Primum vivere
di Barbara Spinelli (LA Stampa, 30/7/2006)
LO si capisce dalle vignette di Giannelli sul Corriere della Sera, che dipingono un Berlusconi felice di ottenere da sinistra quel che non aveva ottenuto da destra. Lo si capisce dalle parole di Federico Grosso, che su questo giornale, il 25 luglio, parla di legge necessaria al miglioramento delle carceri, ma viziata da un compromesso che garantisce impunità a crimini economici «fortemente caratterizzati da disvalore sociale e morale». Lo si capisce dalle proteste di Eugenio Scalfari, di Luca Ricolfi, di Michele Ainis, di Vittorio Grevi, dell’ex giudice D’Ambrosio, del giudice Caselli. La legge sull’indulto che ieri è passata al Senato è molto più di un errore. Nasce da una profonda, radicata indifferenza alla cultura della legalità e al rapporto sano fra Stato di diritto ed economia. Le critiche pesanti rivolte da sinistra a Di Pietro, che ha provato a fermare la legge sino a dissociare la lealtà di ministro dalla propria coscienza di cittadino, confermano questa indifferenza.
Di Pietro è sospettato di voler conquistarsi visibilità, oltre che di usare un linguaggio sleale, violento. Il che forse non è falso: se c’è un modo di coltivare il protagonismo, quello del ministro è ben scelto. Ma gli strali si concentrano sul dito anziché su quel che il dito indica, e il proverbio cinese evocato da Di Pietro è sempre valido: «Quando il dito indica la luna, lo sciocco guarda il dito». Lo sciocco non guarda alla sostanza, bensì all’apparenza. Per lo sciocco vale soprattutto: Primum
Vivere, e dunque la sopravvivenza di una coalizione che senza Forza Italia non avrebbe approvato l’indulto. Primum Vivere fu il motto di Craxi quando prese la guida del Psi: lo slogan rovinò una grande scommessa politica (il rafforzamento della sinistra non comunista) trascinando il socialismo italiano nella corruzione. Il centro sinistra non corre quel pericolo ma quasi sembra trascurarlo. Come se in testa venisse anche per lei, in occasioni non marginali, la conquista-salvaguardia del potere e non quel che il potere fa. In tali circostanze il resto conta poco o nulla, anche quando questo resto è la sostanza delle cose: la cultura della legalità e il senso civico della classe dirigente, in un paese dove il problema dell’etica nell’economia e nella politica è il vero suo tarlo e la vera anomalia.
Questa trascuratezza in tema di legalità non cade dal cielo: si può scrivere ormai una storia degli Indifferenti in materia, che nell’ultimo decennio e più hanno perso di vista non solo l’importanza ma anche i benefici delle regole, della buona condotta finanziaria. Che hanno consentito che alla giustizia venisse dato il nome di giustizialismo forcaiolo, alla morale il nome di moralismo.
Che hanno sconnesso il legale dall’utile, l’onestà dalle esigenze - considerate più autentiche, pratiche - dell’economia o della gestione del potere. È la storia di come piano piano s’è spenta la passione di Mani Pulite, e la speranza in una classe dirigente rinnovata. Di questa storia Berlusconi ha profittato, andando al potere nel ’94 e nel 2001 senza che conflitto d’interessi e processi l’ostacolassero.
Da quale cultura (nel doppio significato del termine) è germinata questa storia che ha creato uno spazio per Berlusconi e che oggi glielo preserva? Da una cultura presente nei luoghi meno prevedibili, sia a destra sia nella sinistra radicale, sia nella politica sia in parte della Chiesa: sfatando le tesi di chi considera finito il catto-comunismo e non vede sorgere la nuova, strana alleanza tra catto-comunisti e Berlusconi. In realtà, buona parte della Chiesa italiana si è rivelata attore di primo piano, e questo spiega come mai tanti cattolici di centro, pur distanziandosi da Forza Italia o combattendola, coltivano il culto berlusconiano dell’impunità. Con il passare degli anni la Conferenza episcopale ha dimenticato le sue battaglie per la cultura della legalità e contro la mafia, pur di ritagliarsi uno spazio politico che compensasse il declinare, in molti suoi esponenti, della missione spirituale e profetica. Del tutto dimenticata oggi è la nota pastorale redatta il 4 ottobre ’91, poco prima di Mani Pulite, che s’intitolava «Educare alla legalità» e condannava il crescente corrompersi del colletti bianchi.
Del tutto scordate sembrano le parole tremende - un anatema che sconvolse il clan Provenzano, spingendolo ai delitti della primavera-estate ’93 - che Giovanni Paolo II pronunciò contro la mafia (e implicitamente contro i voti di scambio coperti da indulto). Quel discorso, pronunciato dal Papa nella Valle dei templi a Agrigento il 9 maggio ’93 («Convertitevi! Mafiosi convertitevi! Un giorno verrà il giudizio di Dio e dovrete rendere conto delle vostre malefatte!») è da anni introvabile sul sito internet della Santa Sede. La visita in Sicilia neppure è annoverata tra i viaggi del Pontefice. L’altro attore non irrilevante è Rifondazione di Bertinotti. Val la pena ricordare che fin dal 23 febbraio 2002, quando Di Pietro e la rivista MicroMega organizzarono al Palavobis di Milano una conferenza sulla legalità, l’attuale presidente della Camera si stizzì, svilendo un’iniziativa giudicata superflua, secondaria rispetto alle strutturali questioni economico-sociali: «È la rivolta dei ceti medi professionali - disse -. Da un lato (gli organizzatori) colgono fatti di involuzione della società politica, dall’altro rivendicano un ruolo come ceto e istituzioni, mi riferisco agli intellettuali e alla magistratura. È un terreno ambiguo». Più di tre anni dopo, intervistato dal Corriere della Sera sulle indagini del giornalista Travaglio (inchieste Dell’Utri, Berlusconi), disse: «Marco Travaglio? Non nominatemelo. Solo a sentire il suo nome mi viene l’orticaria. I moralisti danneggiano la sinistra. Non amo il giustizialismo a tutti i costi. Ogni volta che qualcuno si autoinveste del ruolo di censore, di moralizzatore, rischia di fare più danni di chi poi si vuole condannare» (5-10-05). Così si giunge all’oggi: estendendo l’indulto ai crimini contro la pubblica amministrazione, e a corruzione e concussione (tutti gli scandali dell’ultimo decennio, compresi Parmalat e furbetti del quartierino), il fronte degli Indifferenti di sinistra esita a regolare i conti col berlusconismo. Nei fatti ne è contagiato, come Arturo Parisi temeva nell’estate 2005, quando avvenne il disastro Banca d’Italia.
Naturalmente esiste un’ urgente necessità di migliorare le carceri italiane, disumanamente stracolme. Due papi si sono battuti per questo. Ma l’emergenza è stata usata per un compromesso con Forza Italia che ha consentito a quest’ultima di imporre la propria agenda giudiziaria, con più successo ancora che nel passato (Grosso ricorda che esisteva un disegno di legge condiviso, del gennaio scorso, che concedeva ai delitti economici un solo anno di sconto e non tre). I processi per questi delitti non sono cancellati ma la certezza della pena, mai lunghissima, è ridotta a zero. Può darsi che esistano ragioni per difendere l’interezza della legge; ma nessuno è parso convinto al punto tale da illustrarle bene. Che il disagio di chi non ha impedito questo tipo d’indulto sia grande, lo rivelano le parole stupefacenti del deputato prodiano Franco Monaco: «Sono un soldato, il testo dell’indulto lo voto, ma attenti perché è un testo inaccettabile!». Dunque, parte della sinistra ha voluto l’indulto così com’è, pur definendolo «inaccettabile». Ha ritenuto probabilmente che questo sia il prezzo del Primum Vivere, nei momenti in cui occorre conquistare il potere o non perderlo. Primum Vivere è una sorta di scetticismo degenerato, che in simili momenti prende il sopravvento.
L’intera campagna elettorale è stata condotta in fondo all’insegna di questo principio: non si sapeva se la battaglia sulla legalità avrebbe fatto vincere, e son state scelte l’indifferenza, l’afasia. Nessuna parola sul conflitto d’interessi, sulle leggi ad personam della precedente legislatura, in genere sulla questione morale.
L’attenzione si concentrò totalmente sul fisco, col risultato che Prodi più che attaccare dovette difendersi. Vero è che promise di ripristinare la «maestà della legge», che denunciò in alcune interviste l’intreccio tra affari e politica. Ma la cultura della legalità è restata sconnessa dall’economia, come se non fosse invece parte fondamentale di essa. Come se per ripartire e crescere, l’economia non avesse prima di tutto bisogno di restaurare il dovere civico del pagare le tasse, del rispettare le leggi, creando un clima fondato sulla fiducia, dunque affidabile. Questo legame urge instaurarlo in Italia, perché altrimenti non solo la democrazia ma anche il mercato, divenendo diseducativi o distorti, falliscono e muoiono. La grande vocazione pedagogica di Prodi, che tante volte lo ha premiato, diverrà più che mai essenziale.
Abbiamo parlato di scetticismo degenerato perché gli scettici non intendevano questo, quando giudicavano superflue tutte le cose sensibili. Nel IV secolo avanti Cristo, Pirrone consigliava l’atarassia e cioè l’imperturbabilità; raccomandava l’afasia, ritenendo che astenersi dal parlare fosse meglio delle affermazioni perentorie; suggeriva l’apatia, che evita emozioni forti.
Era poi raccomandata la sospensione di giudizio sulle cose del mondo (l’epoché) ma lo scopo era l’Atman: il collegamento con l’io più profondo dell’uomo, con la scintilla di Dio. Oggi l’Atman è la conquista del potere, la coalizione a qualsiasi prezzo, non la sostanza di quel che in politica si fa e il linguaggio con cui lo si spiega ai cittadini. Primum vivere, deinde philosophari - in primo luogo bisogna vivere, dopo fai filosofia. Il detto antico non è errato: la ricerca della massima saggezza non può soffocare i bisogni elementari e animali dell’uomo, del suo convivere sociale. Prima di dedicarsi alla sapienza e alla virtù, bisogna procurarsi il necessario per vivere. Ma gli antichi esaltavano le quotidiane virtù dell’onesto cittadino, quando posticipavano l’astratta cerca della Repubblica perfetta. Non esaltavano - oscuro oggetto del desiderio, sensualità speciale di chi comanda - il potere fine a se stesso.
Il nodo
di Furio Colombo *
Ci deve essere un gran vuoto, uno spossante senso di attesa e di solitudine se le citazioni del giorno, riportate con enfasi da tutti i giornali (e prima ancora da una folla di telegiornali) sono di Sangalli, Montezemolo e Scajola, ciascuno nel modo sbagliato e dal luogo sbagliato.
Non so niente di Sangalli, presidente della Confcommercio, una delle due associazioni dei commercianti italiani (l’altra è la Confesercenti, ritenuti più di sinistra, quella che ha subissato Prodi di urla e di fischi). Ma non credevo che un astuto commerciante (deve esserlo, se no perché lo hanno eletto?) subentrato al non illustre e plurindagato Billè, fosse così ingenuo da spingere la sua immensa platea di iscritti a rafforzare il sospetto - giusto o ingiusto - che anima molti italiani a reddito fisso (e molte Guardie di Finanza, vedi i loro rapporti). Il sospetto, cioè, che molti commercianti siano evasori. Trasformare il grande evento sociale della categoria in un comizio alla Fidel Castro contro le tasse, alla presenza del grande predicatore dell’evasione Silvio Berlusconi, bene in vista, in posizione telecamera, un comizio che ha incluso anche la trovata retorica di rimpiangere la assenza di Prodi (cui è stata comunque dedicata la dovuta bordata di fischi) è stata una operazione perfetta di rivolta contro le tasse da parte di un tipo di imprenditori sospettato da sempre di infedeltà fiscale. Se il sospetto è ingiusto, come credo, il danno arrecato ai suoi iscritti da Sangalli è certo grande. Ha scatenato un antagonismo fiscale che manterrà a lungo tensione e diffidenza, chiunque governi (a meno che si torni a un regime di evasioni e condoni).
È vero, prima di lui lo aveva fatto, con inattesa alacrità, Venturi, il presidente della Confesercenti. Per giunta, si è prestato, con tutta la sua organizzazione «di sinistra» a una trappola un po’ volgare di fischi e di urla, non proprio la reazione tipica di chi cerca fiducia per la propria credibilità fiscale.
Possiamo dire che - insieme - Sangalli e Venturi, «destra» e «sinistra»dei commercianti italiani, hanno occupato uno spazio che raramente grandi organizzazioni vogliono pubblicamente occupare: invece della dichiarazione dei redditi, la dichiarazione di guerra al fisco.
Possibile che Sangalli e Venturi non abbiano mai fatto un viaggio in America, sperimentato qualche acquisto a Manhattan? Si sarebbero accorti che, dal più piccolo negozietto al più grande department store, il venditore compila una "lista di vendita" oltre allo scontrino e alla ricevuta della carta di credito. E applica ad ogni acquirente tre tasse diverse: federale, statale e cittadina (con la possibilità per il cliente di evitare due delle tre tasse se dimostra con un documento di abitare fuori della città e fuori dello stato). Si sarebbero accorti che i commercianti americani, almeno nella storia del dopoguerra e dopo depressione, non hanno mai organizzato proteste di categoria contro le tasse. E - allo stesso modo - non si ricorda alcuna campagna elettorale americana, federale, statale o cittadina, in cui, sia stata agitata la iniqua tassazione dei commercianti (che, tipicamente, passano gli oneri giusti o ingiusti al compratore). Mentre, ovviamente, sono normali e frequenti sia le promesse sia le richieste di tagli di tasse, con la tipica contrapposizione fra destra e sinistra. La destra taglia le tasse ai ricchi, la sinistra al reddito fisso.
Avrebbero anche notato che, in una isola di prosperità come Manhattan, dominano ormai, in tutti i settori, i grandi centri di vendita, che in un decennio hanno spazzato via la operosa, produttiva, utilissima classe media dei commercianti di negozi individuali e di famiglia. Hanno eliminato, anche socialmente, una intera parte di società libera: il negoziante.
Nell’Italia, in cui il fenomeno dei grandi centri di vendita è appena cominciato e sopravvivono ancora con tenacia e bravura centinaia di migliaia di quel tipo di botteghe e negozi che negli Stati Uniti sono scomparsi, non avresti detto che la prima preoccupazione di Sangalli e Venturi sarebbe stata di salvare dai mega-business quelle botteghe o negozi? Chi saranno state quelle migliaia di persone stipate nei due auditori? Tutti proprietari di mega centri commerciali e di shopping malls? Certo lo sfogo di uno schiamazzo, come ai bei tempi della scuola, non se lo nega nessuno se invitato a una piazzata. Però dicano francamente Sangalli e Venturi: c’è un solo economista pronto a dimostrare che i piccoli e medi negozi italiani (con il turismo in crescita e la domanda in aumento) chiudono per tasse, e non piuttosto perché scacciati dai mega-store? Hanno fatto felice Berlusconi, i due capi rivolta fiscale, ma forse non tanti iscritti. Quelli di loro che viaggiano e conoscono il mondo, sono felici che in Italia non ci sia l’inesorabile inquisizione fiscale americana, inglese, svedese, australiana, canadese dove l’arrivo di un ispettore è la peggiore sventura che può capitare a un negoziante. Eppure non ci sono rivolte di categoria perché tutti sanno che una condizione essenziale per il capitalismo, in un paese democratico, è l’assoluta certezza fiscale.
* * *
Di Luca di Montezemolo so abbastanza per stimarlo. E sono tra quelli che non hanno dimenticato che, prima di lui, la Confindustria, presieduta in passato da Guido Carli e Giovanni Agnelli, solo pochi anni fa aveva avuto l’imbarazzante presidenza di Antonio D’Amato.
Montezemolo non solo conosce gli Stati Uniti e la vita pubblica di quel Paese, ma ha anche una laurea americana. Per questo, però, la meraviglia si fa più grande quando l’attuale Presidente della Confindustria assume toni di visione e giudizio generale della cosa pubblica, come se rappresentasse una istituzione e non una categoria. E si attribuisce, dunque, una squilibrante autorità di fatto che - lui sa benissimo - non potrebbe mai avere o attribuirsi nel Paese che gli è caro e in cui ha imparato molte cose di cui, professionalmente, ha dimostrato di valersi bene.
Chi direbbe, da capo degli imprenditori, in una comunità democratica in cui di politica si occupano Governo e Parlamento, e di monitoraggio della politica si occupano i media, frasi arrischiate e destabilizzanti come «non ci sono piaciuti i tempi e i modi in cui si è affrontata la sostituzione dei vertici delle forze dell’ordine?». Ci sono precedenti, certo, di intromissione diretta nella politica degli industriali come categoria. Montezemolo sa bene che non sono buoni esempi. E che quell’elenco (triste, spesso finito male) non comprende nessuno dei paesi che, suppongo, sono il naturale modello di un Presidente di Confindustria di formazione liberale e democratica.
Il riferimento americano mi serve anche per domandarmi - e domandare all’interessato - se ricorda qualche dichiarazione di un Presidente della "American Manufacturers Association" o di fondazione o di "Think Tank" di ambito industriale, una dichiarazione, dicevo, che attacca e scredita i sindacati («statali», «pensionati», «fannulloni») piuttosto che discutere specifiche questioni, affrontare in modo chiaro e diretto contrasti, disaccordi, argomenti di scontro. Che senso può avere, da parte del personaggio di vertice di una parte importante della società italiana, aumentare il disordine, in un momento evidentemente difficile, in cui il contributo al disorientamento e al tumulto tipo Confcommercio non potrà essere ricordato come un merito?
E ancora una osservazione, nello spirito di un trascorso lavoro comune: c’è davvero una inaccettabile cultura anti-industriale nell’Italia di Maranello, in cui il parroco sa suonare le campane quando vince la Ferrari? Parlare di cultura anti-industriale in un Paese in cui tutti hanno ricominciato a comprare Fiat al primo segno di ripresa di quella azienda? Ce lo immaginiamo Robert McNamara, ai tempi in cui era a capo della General Motors, condannare un compito in classe di High School o una tesina di college perché «anti-industriale»?
E conosciamo un solo economista, Milton Friedman incluso, in grado di sostenere che «la ripresa si deve unicamente alle imprese»? Come non notare che l’affermazione è tecnicamente impossibile?
* * *
Entra in scena Claudio Scajola, rimasto nella memoria degli italiani per due ragioni: era il ministro degli Interni ai tempi del G8 di Genova. Chiunque, dopo quel "pestaggio cileno" di ragazzini inermi (definizione di questo giornale, in tempo reale, molto prima che il questore Fournier lo confessasse ai giudici) l’uccisione del giovane Carlo Giuliani e la mano libera lasciata ai misteriosi black bloc, avrebbe dovuto dimettersi. Scajola si è dimesso più tardi, quando ha definito «grande rompiballe» il prof. Marco Biagi, assassinato dalle Brigate Rosse mentre era privo di scorta.
Bene. Claudio Scajola ritorna. E in spregio alla funzione affidatagli di Presidente della Commissione parlamentare di controllo sui servizi segreti, dichiara che «il Governo ha agito in modo dilettantesco e irresponsabile» quando ha annunciato la fine del mandato del capo della Polizia De Gennaro.
La gravità, questa sì, irresponsabile, della frase sta nella delicatezza estrema della carica che Scajola ricopre.
Qui non siamo di fronte alla critica politica ma all’abuso di credibilità e autorità da parte di chi - Dio sa perché, con quel passato - è stato investito di quella carica.
È un modo in più, molto allarmante, per spiegare l’appello del Presidente Napolitano a rispettare le Istituzioni, a porre fine al sabotaggio distruttivo che impedisce al Parlamento di funzionare.
Purtroppo, non servirà. Ma almeno è stato detto con chiarezza dove, come si è creato il pericoloso nodo che sta minacciando la vita della Repubblica.
* l’Unità, Pubblicato il: 24.06.07, Modificato il: 24.06.07 alle ore 8.15
America e Italia
di Furio Colombo *
Quello che sto per scrivere è la registrazione di alcuni fatti avvenuti nelle stesse ore e negli stessi giorni (mercoledì, giovedì, venerdì) a Washington e a Roma.
La conoscenza attenta e accurata di questi due gruppi di fatti dice con chiarezza, anche a coloro che si sono sentiti in dovere di dimostrare contro l’America, che il pericolo che stiamo correndo è qui, è adesso, è in Italia e occorre una certa cecità selettiva per non vedere che un dramma pericoloso si sta svolgendo intorno a noi. Mi riferisco all’estremo rischio per una repubblica democratica: spingere le Forze armate allo scontro con le istituzioni elette, puntare sulla rivolta dei generali, che la stampa berlusconiana, infatti, chiama a raccolta con un linguaggio grave e irresponsabile.
Tutto ciò non ha a che fare con la rigorosa lealtà dei militari italiani che restano fermamente legati al giuramento costituzionale. Ma è la peggior prova che una classe politica (in questo caso tutta l’opposizione inclusi i presunti moderati di Casini) possa dare di sé. Credo di poter riassumere così, per condividere con i lettori il senso di allarme.
* * *
Primo. Per una giornata intera (mercoledì 6 giugno) quasi tutti i senatori italiani che fanno riferimento a Berlusconi (in questo non si nota alcuna differenza importante fra uomini di azienda, affiliati e presunti indipendenti) hanno spiegato a lungo che i politici eletti sono esseri inferiori ai generali e che il vice-ministro Visco è una spregevole creatura indegna anche solo di porsi accanto al generale Speciale, figuriamoci di dare su di lui un giudizio negativo e una decisione di congedo.
A lungo i senatori eletti dell’opposizione si sono impegnati a superarsi l’un l’altro nella denigrazione e nel ridicolo della politica a confronto con l’onore dei generali. «Un generale non può mentire», è stato declamato. E anche: «come può un vice-ministro osare di contrapporsi a un soldato?». Tutto ciò prima che il ministro Padoa-Schioppa, titolare della Economia e a cui risponde il corpo di polizia (tecnicamente non militare) della Guardia di Finanza, prendesse la parola per dare le sue spiegazioni, assumersi la responsabilità della destituzione di un comandante di quel corpo (che non viene dai ranghi di quel corpo e dunque, nel bene o nel male, rappresenta prima di tutto, se stesso e la sua storia) e offrire motivate ragioni.
Vorrei chiarire al lettore. Non sto tentando di discutere o di sostenere quelle ragioni. Non è questo che è avvenuto in Senato, che avrebbe avuto tutto il diritto di rivedere i particolari e le svolte decisionali della vicenda.
No. Quello che è accaduto è stata una pioggia di insulti infamanti lanciati al colmo della voce (alcuni erano afoni, quando è scesa la notte) non da tutti ma purtroppo da moltissimi membri del Senato che (fanno fede i verbali) sono incorsi anche in sgrammaticature tremende pur di superare ad ogni intervento, gli insulti di chi li aveva preceduti.
Secondo. L’intento non era - e tutt’ora non è - in questa importante e delicata vicenda, la discussione parlamentare. L’intento, fin troppo vistosamente proclamato e francamente vergognoso da parte di membri autorevoli di un Parlamento, è di tentare lo scontro, montando la scena macabra dell’offesa alle Forze armate e, dunque, di un presumibile diritto di risposta.
Se mi riferisco alla esperienza giornalistica posso dire che soltanto nel Parlamento di Atene, nel maggio del 1967, mentre ero nella tribuna stampa insieme ad Alberto Ronchey, Bernardo Valli, Luciana Castellina, ho assistito allo stesso spettacolo di denigrazione violenta di un governo e della politica. Ma eravamo a poche ore da un colpo di Stato.
Se mi riferisco a quella incredibile profezia che è stato a volte il cinema italiano, ricorderò la scena finale di «Cadaveri eccellenti», di Francesco Rosi, le urla dei dimostranti, il rombo minaccioso di motori militari.
Spesso la realtà è più squallida del cinema (almeno di quel cinema, che prefigurava tragedie civili con impressionante bellezza). Ma alcune cose, se non da cinema certo da tragico avanspettacolo, erano state previste, come le gigantografie di Visco sventolate in Aula per mostrare alle telecamere il volto ignobile di un pericolo che deve essere eliminato. Come l’idea non riuscita (c’è stata anche una protesta formale per gli intoppi burocratici che casualmente l’hanno impedita) di riempire di militari della Guardia di Finanza le gallerie del Senato, e di organizzare di fronte al Senato una manifestazione di giovani con striscioni inneggianti al generale, giovani che (avrebbero voluto farci credere) erano militari in abiti civili “decisi a difendere il loro onore”.
Terzo. La giornata del dibattito, che sarebbe stata comunque tesa e difficile anche fra parlamentari disposti, e anzi decisi, a discutere una situazione comunque complessa, comunque bisognosa di chiarimenti, è stata preceduta da una opportuna serata della Tv di Stato, nel talk show «Porta a porta». In esso il conduttore, in preda a particolare concitazione, si è assunto il compito di accusatore dei due parlamentari dell’Unione, Violante e Russo Spena presenti in studio, sopravanzando spesso in precisazioni ostili, difese dei generali e confutazioni delle affermazioni di Violante e Russo Spena, i pur abili e implacabili senatori Schifani e Castelli, portando così a tre, nel programma, il numero di militanti fermamente schierati nella stessa parte politica.
Esagero? La Rai può fugare ogni dubbio in proposito facendo pervenire (anche a spese del ricevente) un Dvd di «Porta a porta» di martedì 5 giugno. Nessuno dirà una parola perché la rappresaglia, come è noto, è non essere più invitati nel prestigioso talk show. Ma almeno potremo mettere quel Dvd nell’archivio del Senato per sapere con quale cura, la sera di martedì 5 giugno, è stata preparata la tensione che si sarebbe dovuta scatenare il giorno dopo, mercoledì 6 giugno, nell’Aula del Senato in luogo della normale discussione parlamentare.
* * *
Ma adesso vediamo il confronto con corrispondenti eventi della vita politica americana. Se i giornali e le Tv italiane ne parlassero in luogo delle avventure carcerarie di Paris Hilton, alcune marce contro l’imperialismo Usa, munite anche di autorevoli presenze politiche, diventerebbero eventi in difesa della democrazia e delle istituzioni adesso, qui, in Italia.
Ecco, siamo nel Senato degli Stati Uniti. Parla il senatore Carl Levin: «Generale, ma le sembra possibile che proprio lei riuscirà a portare un minimo di coerenza a una politica militare del tutto incoerente, una politica incerta e vacillante dopo quattro anni di morti e di guerra?».
Senatore Jack Reed: «Generale, se lei va avanti ha un compito impossibile. Se lei fa un passo indietro dimostrerà in modo devastante che l’apparato politico e di sicurezza nazionale della Casa Bianca non esiste».
Senatore Carl Levin: «Ma generale, non si è accorto che Baghdad brucia? Non vede che la stanno mettendo in una situazione impossibile, di inevitabile fallimento?».
Racconta il «New York Times» (8 giugno): «Il generale Lute (definito “zar della guerra” per i compiti di completa revisione della strategia americana che gli sono stati affidati) ha risposto con candore: «Siamo in un vero rischio. Non sono certo contento di come vanno le cose. Temo anch’io che il governo iracheno non sia in grado di rispondere. Le soluzioni di rigido antiterrorismo in Afghanistan non sono la risposta giusta. Dobbiamo tentare altre strade».
* * *
Ho citato una buona pagina di civiltà democratica. Prima di assumere un incarico cruciale in due guerre in atto, il generale Lute, che ha fama di intellettuale perché, oltre a West Point, ha anche una laurea ad Harvard, si presenta ai senatori, che sono il potere politico eletto del suo Paese, per essere interrogato, valutato discusso, invitato a rispondere a domande imbarazzanti, richiesto di esporre piani e idee, di confrontarsi con il netto e diverso parere di alcuni senatori, per ore, per giorni, fino a quando la commissione Difesa del Senato non si sarà persuasa che il Presidente ha scelto l’uomo giusto per “il compito impossibile” di cui parla il senatore Levin, uno dei legislatori più risolutamente contrari alla guerra. S’intende che i senatori sanno in ogni momento di essere anch’essi sotto esame sia perché i giornali danno di queste audizioni resoconti precisi, non folkloristici, non piegati a tifoserie occasionali. Sia perché - attraverso la buona informazione che in modo assoluto evita il filtraggio di “talk show” di partito - l’opinione pubblica, in caso di errore, non fa sconti né ai senatori né ai generali. Non tollera ombre e pretende il meglio da entrambe le parti. Ma sa che tocca ai politici eletti dire l’ultima parola per poi risponderne col voto. È la condizione assoluta, ma anche la definizione, della democrazia.
È esattamente ciò che le scomposte urla in Senato, il lancio di manifesti e gigantografie insultanti, il progetto di riempire di militari - che per fortuna non sono venuti - le gallerie del Senato, hanno tentato in tutti i modi di danneggiare. È un peccato che - fra coloro che volevano dimostrare contro il “pericolo americano” - nessuno, neppure parlamentari che ormai vivono questa esperienza ogni giorno, abbia visto in tempo che il pericolo è italiano, è qui, è adesso. E non sappiamo neppure se è un pericolo scampato.
furiocolombo@unita.it
* l’Unità, Pubblicato il: 10.06.07, Modificato il: 10.06.07 alle ore 14.14
ALLA RADICE DELLA ’CONFUSIONE’ e DELLA INDIFFERENZA..... LA PERDITA DEL NOSTRO STESSO "NOME", DELL’IDENTITA’ STESSA dI cittadini e di cittadine !!!!
“COGLIONI”, DAVVERO !!! LA PAROLA RUBATA
Una lettera aperta all’ ITALIA (e un omaggio agli intellettuali: Gregory Bateson, Paul Watzlawick, Jacques Lacan, Elvio Fachinelli).
di Federico La Sala *
L’ITALIA GIA’ DA TEMPO IN-TRAPPOLA-TA.................e noi - alla deriva - continuiamo a ’dormire’ , alla grande! "IO STO MENTENDO": UNA LETTERA APERTA SULL’USO E ABUSO ISTITUZIONALE DELL’ "ANTINOMIA DEL MENTITORE".
Cara ITALIA
MI AUGURO CHE LE GIUNGA DA LONTANO IL MIO URLO: ITALIA, ITALIA, ITALIA, ITALIA, ITALIA, ITALIA, ITALIA! IL NOME ITALIA E’ STATO IN-GABBIA-TO NEL NOME DI UN SOLO PARTITO....E I CITTADINI E LE CITTADINE D’ITALIA ANCHE!!!
NON E’ LECITO CHE UN PARTITO FACCIA PROPRIO IL NOME DELLA CASA DI TUTTI I CITTADINI E DI TUTTE LE CITTADINE! FERMI IL GIOCO! APRA LA DISCUSSIONE SU QUESTO NODO ALLA GOLA DELLA NOSTRA VITA POLITICA E CULTURALE! NE VA DELLA NOSTRA STESSA IDENTITA’ E DIGNITA’ DI UOMINI E DONNE D’ITALIA!
Cosa sta succedendo in Italia? Cosa è successo all’Italia? Niente, non è successo niente?! Semplicemente, il nome Italia è stato ingabbiato dentro il nome di un solo PARTITO e noi, cittadini e cittadine d’ITALIA, siamo diventati tutti e tutte cret... ini e cret..ine. Epimenide il cretese dice: "Tutti i cretesi mentono". E, tutti i cretini e tutte le cretine di ’Creta’, sono caduti e cadute nella trappola del Mentitore.... e, imbambolati e imbambolate come sono, si divertono persino. Di chi la responsabilità maggiore?! Di noi stessi - tutti e tutte! Le macchine da guerra mediatica funzionano a pieno regime. Altro che follia!: è logica di devastazione e presa del potere. La regola di funzionamento è l’antinomia politico-istituzionale del mentitore ("io mento"). Per posizione oggettiva e formale, non tanto e solo per coscienza personale, chi sta agendo attualmente da Presidente del Consiglio della nostra Repubblica non può non agire che così: dire e contraddire nello stesso tempo, confondere tutte le ’carte’ e ’giocare’ a tutti i livelli contemporaneamente da presidente della repubblica di (Forza) Italia e da presidente del consiglio di (Forza) Italia, sì da confondere tutto e tutti e tutte... e assicurare a se stesso consenso e potere incontrastato. Se è vero - come ha detto qualcuno - che "considerare la politica come un’impresa pubblicitaria [trad.: un’impresa privata che mira a conquistare e occupare tutta l’opinione pubblica, fls] è un problema che riguarda tutto l’Occidente"(U. Eco), noi, in quanto cittadini e cittadine d’Italia, abbiamo il problema del problema, all’ennesima potenza e all’o.d.g.! E, per questo e su questo, sarebbe bene, utile e urgentissimo, che chi ha gli strumenti politici e giuridici (oltre che intellettuali, per togliere l’uso e l’abuso politico-istituzionale dell’antinomia del mentitore) decidesse quanto prima ... e non quando non c’è (o non ci sarà) più nulla da fare. Se abbiamo sbagliato - tutti e tutte, corriamo ai ripari. Prima che sia troppo tardi!!!
ITALIA! La questione del NOME racchiude tutti i problemi: appropriazione indebita, conflitto di interessi, abuso e presa di potere... in crescendo! Sonnambuli, ir-responsabili e conniventi, tutti e tutte (sia come persone sia come Istituzioni), ci siamo fatti rubare la parola-chiave della nostra identità e della nostra casa, e il ladro e il mentitore ora le sta contemporaneamente e allegramente negando e devastando e così, giocati tutti e tutte, ci sta portando dove voleva e vuole ... non solo alla guerra ma anche alla morte culturale, civile, economico-sociale e istituzionale! Il presidente di Forza Italia non è ...Ulisse e noi non siamo ... Troiani. Non si può e non possiamo tollerare che il nome ITALIA sia di un solo partito... è la fine e la morte della stessa ITALIA! La situazione politica ormai non è più riconducibile all’interno del ’gioco’ democratico e a un vivace e normale confronto fra i due poli, quello della maggioranza e quello della minoranza. Da tempo, purtroppo, siamo già fuori dall’orizzonte democratico! Il gioco è truccato! Cerchiamo di fermare il ’gioco’ e di ristabilire le regole della nostra Costituzione, della nostra Legge e della nostra Giustizia. Ristabiliamo e rifondiamo le regole della democrazia. E siccome la cosa non riguarda solo l’Italia, ma tutto l’Occidente (e non solo), cerchiamo di non andare al macello e distruggerci a vicenda, ma di andare avanti .... e di venir fuori da questa devastante e catastrofica crisi. Io, da semplice cittadino di una ’vecchia’ Italia, penso che la logica della democrazia sia incompatibile con quella dei figli di "dio" e "mammasantissima" che si credono nello stesso tempo "dio, papa, e re" (non si sottovaluti la cosa: la questione è epocale e radicale, antropologica, teologica e politica - e riguarda anche le religioni e la stessa Chiesa cattolica) si danno da fare per occupare e devastare le Istituzioni! Non si può tornare indietro e dobbiamo andare avanti.... laici, cattolici, destra, sinistra, cittadini e cittadine - tutti e tutte, uomini e donne di buona volontà. Allora facciamo che il gioco venga fermato e ... e che si apra il più ampio e diffuso dibattito politico e culturale - si ridia fiducia e coraggio all’ITALIA, e a tutti gli Italiani e a tutte le Italiane. E restituiamo il nome e la dignità all’ITALIA: a noi stessi e a noi stesse - in Italia e nel mondo...... cittadini e cittadine della Repubblica democratica d’Italia. Un semplice cittadino della nostra bella ITALIA!
Federico La Sala
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www.ildialogo.org, Mercoledì, 05 aprile 2006
L’Italia incompatibile
di Furio Colombo *
Giorni come il 25 aprile tracciano linee di confine, demarcazioni nette fra un prima e un dopo, fra un destino e un altro destino, un’Italia e un’altra Italia. Non resta che sperare che niente di questa data diventi cerimonia e abitudine e che ci sia sempre chi la spiega nelle scuole ai più giovani con pazienza e chiarezza.
Non c’è niente in questa frase che condanni irreversibilmente qualcuno, vita, scelte, idee, sentimenti, o che stabilisca (troppo tardi, comunque) una lista di reietti. Niente che non rispetti i morti. Quanto ai vivi, gli esseri umani cambiano in meglio o in peggio e si trasformano tutto il tempo come la natura, il paesaggio, la storia. Dipende dal momento in cui si scatta la fotografia il rapporto col tempo, passato e futuro.
Ma date come il 25 aprile non spostano di un millimetro il senso di ciò che è avvenuto e che ha salvato tutti, persecutori e perseguitati, anzi ha salvato - con il suo impetuoso sbocco nella libertà - sopratutto i persecutori che sarebbero stati costretti a continuare nella loro triste missione, ondata di morti dopo ondata di morti.
Per questo chiunque, la sera del 22 aprile, si sia incontrato con il programma «RT, Rotocalco televisivo, Speciale Resistenza e resistenze», di Enzo Biagi, su Raitre, ha un debito in più verso il vecchio maestro che non rinuncia. E dopo cinque anni di esilio riprende con gli italiani, tra montagne di spazzatura e di vergogna, il discorso di libertà esattamente dal punto in cui lo avevano forzato a interrompere.
Come ricorderete Enzo Biagi è il primo, nella lista di alcuni protagonisti della televisione italiana (tra cui Michele Santoro, Daniele Luttazzi) licenziati personalmente con un potere che non aveva - ma che alla Rai, tramite personale subalterno, è diventato immediatamente esecutivo - dal presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Molti di noi hanno frequentemente citato con scandalo la motivazione di quel licenziamento: «attività criminosa». Con queste parole Silvio Berlusconi che - ci viene detto - non è nemico ma solo avversario, intendeva descrivere ogni attività di opposizione. E a molti di noi è sembrato naturale definire “regime” la situazione politica in cui un governante vuole e può mettere a tacere chi non lo esalta.
Ora, cambiato il tempo, il governo - e, un pochino anche il Paese e la Rai - Enzo Biagi ritorna. E con la sua trasmissione dedicata alla Resistenza, nel senso originale del 25 Aprile e nel senso perenne del non piegarsi solo perché qualcuno è più ricco e potente e ti può anche mettere al bando, racconta con la sua implacabile pacatezza che esiste una Italia incompatibile con l’Italia libera e democratica evocata da quel giorno e descritta nei dettagli dalla Costituzione. E che non è questione di sentimenti (inimicizia o gentile confronto) ma di nessun punto di corrispondenza fra un’Italia e l’altra. Dice che non bastano né le lacune della memoria né la potenza dei media (tuttora in prevalenza orientati a non offendere un grande editore che può comprare tutto, e può comprare molti) a oscurare l’incompatibilità di un’Italia con l’altra.
Credo che possa essere utile confrontare il sommario della trasmissione con cui Biagi torna in Tv con l’articolo di fondo de Il Giornale (autore Massimo Teodori) dello stesso giorno. Quell’articolo celebra la buona accoglienza riservata a Berlusconi nei due congressi fondanti del nascente PD, ma poi elenca le tappe, che per l’autore sono esecrabili, della “delegittimazione di Berlusconi”. L’Italia di Biagi si apre con Roberto Saviano e la piovra della camorra con cui non si può convivere, si chiude con Tina Anselmi, mai dimenticata investigatrice della P2, passa attraverso la Resistenza come guerra partigiana e lotta al fascismo.
Ci fa riascoltare la voce limpida di Primo Levi che descrive con la famosa chiarezza come si distrugge un essere umano. Ascolta Vittorio Foa da giovane: si poteva non resistere?
E colloca al centro il magistrato Gherardo Colombo, verso cui molti italiani si considerano debitori (come verso tutto il Pool di Mani pulite) per la coraggiosa, tenace, difficilissima difesa della reputazione dell’Italia, mentre stava per essere ricoperta da un blob di corruzione tra i più vasti e più estesi al mondo.
Dunque, lo stesso giorno in cui è andata in onda la trasmissione-manifesto di Enzo Biagi, Massimo Teodori ha scritto: «La storia (della delegittimazione e demonizzazione del “nemico” politico, Ndr) cominciò dal colle più alto con Oscar Luigi Scalfaro che distorse i poteri presidenziali contro il premier». Come è noto «li distorse» per impedire che il plurinquisito Previti, ora condannato in via definitiva, diventasse ministro della Giustizia, evitando dunque un grave insulto alla Repubblica e all’immagine dell’Italia nel mondo. L’articolo di Teodori continua: «La storia proseguì con l’accanimento giudiziario in sintonia con l’ala giustizialista dei post-comunisti». Si capisce l’intento.
“Accanimento giudiziario” deve diventare il titolo di un capitolo della storia italiana, quello dei processi a Silvio Berlusconi. L’autore evidentemente conta sul fatto che a poco a poco smetteremo di insistere nel raccontare ciò che è avvenuto davvero e finiremo per dire che, sì, quelle gravissime imputazioni non erano che vaneggiamenti di giudici comunisti. L’affermazione viene dalla casa che non ha esitato a dire e a ripetere che «bisogna essere mentalmente tarati per fare i giudici».
Ma l’autore del fondo de Il Giornale implacabile continua:
«Infine i girotondi espressero, ai limiti del grottesco, quell’animus giacobino tanto gradito ai piani alti della politica illiberale e della gauche caviar, la cui nobile aspirazione era vedere in manette il parvenu della politica».
Poiché i girotondi sono mobilitazione spontanea, diventa interessante l’evocazione dei «piani alti della politica illiberale» che vuol dire: è illiberale chi invoca «la legge uguale per tutti» e denuncia le leggi ad personam che la rendono «legge di uno solo». La frase è affetta da palese assurdità fattuale, logica e storica. Ma Teodori ha un punto di forza su cui poggiare la sua costruzione orwelliana del “ministero della verità”. Dice infatti in conclusione: «Se il Partito Democratico servirà a tenere a freno le pulsioni antidemocratiche tanto radicate nei politici di sinistra (ovvero l’ostinazione a ripetere : “la legge è uguale per tutti”, Ndr) sarà un passo avanti per l’Italia civile e liberale». Sembra chiaro che qui si sta accennando all’Italia di Previti, Dell’Utri, Cuffaro, dei beneficiari di condono continuo, degli evasori lodati perché «a un certo punto diventa legittimo frodare il fisco», degli scrupolosi autori dei falsi in bilancio, di personaggi come il sindaco An di Trieste che ha sempre rifiutato di recarsi alla risiera di San Sabba dove fascisti e nazisti massacravano gli ebrei.
Del resto il capo di tutta questa gente mai si è fatto trovare - lui che è dappertutto - ad una celebrazione del 25 aprile durante i cinque anni del suo celebrato governo costellato di canzoni e di allegre passeggiate a Villa Certosa. L’Italia di Tina Anselmi, di Oscar Luigi Scalfaro, di Gherardo Colombo, dei girotondi ne ha fatto a meno.
Come si vede la questione - che è giusto ripetere nel giorno della Resistenza incoraggiati dal libero ritorno in video di Enzo Biagi - non è di buona educazione (anche se è bene mostrare buona educazione quando Silvio Berlusconi si presenta al congresso di un partito che ha appena finito di considerare autore di «delitti, morte e miseria»). È una questione di incompatibilità. L’Italia della Liberazione e della Costituzione è incompatibile con l’Italia della illegalità che ha cercato, senza successo, di cancellare il 25 aprile e metà della Costituzione italiana nata dal 25 aprile. La scelta fra queste due Italie è una decisione drammatica che tocca agli elettori. A noi spetta il compito di rendere chiara l’alternativa.
* l’Unità, Pubblicato il: 25.04.07, Modificato il: 25.04.07 alle ore 8.40