Primi segni di un altro mondo
di Umberto De Giovannangeli *
Gesti e parole. Che segnano una fine e segnalano un nuovo inizio. La fine della pretesa superiorità dell’Occidente sul variegato mondo islamico; una pretesa che ha supportato sul campo la devastante «avventura» irachena. Gesti e parole. Che vanno ben al di là del riconoscimento dell’altro da sé, ben al di là della «tolleranza» che presuppone in sé una gerarchia di valori, idealità, e anche politiche.
Il dialogo tra l’Occidente cristiano e l’Islam si nutre di grandi gesti simbolici. Come quello compiuto ieri da Benedetto XVI in Turchia con la sua visita alla Moschea Blu di Istanbul. La «meditazione», col Papa insieme al Gran Muftì di Istanbul Mustafa Cagrici, davanti al «mihrab», la nicchia che indica la Mecca.
L’atto di umiltà con il Pontefice che entra nel luogo di culto islamico togliendosi le scarpe per rispetto all’usanza musulmana. Gesti e immagini che resistono al tempo. Come l’immagine di Benedetto XVI, con le mani congiunte sul petto, gli occhi socchiusi, mentre bisbiglia parole sacre in un luogo sacro agli islamici. Il Papa scalzo conquista il cuore dell’Islam che crede possibile coniugare modernità e tradizione, identità e apertura.
Rispetto. Umiltà. Dialogo. «Questa visita ci aiuterà a trovare insieme i modi, le strade della pace per il bene dell’umanità», dice il Papa al Gran Muftì. Non è solo un auspicio. È un impegno solenne. È il segno di una svolta. Un passaggio d’epoca. «Sono felicissimo di accoglierla. È stata una grandissima visita», è il commento, tutt’altro che scontato o rituale, del Gran Muftì di Istanbul. L’immagine del Papa in raccoglimento nella Moschea Blu «irrompe», tramite Al Jazira, nelle case dei musulmani di ogni latitudine, segnando in modo definitivo che lo «strappo» di Ratisbona è ormai sanato e che il dialogo è una volontà concreta non una mozione indefinita.
La Turchia e il Papa si sono incontrati contro tutte le aspettative. E contro tutti gli «orfani» inconsolabili degli «Scontri di Civiltà»; contro i propugnatori della superiorità dell’Occidente verso un Islam descritto (e combattutto) come un universo compatto, privo di differenziazioni interno, pregiudizialmente ostile e dunque da contrastare. Con ogni mezzo.
Quel gesto di lungimirante umiltà è una sfida. Lanciata agli integralisti di ogni campo, ai jihadisti come ai neo e teocon di casa nostra. Parole che segnano una svolta. Parole che scandiscono un « cambio di passo». Come quelle pronunciate ieri da Giorgio Napolitano. Ospite d’onore alla seconda Giornata dell’Asia e del Pacifico celebrata a Villa Madama, il capo dello Stato lancia un invito a raccogliere le sfide che vengono dall’Oriente, che non sono solo economiche.
Il dialogo è anche una «sfida». Una sfida per costruire e non distruggere, per crescere insieme. Il gesto del Papa e le parole del Presidente italiano hanno questo in comune: la forza delle proprie convinzioni che non diviene ragione per edificare Muri di diffidenza. La conoscenza come antidoto alla demonizzazione dell’altro da sé. Il rispetto come fondamento di un dialogo che per essere davvero fecondo necessità di reciprocità. Con l’Oriente, afferma Napolitano, dobbiamo confrontarci senza rinunciare ai nostri valori, ma «senza vecchie presunzioni e senza e paralizzanti timori. Cioè senza presumere di essere portatori, come occidentali, di una civiltà superiore, aprendoci a un ben maggiore sforzo di conoscenza di civiltà non meno ricche».
Conoscenza. Parità. Rispetto. Aperture possibili in quanto chi se ne fa portatore ha forti convincimenti morali, etici, e religiosi. Anche di una religiosità «laica» come quella che permea le riflessioni di Napolitano. Gesti e parole che danno conto di una modernità straordinaria di cui si sono fatti interpreti l’anziano Papa e l’altrettanto anziano Presidente. Gesti e parole che che rappresentano un investimento sul futuro. Un futuro che si spera, che si vuole, come «Incontro di Civiltà».
* l’Unità, Pubblicato il: 01.12.06 Modificato il: 01.12.06 alle ore 9.13
Papa in Turchia, Francesco a Istanbul
Entra nella Moschea Blu
di Redazione *
Papa Francesco è a Istanbul, seconda tappa del suo viaggio in Turchia. L’aereo con a bordo il Pontefice, proveniente da Ankara, è atterrato all’aeroporto internazionale della città sul Bosforo. Papa Bergoglio è stato accolto all’aeroporto dal patriarca ecumenico di Costantinopoli, Bartolomeo, e dal governatore della città.
Papa Francesco è entrato nella Moschea Sultan Ahmet di Istanbul, conosciuta anche come Moschea ’Blu’. Ad accoglierlo sull’ingresso è stato il Gran Muftì. Imponenti le misure di sicurezza lungo il percorso che ha fatto il Papa dall’aeroporto e anche nei dintorni della stessa Moschea.
Con le mani giunte sopra la croce pettorale, il volto chino, gli occhi chiusi. Così papa Francesco si è raccolto, in silenzio, nella Moschea Blu di Istanbul davanti al "mihrab", la nicchia che indica la direzione della Mecca. Il Pontefice è rimasto così, in raccoglimento, preghiera o meditazione spirituale, per oltre due minuti accanto all’imam che declamava delle invocazioni. Entrando nella moschea, papa Francesco, in rispetto alla tradizione musulmana secondo cui bisogna entrare scalzi nei luoghi di culto, si era tolto le scarpe.
Il Papa è stato dapprima accompagnato nella visita dentro la moschea, quindi si è trattenuto alcuni minuti in maniera riservata. Bergoglio, al suo arrivo a Istanbul, secondo il programma originario avrebbe dovuto andare prima al Museo di Santa Sofia e solo dopo alla Moschea Blu, ma ha invertito l’ordine della visita per rispetto nei confronti dell’ora di preghiera musulmana. Nella sua visita alla Moschea Blu il 30 novembre di otto anni fa, anche Benedetto XVI era rimasto raccolto in preghiera davanti al "mihrab", con le mani unite e muovendo impercettibilmente le labbra, per oltre un minuto con a fianco il Gran Mufti.
Papa Francesco è arrivato nella Basilica di Santa Sofia a Istanbul, oggi un Museo. E’ tra i principali monumenti della città turca. Fu cattedrale cristiana di rito bizantino fino al 1054, sede patriarcale greco-ortodossa, cattedrale cattolica, poi moschea, infine museo dal 1935, per volere del padre della Turchia Ataturk. Sovrastata da una gigantesca cupola è una delle migliori espressioni dell’architettura bizantina.
Mi fa piacere farle sapere - a titolo puramente personale - che sono d’accordo con quanto dice. Credo sia importante lavorare per rendere possibile un incontro che può essere non solo fecondissimo per ambo le parti (cristianesimo e islam, occidente e oriente, "laici e religiosi" ecc.) ma soprattutto un modello alternativo alla vecchia logica della guerra, della divisione, dei muri innalzati per proteggersi .
padre Paolo Bizzeti SJ direttore di Villa San Giuseppe - Centro di spiritualità a Bologna. (ho avuto la fortuna di partecipare a tutto il viaggio del Papa nelle sue varie tappe...)
L’Occidente preoccupa Benedetto
Con il suo viaggio in Turchia il Papa sembra aver chiuso l’incidente di Ratisbona. Ma il comune avversario delle Chiese non è l’Islam, è la «secolarizzazione, il nichilismo, il relativismo» occidentali, come dice la dichiarazione congiunta dei due capi
di GIAN ENRICO RUSCONI *
Ce l’ha fatta Benedetto XVI. Con il suo viaggio in Turchia sembra aver accontentato tutti. Sono soddisfatti i cattolici interessati all’intensificazione dei rapporti con la Chiesa ortodossa; i religiosi e i laici preoccupati del dialogo politico e culturale con l’Islam nella versione turca, che è la più accettabile secondo i criteri europei. Sono contenti i politici di Ankara che volevano dimostrare all’Europa di saper controllare l’estremismo religioso del loro Paese. Hanno trasformato in successo politico quella che alla vigilia sembrava una operazione rischiosissima. Non da ultimo esce rafforzata la figura di papa Ratzinger con la sua specifica personalità. Certo, rimane il dubbio che questo viaggio abbia soltanto rimosso alcune difficoltà preliminari, abbia corretto errori commessi in precedenza. Abbia posto cioè semplicemente le premesse per un lavoro tutto da inventare. Bilancio positivo, comunque, se misurato ai timori della vigilia, e che ora ci consente di guardare con occhio più sereno a un complesso di problemi che rimangono molto seri.
Cominciamo dalla figura del Papa, finalmente emancipato dalla figura del suo predecessore e mentore. Non è certamente un caso che Ratzinger abbia ripetuto le parole semplici e forti di un altro suo predecessore (Giovanni XXIII): «Io amo i turchi». Queste parole, con altri gesti e immagini (prima fra tutte la fotografia del Papa sorridente accanto alla grande bandiera nazionale turca) hanno colpito l’opinione pubblica turca, che spesso coltiva il complesso di vittima della malevolenza occidentale. Dobbiamo riconoscere che il Pontefice è stato particolarmente attento ad accentuare i gesti simbolici, all’altezza della comunicazione mediatica. A cominciare dalla discesa dell’aereo quando non portava in evidenza il crocifisso sulla veste bianca. Diplomazia e coerenza ideologica. Questo atteggiamento è stato più importante che l’augurio (forzatamente interpretato) che la Turchia possa raggiungere il suo obiettivo di entrare nella Unione Europea. Il Papa infatti offre una garanzia autorevole che l’Islam, in versione turca, non è incompatibile con i valori europei. È un punto molto importante, quando si affronta il dibattito sulla specificità della Turchia nel mondo islamico.
Reciprocamente l’atteggiamento di Ratzinger rende più coerente ed efficace la sua insistenza sulla «libertà religiosa» che è un principio ineludibile per un autentico Stato laico. Se le autorità politiche di Ankara si decidessero a formalizzare e a dare attuazione in modo inequivocabile a questo principio, manderebbero un segnale decisivo ai molti che sono contrari all’entrata della Turchia nell’Unione europea perché è inadempiente su alcuni principi democratici fondamentali. Detto questo, avanzo l’ipotesi che sarà più facile ottenere il riconoscimento formale della libertà religiosa dallo Stato turco che non registrare significativi progressi nei rapporti tra la Chiesa cattolica e quella ortodossa. Anche qui si sono visti grandi simpatici segnali simbolici. Compresa la fotografia dei due capi della rispettive Chiese che alzano le braccia congiunte in un gesto di riconoscimento paritario reciproco, anche se in realtà ricorda le foto mondane degli sportivi o dei politici nei grandi compressi di partito. Ma anche qui siamo davanti alla logica mediatica.
Quello che invece ha colpito è la mancata partecipazione alla comunione eucaristica. Storici e teologi spiegano in tutti i dettagli perché il Papa non poteva farlo. Come laico potrei ingenuamente essere scandalizzato, dopo aver letto tante parole solenni. Ma so che qui tocchiamo una questione dogmatica essenziale quanto quella del riconoscimento dell’autorità papale, nel cui merito non entro. Ma l’impressione (non positiva) che se ne trae, allora, è che la riapertura del dialogo tra le Chiese avviene fondamentalmente su posizioni difensive verso il comune avversario che - si badi - non è affatto l’Islam ma «la secolarizzazione, il relativismo e il nichilismo in particolare nel mondo occidentale», come dice la dichiarazione congiunta dei due Capi delle Chiese. Siamo cosi tornati a un punto critico dell’intera strategia ratzingeriana. Era già evidente nell’importante lezione di Ratisbona, che ha provocato tanti equivoci a proposito dell’infelice citazione su Maometto. A questo proposito l’incidente comunicativo sembra chiuso, proprio anche grazie alla visita in Turchia. Ora è chiaro più che mai che il vero avversario rimane in Occidente.
* La Stampa, 02.12.2006
Oltre Wojtyla
di FRANCO GARELLI *
Quasi nessuno si sarebbe aspettato un gesto innovativo e dirompente come quello che Benedetto XVI ha compiuto ieri pomeriggio nella visita alla Moschea Blu di Istanbul, quando ad un certo punto si è raccolto in silenzio e in preghiera davanti alla nicchia che indica la Mecca. Per tutta la giornata le agenzia di stampa avevano ribadito l’idea che non vi sarebbe stata una preghiera del Papa in questo importante tempio dell’Islam, che il protocollo non lo prevedeva, che non vi erano segni di un cambiamento di stile da parte di un Pontefice teologo molto attento alle verità della fede e alle distinzioni tra le confessioni religiose.
E invece si è verificato il grande evento, l’apertura inattesa, il «gesto» che è diventato dunque la vera icona di questo singolare viaggio pontificio in terra islamica. Il Papa cattolico, visitando la Moschea Blu, non soltanto ha reso un atto di omaggio a una grande religione storica come l’Islam. Non solo, come ogni visitatore è entrato scalzo in questo splendido tempio per ammirarne la grandezza, l’armonia orientale e il richiamo verso l’alto. Ma oltre a ciò - come ha riferito il direttore della sala stampa vaticana Padre Federico Lombardi - «davanti al mihrab, nella Moschea Blu, il papa ha sostato in meditazione e certamente ha rivolto a Dio il suo pensiero». Non c’è alcun dubbio sul significato e valore del gesto, come lo stesso Pontefice ha ammesso quando ha ringraziato «per questo momento di preghiera» il Gran Mutfì che l’accompagnava nella visita.
Con questo gesto il Papa sembra superare il solito cliché degli incontri ecumenici in cui gli esponenti di religioni diverse pregano insieme il proprio Dio; per andare invece verso il riconoscimento dell’esistenza di un Dio comune alle tre religioni monoteistiche, di un Dio dunque condiviso dai figli di Abramo, di Isacco, di Giacobbe. Si tratta certamente di un gesto che sembra proclamare l’esistenza di uno stesso Dio, che può essere pregato sia nella Basilica di San Pietro sia nelle moschee sia nelle sinagoghe di tutto il mondo. E per non lasciar dubbi all’interpretazione, si può citare la frase con cui Ratzinger sempre nel pomeriggio di ieri ha vergato il Libro d’Oro di Santa Sofia, al termine della sua visita a questa ex-basilica, ex-moschea o ora museo: «Nelle nostre diversità ci troviamo davanti alla fede del Dio unico».
Pur nella rilevanza del gesto, occorre però ricordare che non è la prima volta che un Papa visita una moschea e vi prega. L’aveva già fatto a Damasco, nella storica moschea degli ommaidi, Karol Wojtyla, un pontefice la cui capacità di gesti profetici sembrava molto più pronunciata di quella del suo successore. Tuttavia, l’innovazione di ieri di Ratzinger sembra essere per varie ragioni più impegnativa della svolta storica del Papa polacco. Anzitutto, quello siriano è un Islam molto più aperto di quello turco, che si caratterizza per una posizione dominante ma anche anomala rispetto a ciò che accade in altri Stati di religione islamica. L’anomalia dell’Islam turco è di essere ufficialmente una religione tollerata da un regime costituzionale di laicità, ma che svolge di fatto il ruolo di una religione di Stato la cui preponderanza elimina sempre più la presenza delle altre religioni.
Con la sua visita in Turchia, Ratzinger non si è sottratto al confronto con questa ambivalenza ed ha espresso nei suoi discorsi una coerente teologia del dialogo tra monoteismi, accettabile per entrambe le parti. Il gesto della preghiera è dunque solo la logica conseguenza di questo discorso. Se c’è un Dio unico e comune, comune deve essere anche la possibilità di pregarlo, pur nella diversità dell’invocazione o del nome attribuitogli. Se il regime di laicità tollera tutte le religioni, perché non permette l’espressione della religiosità da parte di uno dei suoi leader?
Praticando la preghiera in uno spazio sacro non cristiano Ratzinger afferma con un gesto fortemente simbolico l’esigenza della libertà religiosa, e lo fa in coerenza con una visione teologica del mondo, non semplicemente civile.
Il gesto eclatante di ieri rischia di far passare in secondo piano il significato ecumenico del viaggio, anche se di fatto non è così. Grande era l’attesa da parte del Patriarcato ortodosso che il Papa gli garantisse quel riconoscimento istituzionale e internazionale di cui la Chiesa ortodossa ha assolutamente bisogno per sopravvivere in una terra a netta prevalenza musulmana. Ratzinger ha soddisfatto questa attesa a due livelli: anzitutto nei suoi discorsi, valorizzando il ruolo dell’ortodossia alla realizzazione della pace, e ribadendo il primato di Costantinopoli all’interno delle Chiese ortodosse; ma soprattutto attraverso il gesto simbolico della sua preghiera in una moschea. La libertà religiosa non è solo un auspicio o un diritto astratto, ma anche uno spazio conquistabile concretamente attraverso dei gesti profetici. Come sovente accade, i segni sono più importanti dei discorsi, creano realtà, suscitano condizioni di libertà.
* La Stampa, 02.12.2006