidenza del Consiglio dei ministri, che ha già provveduto a trasmettere alla competente Procura della Repubblica la notizia di reato inerente l’aggressione a sfondo razziale. "Al ragazzo e alla sua famiglia l’Unar assicurerà assistenza legale".
* la Repubblica, 03 settembre 2010
L’Arci: «Un minuto di silenzio per Abba»
L’Arci propone per il 23 settembre alle 12, alla chiusura del funerale di Abba, un minuto di silenzio da osservare in suo ricordo e ad inviare un messaggio di solidarietà alla famiglia. Il funerale può essere seguito in diretta anche su Radiopopolare. L’Unità.it partecipa al cordoglio.
Comunicato dell’Arci nazionale e dell’Arci Milano:
L’Arci invita ad osservare un minuto di silenzio e ad inviare messaggi di solidarietà alla famiglia
Si terranno domani i funerali di Abba, il ragazzo ucciso barbaramente a Milano la scorsa settimana, vittima di un clima di intolleranza razzista, in cui chiunque può sentirsi autorizzato a farsi giustizia da sé, anche per i più futili motivi.
Un clima di inciviltà, in cui la vita umana perde il suo valore universale ed acquista un peso diverso, magari se hai la pelle di un altro colore.
La grande e bella manifestazione di sabato a Milano ci insegna che è possibile reagire a questa barbarie. Una nuova generazione di migranti, nati in Italia, si affaccia sulla scena e chiede uguali diritti e opportunità, cittadini italiani a tutti gli effetti.
L’omicidio di Abba, le reazioni che ha suscitato, devono segnare l’inizio di una consapevolezza nuova. Per questo ci siamo opposti insieme a tanti altri alla derubricazione di questo delitto, alla negazione della sua matrice razzista.
L’Arci di Milano e l’Arci nazionale propongono per domani alle 12, alla chiusura del funerale, un minuto di silenzio da osservare in suo ricordo in tutti i luoghi di lavoro, in tutte le strutture territoriali dell’associazione, in tutti i luoghi di aggregazione. Un gesto di vicinanza alla famiglia, per chi non potrà essere presente al funerale, e un estremo omaggio a un ragazzo che voleva vivere come i suoi coetanei, da nero italiano.
Radiopopolare, che trasmetterà la diretta del funerale, annuncerà l’inizio del minuto di silenzio.
Inoltre, a tutti coloro che vogliono far giungere la loro solidarietà alla famiglia ed esprimere la loro indignazione per quest’atto di razzismo, proponiamo di inviare la loro testimonianza via mail all’indiririzzo milano@arci.it. I messaggi verranno girati alla famiglia di Abba. Perché non accada mai più.
* l’Unità, Pubblicato il: 22.09.08, Modificato il: 22.09.08 alle ore 18.44
Cronache razziste
di Maria Novella Oppo (l’Unità, 21.09.2008)
IL RAZZISMO è in primo piano nella cronaca nera come in quella politica (che, purtroppo, sempre più spesso è nera). Leghisti, ex fascisti e berluscones (compresi alcuni sedicenti socialisti), pur dicendo di non essere razzisti, non prendono mai le distanze dalle più schifose azioni o dichiarazioni razziste: si limitano a dire che si tratta di tutt’altro. Così, per esempio, uccidere un ragazzo gridandogli sporco negro, non è razzismo. Non è razzismo schedare i bambini rom. E non è razzismo gettare escrementi sul luogo dove deve nascere una moschea. Ma, se non è razzismo, che cos’è? Nessuno lo spiega e non lo ha spiegato, ieri ad Omnibus, neanche il sindaco di Verona, Tosi, al quale la conduttrice Luisella Costamagna chiedeva di condannare Borghezio e la manifestazione nazista di Colonia. Tosi si è limitato a rispondere: «Io non ci andrei». Così la Lega minimizza il razzismo e questo sappiamo a che cosa può portare. E più di tutti lo sanno i tedeschi, che ieri hanno proibito ai vari Borghezio di sfilare, mentre da noi sono al governo.
Abdoul, la città in marcia per ricordarlo
Via libera del pubblico ministero alla sepoltura: martedì mattina i funerali *
"Abba vive. Stop al razzismo". È questo lo striscione alla testa del corteo antirazzista partito da porta Venezia, dedicato ad Abdoul Guiebre, il 19enne di colore ucciso domenica mattina in via Zuretti. In testa al corteo, amici e familiari di Abdoul con in mano la foto del 19enne, appartenenti al comitato "Per non dimenticare Abba, per fermare il razzismo", organizzatore della manifestazione.
"C’è troppo razzismo, devono smetterla - ha esclamato poco prima della partenza Adriarata, la sorella di Abdoul - Quel che è successo è drammatico, nessuno può sentire il dolore che ho dentro, per avere un paese bello bisogna vivere insieme". Qualche episodio di tensione si registra per un migliaio di manifestanti che, staccatisi dalla testa del lungo corteo, hanno imboccato prima corso Vittorio Emanuele per arrivare in piazza Duomo e poi invece che terminare sulla piazza, come previsto, hanno proseguito per via Manzoni.
I manifestanti hanno percorso alcune centinaia di metri di corsa rovesciando alcuni cestini delle immondizie. I giovani, tra cui molti amici di Abdoul, hanno affrontato e spinto il cordone di polizia che si era creato, riuscendo a passare e iniziando a correre, mentre alcuni di loro tiravano calci e pugni contro motorini e macchine lungo la strada.
Le decine di manifestanti sono passati poi per via Santa Margherita e per piazza della Scala, dirigendosi lungo via Manzoni. Bloccato inevitabilmente il traffico e scesi i passeggeri dai tram, alcuni dei manifestanti sono saliti sopra i tram fermi, tenuti sotto controllo dalla polizia. Tra loro c’era anche lo zio di Abdoul, che ha cercato di placare gli animi gridando: "Non rovinate la nostra manifestazione".
Il vicesindaco Riccardo De Corato torna a ribadire che il delitto non ha avuto alcuna connotazione xenofoba e quindi la manifestazione ha un carattere squisitamente politico. "Milano non crede al razzismo - ha affermato De Corato - ma sulla vicenda del ragazzo ucciso c’è una parte, quella della sinistra radicale, che si ostina a rinfocolare una congettura smentita dagli organi inquirenti, dai magistrati dal questore, dal prefetto, dal capo della Mobile".
"Di fronte a questa realtà di fatto - ha concluso De Corato - è evidente che l’assillante ricorso al sostegno della piazza, con cinque manifestazioni in sei giorni, è puramente un’operazione di speculazione politica".
* la Repubblica, 20 settembre 2008.
VERITÀ
Abba era a terra, l’hanno colpito più volte
I risultati dell’autopsia sul giovane preso a sprangate. Tensioni a Milano
di Giuseppe Caruso (l’Unità, 19.09.20)08
Non un solo colpo, ma diverse sprangate. L’autopsia sul corpo di Abdul “Abba” Guibre ha confermato la ricostruzio- ne degli amici del ragazzo, sconfessando Fausto e Daniele Cristofoli, che davanti al gip Micaela Curami avevano sostenuto di aver sferrato un solo colpo. Nelle motivazione il giudice aveva parlato di «zone d’ombra» nella loro testimonianza, con riferimento anche al numero di colpi dati al povero Abdul quando era a terra, incosciente.
Ancora da chiarire però quando e come le sprangate siano state portate e chi ha sferrato quella che ha provocato la morte di Abba. Daniele Cristofoli, il figlio, 31 anni ed un piccolo precedente penale per un reto commesso nei confronti di un compagno di classe, se ne è presa la responsabilità. Ma gli inquirenti vogliono capire se invece non possa essere stato il padre Fausto, 53 anni, con alle spalle condanne per rapina a mano armata e stupro, a dare il colpo mortale Intanto i genitori di Abdul hanno voluto lanciare un appello alle persone che si trovavano alla finestra quel mattino e che hanno assistito all’episodio, affinché vadano dal magistrato o alla polizia per raccontare ciò che hanno visto. «Vogliamo ringraziare tutti coloro che ci sono stati vicini in questi giorni tragici» hanno detto «soprattutto il Comune di Cernusco sul Naviglio. Parteciperemo alla manifestazione indetta sabato alle 14.30 a Milano, perché vogliamo che nessuno muoia a causa del colore della propria pelle». I genitori di Abdul ieri mattina hanno effettuato il riconoscimento del corpo del figlio sul quale hanno riscontrato le svariate ferite accertate poi dall’autopsia.
Ieri si sono vissuti attimi di tensione durante il corteo organizzato dal Coordinamento dei Collettivi Studenteschi in memoria di Abdul. Mentre il corteo, formato da circa 200 ragazzi, transitava vicino al bar Shining di via Zuretti di proprietà dei Cristofoli, alcuni giovani hanno lanciato un secchio di vernice bianca e una bottiglia di vetro contro la saracinesca del locale. Dopo pochi minuti di confusione, con la polizia in assetto antisommossa schierata a difesa del bar, la manifestazione, partita da Largo Cairoli intorno alle 9.30, è ripresa senza incidenti . Molti gli slogan antirazzisti e contro le «politiche dell’insicurezza e dell’ignoranza» del governo. Al corteo ha partecipato anche la sorella di Abba.
Milano, dall’autopsia più colpi sul corpo di Abbo
Il risultato dell’autopsia sul corpo del 19enne Abdul Guibre non è riuscito a stabilire ancora con chiarezza se si è trattato di un pestaggio e da quanti il ragazzo morto è stato colpito.
Saranno necessari ulteriori accertamenti, disposti probabilmente con una perizia collegiale, a stabilire se sono stati vibrati più colpi con la spranga e con il bastone metallico, le armi sequestrate dalla polizia in via Zuretti, luogo dell’omicidio. Così come da stabilire resta da quali mani siano stati messi a segno i colpi. Per questo dalla spranga di ferro sono state prelevate tracce di Dna.
Giovedì mattina, intanto ci sono stati attimi di tensione durante il corteo antirazzista degli studenti milanesi che è passato per le vie dove Abdul Guibre, è stato ucciso a bastonate domenica scorsa.Perché non c’è nessun dubbio neanche per l’Istituto di medicina legale che il colpo sferrato con la spranga, che teneva aperto il portellone del chiosco-bar dei Cristofoli, sia stato quello fatale per Abdul.
Due secchi di vernice bianca e una bottiglia di vetro sono stati gettati contro le saracinesche del bar Shining di proprietà di Fausto e Daniele Cristofoli, padre e figlio che hanno rincorso e colpito a morte il ragazzo nato nel Burkina Faso.
La manifestazione era seguita da carabinieri e polizia in assetto antisommossa e le forze dell’ordine sono intervenute per riportare la calma tra i ragazzi, alcuni dei quali erano saliti sulle macchine in sosta davanti al bar degli aggressori, accusati di omicidio volontario anche se il pm non ha voluto riconoscere un movente razzista.
Alla manifestazione , che è sfilata anche nel punto esatto dove Abdul - Abbo per gli amici - è stato massacrato di botte, hanno partecipato anche i suoi parenti. La sorella ha anche parlato al microfono, chiedendo che «chi ha visto qualcosa, se ha un cuore, si faccia avanti e dica la verità».
I familiari di Abdul hanno riconosciuto sul corpo del ragazzo morto all’ospedale Fatebenetratelli non una sola ma diverse tracce di bastonate: lesioni ad un braccio, al capo e anche alle gambe, come ha spiegato l’avvocato Mirco Mazzali. La difesa dei Cristofoli e lo stesso Daniele, il 31enne che ha confessato di aver colpito Abbo, parlano invece di un’unica bastonata, casualmente risultata mortale, che il ragazzo sostiene di aver tirato per difendere il padre accerchiato.
Una versione, questa dei Cristofoli, che però finora non ha convinto il giudice, che ha convalidato i fermi.
Intanto la famiglia di Abdul lancia un appello agli amici perché chi ha visto, chi magari ha scattato fotografie col cellulare o girato dei filmati, si faccia avanti: «Parlino e aiutino le indagini».
La sorella di Abbo ha anche risposto, sempre parlando alla manifestazione, alla richiesta di comprensione avanzata dalla moglie e madre degli assassini, Tina Cristofoli. O meglio, ha detto: «Noi non rispondiamo e non accettiamo la richiesta di comprensione, fino a che la signora non ci spiegherà perché ha detto, subito dopo il fatto, che lei è al cento per cento razzista». «Lei almeno può andarlo a trovare in carcere suo figlio - ha spiegato la giovane - noi lo andremo a trovare Abbo?». E dopo ha ringraziato gli studenti presenti alla manifestazione, ha aggiunto: «Dobbiamo combattere ancora perché non succeda più, perché l’Italia è troppo indietro». Gli studenti hanno lasciato fiori sul luogo della tragedia e disegnato una grande scritta a terra "Abbo vive. Stop razzismo". Sugli striscioni e le magliette molti studenti portavano la sua foto stampata e la scritta: "Siamo tutti Abbo, non importa il colore della pelle".
I funerali dovrebbero svolgersi sabato o lunedì prossimo.E sabato è stata convocata anche una nuova manifestazione in suo nome.
* l’Unità, Pubblicato il: 18.09.08, Modificato il: 18.09.08 alle ore 19.38
Caro Abdoul, *
Caro Abdoul,
la prima cosa che ci preme dire, anzi gridare a gran voce è che tu non se morto perché hai preso un pacchetto di biscotti, ma perché in questo nostro Paese l’odio per il diverso è arrivato ad una misura insostenibile.
E’ successo proprio a Te che diverso non eri perché sei venuto in Italia da piccolino e qui hai vissuto la tua breve esistenza.
Con lucidità sorprendente per i tuoi giovani anni capivi però che non tutti erano affettuosi, accoglienti come i tuoi compagni, come noi, le tue maestre e come tutto l’ambiente scolastico che ti conosceva e ti voleva bene.
A volte, infatti, un po’ sconsolato ci dicevi che per te non ci sarebbe stato un buon futuro, poi la tua allegria e la tua vivacità avevano, fortunatamente, il sopravvento e ritornavi l’Abdoul di sempre spensierato e giocherellone.
Abbiamo un vivido ricordo di Te: alla presentazione delle attività didattiche delle elementari sedevi in prima fila con il tuo papà. Eri serissimo, con i tuoi splendidi occhioni neri, attenti a ciò che veniva illustrato.
Quando ti ritrovammo nella nostra sezione ne fummo molto contente e tutti insieme, tu noi e i tuoi compagni di classe intraprendemmo un percorso di conoscenza e di rispetto reciproco.
Eri benvoluto da tutti e mai in classe ci furono episodi di rifiuto nei tuoi confronti.
Il legame con te e la tua famiglia è rimasto sempre perché quando ci si incontrava ci raccontavi dei tuoi progetti e delle tue difficoltà.
Ciao Abdoul carissimo, te ne sei andato all’alba di un giorno di fine estate ad opera di due disgraziati, violenti, per i quali la vita di un ragazzo non ha nessun valore.
Con grande affetto
Le tue maestre
Teresa e Loredana
PUBBLICATA DA CERNUSCO INSIEME
http://www.cernuscoinsieme.it/web/piazzetta/comunicati/2008/080915_maestreabdoul.php
RAGAZZO "NEGRO" UCCISO A SPRANGATE : MORIRE DI SICUREZZA A MILANO! LA TANTO SBANDIERATA SICUREZZA PRODUCE MOSTRI PRONTI A UCCIDERE - HOMO HOMINI LUPUS!
CENTRO STUDI TEOLOGICI di MILANO
nota alla stampa
Milano, 16 Settembre 2008 - QUANDO ANZICHE’ AGIRE CON PROFILO BASSO E IN SILENZIO CON AZIONI CONCRETE RAGIONEVOLI E MISURATE A FAVORE DELLA SICUREZZA SI SBANDIERA UN CLIMA DI GENERALE E GENERICA UNIVERSALE AGGRESSIONE ED INSICUREZZA, ECCO CHE ARRIVANO GLI SCERIFFI (PREGIUDICATI) FAI DA TE!
QUEL CLIMA CHE HA CONTRIBUITO A CREARE UNA CERTA PARTE POLITICA BEN NOTA DELLA DESTRA ITALIANA COMINCIA A DARE I SUOI FRUTTI - ADESSO VIENE UCCISO UN RAGAZZO NERO CHE E’ ANCHE CITTADINO ITALIANO - IL SONNO DELLA RAGIONE GENERA QUESTI MOSTRI - SI GRIDAVA AL LUPO! AL LUPO! ADESSO IL LUPO E’ ARRIVATO DAVVERO E IL GOVERNO E’ IMPOTENTE!
Era da tempo nell’aria, ormai satura di messaggi allarmistici, fatti da una classe politica irresponsabile, che ha cavalcato una certa insofferenza popolare verso gli immigrati, con lo scopo di andare al potere in Italia, la scintilla che avrebbe fatto esplodere l’odio e il rancore verso chi italiano o padano non è.
Certo i due uomini, padre e figlio ( incredibile a dirsi!), uno che legittima l’altro, già pregiudicati, come dicono le cronache, si avventano su un ragazzo 19 enne che ha rubato qualche biscotto, e urlandogli i soliti epitteti verso chi ha il colore della pelle nera, gli fracassano il capo....
Sicurezza, ecco il nome diffuso fino all’ossessione: sicurezza, come se in questo mondo, senza un lavoro, senza economia umanamente intesa , senza neppure un minimo di umana solidarietà, sia possibile costruire alcunchè di sicuro, di giusto, di buono.
HOMO HOMINI LUPUS, l’uomo che diventa lupo per l’altro uomo.
Ecco cosa è una politica dell’odio e della caccia al diverso, di chi non è come me, come te.
Adesso i potenziali assassini, armati dalla classe politica più irresponsabile di tutta l’Europa che ha sfruttato la fobia e la paura inconscia di tutti per raggiungere un meschino potere, si aggirano pronti a farsi gustizia da sè, poichè l’odio verso i neri, verso gli ebrei, verso i gay, e verso ogni umana dversità non canonica ormai ha superato il livello di guardia e preme da ogni parte.
Adesso non serviranno a nulla quei soldatini messi agli angoli delle strade ben in vista a fermare un’orda di aggressori inesistenti come erano i tartari del famoso romanzo di Buzzati (il Deserto dei tartari)!
Quando l’odio e la violenza - sempre manifestata ovunque dalle televisioni agli stadi - ha penetrato nei cuori, non chiede altro che sfogarsi, su chiunque, con ogni pretesto: ecco quale sicurezza ci ha procurato una classe di politici senza scupoli, che per il potere sono disposti a tutto anche all’imbarbarimento dei rapporti umani e delle coscienze.
CENTRO STUDI TEOLOGICI di MILANO
Chiesa Cristiana Antica Cattolica e Apostolica
Diocesi di Monza e Lombardia
Centro Ecumenico
+ Mons. Giovanni Climaco MAPELLI
Vescovo
Padre Damiano Alessandro Di Lernia
Diacono
Razzisti a Milano. La stagione dell’odio
di Rinaldo Gianola *
Abdul è stato sprangato a morte ieri mattina alle 6, vicino alla Stazione Centrale di Milano. I killer lo hanno aggredito in via Zuretti, una strada che corre parallela, vicinissima, alla famosa via Gluck cantata da Celentano. Una zona popolare dove la solidarietà e l’amicizia, un tempo, si misuravano sul ballatoio, attorno ai cortili e alle ringhiere delle vecchie case.
I bar dei ferrovieri, il mercato del pesce, il Naviglio della Martesana dove nel dopoguerra i ragazzi facevano i tuffi, l’oratorio con i platani in mezzo al campo di calcio erano il tessuto di una società di lavoro, fatica e di passione politica. C’era in quella Milano un welfare non istituzionalizzato alimentato da una vicinanza elementare, umile ma solida di famiglie di operai e di molti immigrati.
In quei prati, prima che la speculazione del boom economico realizzasse il suo disastro, abbiamo giocato da ragazzi, superato a fatica pregiudizi e divisioni, diventando amici tra i banchi di scuola e i campetti di calcio abusivi: noi figli dei proletari del Nord e i figli dei “terroni” immigrati, i diversi di allora. I nostri papà consumavano la vita alla Pirelli Bicocca o alla Breda e noi crescevamo rissosi e incavolati come conveniva in quegli anni. Assieme andavamo in via Zuretti dove c’era la sede di “Giovani”, una rivista di musica alla moda, a caccia di foto e autografi. Pensavamo che Gianni Morandi e Laura Efrikian non si sarebbero mai lasciati. Poi, quando in tasca c’era qualche spicciolo, puntavamo sulla splendida gelateria di via Gluck per un cono, piccolo però. Quando Celentano cantò a San Remo «là dove c’era l’erba ora c’è una città...» noi ci sentimmo un po’ riscattati, sapevamo di cosa parlava.
Gli assassini hanno aspettato Abdul proprio qui, in questo nuovo incrocio dell’odio, nelle strade di una Milano che non c’è più e che ci manca. Dove sono finite la solidarietà e la pietà di una città una volta davvero riformista (ma non come si intende oggi...)? Dov’è quella Milano capace pure di obbligare i padroni del vapore a spalmare una parte dei loro profitti sulla comunità, che si sforzava di non lasciare soli gli ultimi, che arginava i rigurgiti fascisti invadendo le piazze? Scomparsa, tra una faticosa modernità e un’efficienza improbabile, mentre le banche e i profitti d’impresa scalano ovviamente le classifiche e siamo tutti diventati un grande ceto medio, mediamente inutili nelle nostre paure e gelosie.
Abdul è stato sprangato perchè non aveva pagato una “consumazione”, un piccolo furto di biscotti probabilmente. Abdul è italiano, un nostro concittadino originario del Burkina Faso. Era andato a ballare in un locale, poi quando già albeggiava aveva deciso coi suoi amici di fare un salto al Centro sociale Leoncavallo. Non ci è arrivato. «Sporchi negri, vi ammazziamo» hanno gridato gli aggressori, due milanesi, mentre lo colpivano con le mazze, riferiscono i testimoni. Per un piccolo furto si consuma un omicidio tremendo, incredibile, ma oggi spiegabile con l’aria che tira, con il clima politico e, come dire?, culturale del Paese.
Se i leghisti vanno in giro con il ddt per spruzzare le prostitute nigeriane, se il governo prepara l’espulsione di massa di quella moltitudine diversa rappresentata dagli immigrati (ultimo annuncio ieri del ministro Maroni alla sceneggiata padana di Venezia), se i fascisti riscattano il passato, se il ministro milanese La Russa celebra la Repubblica razzista di Salò, perchè sorprendersi se poi un nero viene ammazzato? E il sindaco Moratti non può cavarsela semplicemente affermando che questa crudeltà «è estranea alla tolleranza dei milanesi». Troppo facile.
Nella città dell’Expo 2015 gli amici del sindaco vanno in giro a bruciare i campi rom, a chiedere la distruzione dei tuguri dove si rifugiano gli ultimi immigrati e sono gli alleati della signora Moratti a organizzare le ronde contro le prostitute che deturpano l’arredo urbano e a consentire l’apertura dei circoli neonazisti di «Cuore Nero». In questa nostra città si respira un’aria xenofoba e fascista intollerabile. Così come non è tollerabile il tentativo, già in atto anche da parte della solerte Questura, di derubricare il delitto a sprangate come l’esito tragico di una rissa tra giovani scapestrati dopo un piccolo furto. Se anche gli aggrediti hanno cercato di difendersi allora è tutto meno grave, no?
Un ragazzo è stato ucciso a Milano dall’odio e dalla violenza razzista. Questo è il fatto. Se proprio non riuscite a trovare le parole giuste, cari signori almeno state zitti.
* l’Unità, 15.09.2008.
Il dolore del padre di Abdoul: "Il sindaco trasformi il funerale in una manifestazione sulla sicurezza
Per la prima volta ci siamo resi veramente conto di essere negri"
"Gli dicevo: non temere, sei italiano
l’hanno abbattuto come una bestia"
Non fumava, non beveva. La sua vita era divisa tra hip hop e lavori saltuari
di PIERO COLAPRICO e FRANCO VANNI *
MILANO - Il sussurro della "salat el mout", la preghiera islamica della morte, si propaga sin nelle scale di questo palazzone di Cernusco sul Naviglio. La fede aiuta, anche se le lacrime non se ne vanno: "Speriamo che qualcuno ci aiuti davvero a capire", ripetono gli amici, anche se capire questa Milano insanguinata non è facile. Abdoul detto Abba non aveva neanche diciannove anni ed è morto a bastonate, sotto il cielo grigio e piovoso di ieri mattina, al termine di una notte passata a sentire hip hop, e a muoversi in tram, in un lungo sabato senza ansie, con gli amici al fianco e la musica in testa.
Poi quel bar aperto e deserto. L’idea di prendere una scatola di biscotti chissà di chi è stata, ma è lui che la paga cara. I baristi, padre e figlio, scaricavano un furgone. L’hanno inseguito e raggiunto, avevano le spranghe. Hanno lasciato sull’asfalto lo "sporco negro" che sanguina dalla testa. Lo vedono là rannicchiato sull’asfalto e girano le spalle. Chiudono la saracinesca. E se ne vanno a casa.
"Sì, siamo stati noi", diranno nel pomeriggio di ieri, quando vengono rintracciati dai poliziotti della squadra Volante. Hanno avuto i loro nomi grazie ai vicini del bar, persone che si sono svegliate per le grida, gli insulti, le botte, le sirene. Per quei due baristi, con qualche piccolo problema giudiziario alle spalle, che alle 6.30 si sono trasformati in assassini.
Via Zuretti non è l’Alabama degli anni Sessanta, Milano non è una metropoli con i quartieri ghetto dove la polizia non entra e Abdoul, detto Abba, tutto era, meno che un criminale. Non lo dicono gli amici, lo raccontano le cose e le persone che si vedono là dove abitava questo ragazzo dall’"eterno sorriso". A cominciare dal padre, un operaio corpulento, in tuta blu anche di domenica, mentre la casa - stanno all’ultimo e ottavo piano - si riempie di gente, con le donne in cucina, gli uomini in salotto, dove campeggiano gli arazzi dorati con la Mecca. Invece, dove dormiva il ragazzo, ci sono i poster: quello grande di "50 cent", il rapper nero, scoperto e lanciato da Eminem, il rapper bianco, e poi ecco la foto del neo-milanista, il Ronaldinho con le treccine.
Religione e sport, tradizione e vita moderna, tutto si fonde guardando la mano callosa del padre, il signor Assane Guiebre, 53 anni, dalla quale scivola via la manina di un bimbo di cinque anni, l’ultimo nato in questa famiglia con cinque figli. Un bimbo che amava quel fratello maggiore estroverso, mai stanco quando c’era da giocare. Se il piccolo è senza parole, il padre ne è prodigo: "Chiedo al sindaco Letizia Moratti di organizzare i funerali di mio figlio, di trasformarli in una manifestazione sulla sicurezza, perché Milano non è una città sicura se dei ragazzi di diciannove anni vengono abbattuti come animali. Bianchi o neri non importa, quello che importa è che in questa città si possa vivere. Chiedo allo Stato, a Berlusconi, a Bossi di spiegare agli italiani che gli stranieri non sono delinquenti, perché qualcuno fa presto a prendersela con noi".
Tiene i nervi saldi, questo padre: "Mio figlio - ripete - era bravo, lo dico io, ma chiedete in giro, a chiunque. Anche l’ultimo mio bambino sarà educato come ho educato gli altri, come ho fatto con Abba. Gli dicevo di non avere paura. "Non farti spaventare, sei italiano", ma bisogna rispettare per primi se si vuole essere rispettati, anche al piccolo dirò lo stesso".
Forse qualche milanese vedendo la foto di Abba lo riconoscerà. Se ne stava talvolta al "muretto del Duomo", nella zona pedonale di corso Vittorio Emanuele dove si concentrano alcuni rapper nostrani. Scuola media, due anni al Cfp comunale di Gorgonzola, poi l’iscrizione a un’agenzia di lavoro interinale, tanti lavori e lavoretti, le difficoltà di tantissimi ragazzi: "Io ero un uomo-macchina, andavo al lavoro tornavo a casa, anni e anni sempre così, è stata questa la mia vita. Sono da trent’anni in Italia, sono tra i primi ad essere arrivato, lavoro in una fabbrica di ascensori, la Siag qua a Cernusco e il 23 luglio mi sono fatto male. Sono del Burkina Faso, di un posto chiamato Gnagho, ma mio figlio - dice papà Assane - è italiano. Ed era giovane, qualche volta usciva, ma non fumava, non beveva, aveva una ragazza. E sapete - chiede scuotendo la testa - di che cosa abbiamo parlato alle 23, l’ultima volta che l’ho visto? Di lavoro. Di che cosa avrebbe dovuto combinare... ", in un mondo confuso, che per questa famiglia, e anche per gli assassini di un ragazzo nero che amava il rap, non sarà mai più quello di prima: "Per la prima volta - dice una sorella - ci siamo accorti di essere negri".
* la Repubblica, 15 settembre 2008
Un giovane nigeriano allontanato dalla Vismara dopo aver denunciato le offese
Il racconto di Daniel: l’azienda copre chi mi tormentava
"Due anni di insulti sul lavoro
licenziato perché sono di colore"
dal nostro inviato PAOLO BERIZZI *
LECCO - Per due anni ha insaccato e ha incassato. Tutti i giorni. Sempre lì, al suo posto, in uno dei più grossi salumifici italiani. Ha insaccato salami e mortadelle. Ha incassato insulti razzisti e offese umilianti. La più becera, e anche la più banale, è "sporco negro": la stessa firma degli assassini di Guibre. E’ quella che lo ha marchiato dentro, che lo ha fatto sentire un comodo sfogatoio per le frustrazioni di un collega, che poi sono diventati un gruppo, e allora la cosa si è fatta ancora più pesante. Questa è la storia di Daniel - basta il nome - , nigeriano di Lagos, 24 anni, un bambino di due.
Daniel non è un clandestino: è in Italia regolarmente dal 2003. Abita a Villasanta, Brianza monzese, con la moglie e il figlio. Paga un affitto. Ha un lavoro, anzi, l’aveva. Perché l’hanno licenziato. Daniel è un operaio macchinista. Nel 2006 inizia a lavorare alla Vismara S. p. A di Casatenovo, Lecco. Si divide tra il reparto e il forno. Sgobba da mattina a sera.
Mai un problema, mai un richiamo, racconta. E ottimo rendimento, visto che ogni sei mesi gli rinnovano il contratto. Ma nello stabilimento c’è un ostacolo imprevisto con cui il cittadino africano deve fare i conti: il razzismo. A dargli dello "sporco negro", all’inizio, è solo un collega. Per lui insultare Daniel è la regola. Altri operai iniziano presto a apostrofarlo nello stesso modo. Uno stillicidio di offese al quale l’immigrato, nonostante le ripetute richieste di spiegazioni, non riesce a sottrarsi.
Manda giù, abbozza quando un giorno gli dicono: "La vuoi capire o no che voi extracomunitari di m. in Italia non potete stare?". Solo perché aveva chiesto a un collega di aiutare un altro lavoratore in difficoltà, un peruviano che non riusciva a trasportare dei colli di mortadella. "Chi credi di essere? Mica penserai di comandare noi italiani?".
Daniel ha paura di denunciare chi lo tormenta: non vuole rischiare di perdere il posto di lavoro. Un giorno si rivolge al capo reparto, che però minimizza: "Dai, non farci caso... sai come sono fatti i ragazzi... Tu pensa a fare il tuo lavoro e basta". Ma alla fine di giugno decide che il vaso è colmo. Accade quando entra nello spogliatoio e trova il suo armadietto distrutto. Un atto vandalico, l’ultimo sfregio. Lui che non ha mai ricevuto provvedimenti disciplinari, lui che guadagna 1100 euro e che - dopo 12 contratti - viene ancora pagato dall’agenzia interinale "Iwork" di Arcore.
Il 28 giugno Daniel presenta una querela alla Procura di Lecco: racconta nel dettaglio le odiose offese che gli sbattono addosso. Spera che dopo quell’esposto qualcosa possa finalmente cambiare. Che la sua dignità non sia più calpestata. E invece al danno si aggiunge la beffa. L’altro giorno la Vismara gli da il "benservito": "A fine mese non presentarti più in azienda", gli comunica il capo reparto. L’operaio crede sia uno scherzo di cattivo gusto: e invece è tutto vero.
"Ho subito per due anni in silenzio, senza ribellarmi - racconta - proprio perché non volevo rischiare di perdere il posto. Ma non ce l’ho più fatta a sopportare di essere offeso in quel modo. E così adesso sono senza lavoro. Non ce l’ho con l’Italia e con gli italiani. L’Italia mi ha dato il lavoro, la possibilità di sfamare me stesso e la mia famiglia. Ce l’ho con l’ignoranza di chi ti insulta perché hai un colore della pelle diverso dal loro. Ho una moglie e un figlio piccolo da mantenere. Il mio stipendio me lo sono sempre guadagnato onestamente, mi ferisce che me lo abbiano tolto solo perché ho detto basta al razzismo. Oltretutto ci sono altri lavoratori extracomunitari nello stabilimento. Quando sono andato in Tribunale ho pensato anche a loro, anche se ognuno reagisce a modo suo e alla fine ognuno si fa gli affari suoi".
Dagli uffici della Vismara, alla quale ci siamo rivolti ieri per chiedere chiarimenti sulla vicenda, per ora non è arrivato nessun commento. Ironia del caso - va detto che l’azienda almeno per ora non ha alcuna responsabilità - come melodia di sottofondo dell’attesa telefonica s’odono le parole di Vasco Rossi: "... basta poco per essere intolleranti... per essere un po’ ignoranti...".
Il legale di Daniel, Francesco Mongiu, ha riassunto la storia di questo strano licenziamento e la sottoporrà al giudice del lavoro. "Per "pura coincidenza" - racconta l’avvocato - il cognato del mio assistito, un cittadino della Sierra Leone, laureato anche lui in regola, dopo un periodo di prova nello stesso salumificio, è stato ritenuto inidoneo al compito di insaccatore di mortadelle".
* la Repubblica, 16 settembre 2008
La versione di Fausto e Daniele Cristofoli non convince i magistrati
Confermata l’aggravante dei futili motivi. Escluso invece il razzismo
Giovane ucciso a Milano
I Cristofoli restano in carcere
Milano reagisce e sabato scende in piazza a fianco del comitato "Per non dimenticare Abba" *
MILANO - Confermato l’arresto per Fausto e Daniele Cristofoli, padre e figlio, accusati di omicidio volontario aggravato dai futili motivi per aver ucciso Abdoul Guiebre. Lo ha deciso il gip Micaela Curami spiegando che c’è pericolo di fuga, di reiterazione del reato e di inquinamento delle prove.
Per l’assassinio del giovane originario del Burkina Faso si era inizialmente sospettata una matrice razzista, poi esclusa sia dal capo della Mobile Francesco Messina (secondo il quale "il delitto è maturato a causa della presunta idea che i ragazzi avessero rubato qualcosa che alla fine si è appurato essere dei biscotti"), sia dal prefetto Gian Valerio Lombardi ("Nel provvedimento del magistrato non c’è alcun riferimento a matrici razziste o xenofobe. L’episodio è grave, ma ultimamente non ve ne sono stati altri").
Allo stato, la versione dei fatti resa dagli indagati è smentita dalle testimonianze: è questo il motivo fondamentale che ha portato alla convalida del fermo. Nella versione dei Cristofoli tutto avviene in otto minuti: l’ingresso dei tre ragazzi nel bar vuoto, la loro fuga, l’inseguimento prima a piedi e poi col furgone, le provocazioni, i tre che si armano con bottiglie e bastoni, accettano lo scontro, accerchiano Fausto Cristofoli, l’intervento del figlio, un solo colpo di bastone, quando Abdoul "era ancora in piedi".
Sulla vicenda, comunque, molti chiarimenti verranno dall’analisi dei filmati delle telecamere installate in via Zuretti e dall’esito dell’autopsia sul corpo del ragazzo.
Le reazioni. Milano sabato scenderà in piazza contro il razzismo e a fianco della famiglia di Abdul. Il corteo partirà dai bastioni di piazza Venezia alle 14.30 per poi raggiungere piazza Duomo. In prima linea ci sarà il comitato ’Per non dimenticare Abba, per fermare il razzismo’, nato a Cernusco sul Naviglio, la cittadina vicino Milano dove viveva il ragazzo con la sua famiglia.
Oltre all’adesione di personaggi famosi come il premio Nobel Dario Fo con la moglie Franca Rame, l’attore Moni Ovadia, don Gino Rigoldi, Ascanio Celestini, Cochi Ponzoni, Paolo Rossi e Bebo Storti ci saranno realtà associative locali attive da tempo sul territorio, come l’associazione culturale Punto rosso, il centro sociale Il Cantiere, il Leoncavallo, Rete G2 seconde generazioni (che riunisce i figli degli immigrati), l’Arci, il Prc di Milano e Lodi, Emergency e lo scrittore senegalese Pap Kouma.
* la Republica, 17 settembre 2008.