I “veri” laici minoranza da battaglia
Devono riconoscere la loro condizione d’inferiorità nel Paese. Da qui dovranno battersi per un’estensione dei diritti di cittadinanza (senza abusare di Dio)
di GIAN ENRICO RUSCONI (La Stampa, 29/5/2007)
Parlano tutti, nel nostro Paese, salvo il Parlamento che dovrebbe essere il luogo della discussione ponderata e della decisione. Chi ha più voce, chi ha maggiore copertura mediatica, ritiene d’avere più ragione. «Piazza San Giovanni» è evocata come evento politico inappellabile. Una volta la piazza era rossa, adesso è bianca. La dinamica sembra la stessa, ma senza l’enorme copertura mediatica e la ricattabilità morale di moltissimi politici, non saremmo arrivati alla situazione attuale. Siamo approdati ad una democrazia post-parlamentare. È un paradosso che soltanto il nostro Paese poteva inventare.
Ai tempi del governo Berlusconi si denunciava con enfasi (anche da una parte cattolica) la deriva verso una democrazia populista e mediatica. Se adesso dicessimo che sta avvenendo qualcosa di simile per la mobilitazione cattolica - sia pure ad un livello più alto - saremmo subissati da critiche irritate. Eppure da settimane stiamo assistendo a una massiccia campagna di contro-informazione che assicura che i Dico sono politicamente liquidati. La piazza extra-parlamentare canta vittoria e alza la posta. Il punto è che con questa maggioranza parlamentare insicura e litigiosa tutto è possibile.
Ma che cosa significa la «non negoziabilità» di valori presuntivamente assoluti se non la virtuale paralisi del sistema parlamentare? Si parla di valori presuntivamente condivisi dalla stragrande maggioranza degli italiani. Ma si dimentica che questa presunzione contraddice il principio della pluralità dei valori (legittimamente condivisi dalle minoranze) e del loro riconoscimento pubblico. Altrimenti non ha senso parlare di democrazia laica.
Al di là dei contenuti su cui si discute (politiche più o meno strumentali per la famiglia, qualità dei diritti delle coppie di fatto e omosessuali ecc.) ciò che colpisce è lo stile della comunicazione pubblica. In realtà non si dialoga affatto, si proclama. Nel giro di pochi mesi dagli enfatici appelli dei vescovi a non «escludere Dio dal discorso pubblico» si è arrivati all’uso sistematico del discorso-in-pubblico (nelle piazze, nei macroconvegni, nelle zelanti corrispondenze mediatiche dal Vaticano) che mira a orientare, spesso con toni intimidatori, i parlamentari. E ci sta riuscendo.
Nelle cosiddette questioni eticamente sensibili il governo è paralizzato. È un governo-travicello che galleggia grazie al gioco delle correnti della politica. Ma non ha una direzione propria. Senza reagire, si lascia dire dalla Cei che cosa sia la «vera laicità» dello Stato. Temo che il «cattolico adulto» Romano Prodi non sia in grado di andare oltre l’appello tradizionale alle «questioni di coscienza». Non si rende conto che la posta in gioco non è più la coscienza individuale, ma l’etica pubblica, che è cosa completamente diversa.
Non ripeteremo qui ancora una volta le ragioni della laicità in democrazia o le linee di una ragionevole politica per la famiglia e per le unioni di fatto e omosessuali. Questo giornale lo ha fatto decine volte, con più voci. Non serve più ripeterlo, perché quelli della «piazza San Giovanni» non ascoltano (ammesso che l’abbiano fatto qualche volta nel passato). Anzi sono gli altri che sono pressati ad ascoltarli, o meglio a seguire le loro indicazioni.
Invece di finire queste considerazioni con toni di sconforto, invito i laici (quelli che non aspettano l’autorizzazione ecclesiastica per ritenersi «veri» laici) a riconoscersi e a considerarsi minoranza nel Paese. È a partire da questa condizione di minoranza che dovranno essere riprese le battaglie per una matura estensione dei diritti di cittadinanza. Nell’interesse generale e senza abusare di Dio.
Il capo dello Stato interviene sul dibattito in corso esortando la classe dirigente
"Pensare in grande, contro le manovre opportunistiche"
Napolitano: moralità e rigore
per superare la crisi della politica *
AVELLINO - Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in visita ad Avellino, ha aspettato che si completasse lo spoglio delle elezioni amministrative per entrare nel merito della crisi della politica. Con parole semplici e chiare, il capo dello Stato rifiuta la "denuncia della crisi fine a se stessa" e chiede impegno, da parte di tutti: forze politiche e forze sociali.
Intervenendo ad Avellino alle celebrazioni per i 60 anni dalla scomparsa del meridionalista Guido Dorso, Napolitano sottolinea l’opportunità di "trasmettere la lezione di moralità e di rigore di Dorso", lezione che definisce "ancora sferzante e stimolante, da cui possono trarre ispirazioni le giovani generazioni, nell’avvicinarsi alla politica per rinnovarla".
Per Napolitano si tratta di "un tema scottante, su cui avrò modo di tornare in questi giorni. Un tema che dovrebbe sollecitare una riflessione costruttiva non solo di tutte le componenti dello schieramento politico ma di tutte le componenti della società italiana".
Per il presidente della Repubblica, infatti, "la soluzione ai problemi, sia delle riforme istituzionali sia del rinnovamento della politica, può venire soltanto attraverso un impegno conseguente delle forze sociali, culturali e politiche, in particolare, di quelle rappresentate in Parlamento, siano esse di maggioranza o di opposizione".
Avverte a tal proposito Napolitano: "Al di fuori di tutto ciò, c’è solo la denuncia che, perdendo il senso della misura, può anche diventare controproducente e pericolosa". Il capo dello Stato fa suo quello che definisce "l’insegnamento che resta di Dorso, al di là delle speranze e della realizzazioni" ovvero "pensare idealmente e in grande la politica, contro la piccola politica delle manovre opportunistiche".
* la Repubblica, 29 maggio 2007