Parlando all’Università di Torino il governatore di Bankitalia sottolinea la necessità di far ripartire i consumi
Invocato anche l’innalzamento dell’età pensionabile, la riforma della scuola e del mercato del lavoro
Draghi: "In Italia stipendi troppo bassi
il reddito torni a crescere in modo stabile"
TORINO - "Occorre che il reddito torni a crescere in modo stabile". E’ il monito lanciato dal governatore di Bankitalia, Mario Draghi, in una lezione all’Università di Torino aggiungendo che "una ripresa della crescita del consumo è fondamentale per il benessere generale, per la crescita del prodotto, per la stessa stabilità finanziaria. Destinatari e protagonisti di questo processo sono in particolare i giovani".
I livelli retributivi dell’Italia, ha proseguito il governatore, "sono piu bassi che negli altri principali paesi dell’Unione europea". "Le differenze salariali rispetto agli altri paesi - ha aggiunto - sono appena più contenute per i giovani, si ampliano per le classi centrali di età e tendono ad annullarsi per i lavoratori più anziani. Il differenziale è minore nelle occupazioni manuali e meno qualificate".
Parlando dei giovani, Draghi ha toccato anche il tema della precarietà. "La politica economica - ha osservato - avrà successo se aiuterà i giovani a scoprire nella flessibilità la creatività, nell’incertezza l’imprenditorialità". "Nel confronto europeo - ha sottolineato - l’Italia è il paese con la quota più alta di giovani che convivono con i genitori e con la quota più bassa di nuclei familiari con capofamiglia al di sotto dei 30 anni".
Più in generale, il governatore è tornato invece sulla sua richiesta di innalzare l’età pensionistica e riforma il mercato del lavoro per aumentare l’efficienza e la competitività del Paese. "Un innalzamento dell’età effettiva di pensionamento - ha detto Draghi - può ricostruire l’equilibrio fra attesa di vita, attività lavorativa e modelli di consumo". Altra riforma strutturale invocata dal numero uno della Banca d’Italia è stata quella "coraggiosa" del sistema educativo e "in particolare dell’istruzione superiore".
Obiettivo dell’intervento del legislatore, secondo Draghi, deve essere il "sollecitare i giovani in procinto di affacciarsi sul mercato del lavoro a investire seriamente in capitale umano", consentendo loro "di valutare e selezionare la qualità dell’istruzione ricevuta".
Il Governatore ha scoperto i salari
di Alfredo Recanatesi *
Con una dovizia di dati che solo la Banca d’Italia è in grado di produrre, il Governatore ha posto la questione salariale al centro dell’incapacità di crescere che l’economia italiana dimostra ormai da anni.
Non siamo certo tra coloro che se ne stupiscono: da tempo andiamo sostenendo che la crescita di questi ultimi due anni è solo un riflesso della ripresa dell’economia europea; un riflesso, per altro, opaco perché innescato dalla domanda estera e da questa rimasto dipendente, senza un adeguato sostegno della domanda interna che consenta di farvi affidamento una volta che il traino delle esportazioni per qualche motivo dovesse affievolirsi. Ma l’analisi del Governatore va oltre, e ci dice che in questi ultimi anni i redditi da lavoro (in termini di potere d’acquisto, s’intende) sono rimasti stazionari, e se i consumi hanno potuto ugualmente progredire è stato per due sostanziali fattori, entrambi contingenti: l’aumento delle rendite finanziarie (soprattutto le azioni), e l’aumento di valore degli immobili. Sono questi i fattori che hanno salvato l’economia italiana da un persistente ristagno. E, se questi sono i fattori trainanti, si può capire con quale grado di equità si è registrato il pur contenuto aumento dei consumi.
Insomma, un quadro che definire desolante è poco.
Porre l’entità dei salari al centro dei problemi di crescita della nostra economia è già un punto di arrivo; ce n’è voluto, ma ora che il Governatore vi ha posto il sigillo della Banca d’Italia sarà difficile per chiunque percorrere strade analitiche diverse. Ora si apre il dibattito sul come se ne può uscire. E a questo punto anche Draghi diventa generico mostrando fatica ad uscire da tesi che saranno pure fair secondo la cultura, il modo di pensare, ed anche gli interessi, dell’establishment al quale si riferisce, ma che ciò nondimeno rimangono assai poco convincenti. Prendersela con la politica è un po’ come sparare al canarino in gabbia. La politica, del resto, non è il consiglio di amministrazione di una impresa; deve provvedere ad una infinità di esigenze che rendono arduo per tutti contenere la spesaed indirizzarla maggiormente agli investimenti; non ultima l’esigenza di destinare risorse per contenere quelle distorsioni distributive che Draghi non cita esplicitamente, ma che emergono con chiarezza dalla analisi che lui fa di questa ultima decina d’anni.
L’istruzione? Certo che va riformata, ma, se c’è un problema di fuga dei cervelli e se tanti italiani si distinguono nel progresso scientifico e tecnologico in altre parti del mondo, forse è più urgente affrontare il problema del loro utilizzo in Patria. Si va in pensione troppo presto? È vero, ma è anche vero che il sistema produttivo non sembra offrire tante opportunità a chi ha superato i cinquant’anni.
Ogni capoverso del suo intervento meriterebbe chiose ed approfondimenti, ma ora, dopo una prima lettura, è più opportuno accennare al capoverso che non c’è: un capoverso, anche uno solo, sulle imprese. Quando si parla di salari, di produttività, di prodotto c’entreranno pur qualcosa. E invece nel suo intervento non sono neppure citate, come se la loro efficienza, le loro strategie, le loro capacità di iniziativa, fossero fattori estranei al tema «Consumo e crescita» sul quale ha tenuto la sua lectio magistralis all’Università di Torino.
Forse non è fair come prendersela con la politica, o con l’età pensionabile, o con la demografia, ma i dati che ha citato dicono ugualmente che la questione sta nella capacità di produrre reddito, e che questa dipende dalla produttività dei fattori della produzione, ossia il capitale e il lavoro. Sta, dunque, nelle imprese. E non è un caso che il problema della crescita e della stagnazione dei salari sia emerso grossomodo in seguito alla stabilizzazione del cambio e l’adozione dell’euro perché quella svolta avrebbe dovuto indurre il sistema produttivo al radicale cambio di passo dalla competitività di prezzo a quella sulla innovazione e sulla qualità; dalla piccola dimensione manovriera e flessibile ad una dimensione più consistente in grado di perseguire strategie di più ampio respiro; da produzioni a scarsa intensità di capitale ad altre con maggiori contenuti di specializzazione.
Occorre sempre ricordare che una parte delle imprese questa mutazione l’ha affrontata e spesso con successo, acquisendo il merito non solo di essersi messa in condizione di generare un valore aggiunto più elevato, premessa per un innalzamento del reddito pro capite, ma anche e soprattutto di dimostrare che il successo può anche essere conseguito nell’Italia che c’è senza aspettare quella che vorremmo; di dimostrare, anzi, che l’Italia che vorremmo sarebbe più a portata di mano se quelle imprese costituissero una parte più significativa dell’intero sistema.
Riferendosi all’intera economia, invece, Draghi ricorda che in corrispondenza dell’aumento dell’occupazione la produttività è diminuita, così certificando che la flessibilità è stata usata per ridurre i costi, per resistere un altro po’ alla concorrenza dei Paesi dell’Est, non per cogliere chissà quali nuove opportunità il mondo globalizzato può offrire. Che la chiave di tutto sia nella dinamica della produttività lo sappiamo tutti, ma sappiamo anche che non può crescere fino a quando a tanti laureati non viene offerto che un call-center, fino a quando tanti ricercatori rimangono precari e sottopagati nelle università, fino a quando un giovane che vuol farsi valere (e che ha una famiglia che se lo può permettere) va a lavorare in qualche altro Paese. Per poi, magari, vincere un Nobel.
* l’Unità, Pubblicato il: 27.10.07, Modificato il: 27.10.07 alle ore 9.47
Una ricchezza sbagliata
di Nicola Cacace (l’Unità, 25 ottobre 2007)
La forte e crescente ondata di malessere del Paese viene dalle condizioni di invivibilità da bassi salari e stipendi che affligge gran parte della popolazione dopo venti anni di brutale redistribuzione della ricchezza. Anche le proteste che naturalmente si rivolgono anzitutto contro le forze di governo originano da questo malessere e approfondendo i dati ci si meraviglia semmai per la debolezza collettiva delle proteste. Per capire le origini del malessere basta guardare i dati sulla distribuzione della ricchezza e quelli su salari e stipendi. L’ultima indagine «il mestiere di sopravvivere» (Venerdì di Repubblica del 19 ottobre) è sconvolgente: si va dai 1300 euro/mese dell’infermiere con 20 anni di anzianità ai 1680 euro della direttrice di Galleria dell’Accademia con 27 anni di anzianità agli 820 euro di una operatrice di call center che lavora cinque ore al giorno alla Vodafone da dieci anni, senza parlare dei tre milioni che lavorano in nero. Trattasi di guadagni di fame, tra i più bassi d’Europa e lesivi della dignità personale.
A tale proposito è allarmante il dato rilevato da una recente ricerca della Banca d’Italia dal titolo: «Il divario generazionale: un’analisi dei salari relativi dei lavoratori giovani e vecchi in Italia» di Alfonso Rosolia e Roberto Torrini. Analizzando i dati Istat e della banca centrale, i due economisti rilevano che: «Alla fine degli anni ‘80 le retribuzioni nette mensili degli uomini tra i 19 e i 30 anni erano del 20% più basse di quelle degli uomini tra i 31 e i 60 anni; nel 2004 la differenza è quasi raddoppiata in termini relativi salendo al 35%». Non solo, ma «nel decennio 1992-2002 il salario mensile iniziale è diminuito di oltre l’11% per i giovani entrati sul mercato del lavoro tra i 21 e i 22 anni presumibilmente diplomati (da 1200 euro mensili a meno di 1100 euro) e dell’8% per i lavoratori tra i 25 e i 26 anni, potenzialmente laureati (da 1300 a 1200 euro mensili). Per entrambe le classi di età i salari di ingresso sono tornati nel 2002 ai livelli di 20 anni prima».
La diffusione del precariato si intreccia coi bassi salari ma non è il principale colpevole. Il precariato, che riguarda sopratutto i giovani, ha altre colpe oltre i bassi salari come l’incertezza che impedisce ogni progetto di vita decente, ma il problema salariale riguarda ormai una maggioranza crescente di cittadini.
Per capire la ratio di questi salari da fame basta dare uno sguardo alle cifre sulla redistribuzione della ricchezza che è stata brutale e profonda soprattutto a partire dagli anni novanta. A farne le spese sono stati i lavoratori dipendenti, gli artigiani, i piccoli autonomi e la classe media: secondo dati della Banca d’Italia in dieci anni la ricchezza (case, titoli e moneta) del 10% delle famiglie più ricche è passata dal 41% al 48% della ricchezza nazionale, quella del 40% delle famiglie di mezzo è passata dal 34% al 29% mentre quella del 50% delle famiglie più povere è passata dal 25% al 23%. La redistribuzione della ricchezza, che è stata una costante del neoliberismo vittorioso nel mondo a partire dagli anni ottanta di Reagan e della Thatcher, è oggi il male profondo che le forze riformiste devono denunciare e combattere se vogliono tener fede alla loro missione politica.
C’è un pericolo oggi: il pensiero liberista dominante, di cui l’ultima opera di Alesina e Gavazzi sul «liberismo di sinistra» è l’inno più recente. In buona sostanza, si tende ad affermare l’idea che la crescita economica risolva tutti i problemi, che mercato e concorrenza, lasciati liberi di esprimersi, daranno risposte a tutti i bisogni del Paese, anche quelli sociali. La realtà è diversa: certo che la crescita è condizione necessaria per una redistribuzione, ma essa non sarà sufficiente come non lo è stata dalla fine degli anni Ottanta al 2000 quando la nostra crescita economica non è stata malvagia e quando i frutti di quella crescita - ecco il punto - sono andati ad arricchire una minima parte della popolazione e ad impoverire le grandi masse.
Se oggi l’Italia è un’azienda indebitata e sottocapitalizzata, come dice Padoa Schioppa, se essa è patria dei più bassi salari d’Europa, va ricordato che, come dicono sempre i dati Bankitalia, essa è anche patria dei cittadini più ricchi d’Europa: la ricchezza in case, titoli e moneta degli italiani è pari a nove volte il Pil, più di 21mila miliardi di euro su 1.540 miliardi di Pil. Per capire come la redistribuzione della ricchezza dell’ultimo ventennio abbia arricchito una minoranza di italiani a spese delle masse, basta guardare alla ricchezza posseduta dai cittadini di altri Paesi europei che non supera mai cinque volte il loro Pil. Sotto quest’aspetto l’Italia assomiglia più agli Stati Uniti che a Francia e Germania, essendo come noto il gigante d’oltre Atlantico il Paese socialmente più diseguale al mondo.
Mentre l’Italia è il Paese più indebitato (105% del Pil) e più povero d’Europa (in 10 anni il Pil unitario è passato da +10% a -5% rispetta alla media europea) gli italiani sono il popolo “mediamente” più ricco d’Europa.
Di fronte a dati di questo genere, in un Paese non complessato dal peso di vecchie ideologie e culturalmente vivo, si svilupperebbe un dibattito serio su una qualche forma di «imposta sui patrimoni, almeno su quelli finanziari» che possa ridurre la condanna certa a 100 anni di sottosviluppo che aleggia sulle teste dei nostri figli e nipoti, che dovranno sobbarcarsi a decine d’anni di sottosviluppo per pagare ogni anno 70 miliardi interessi sul debito pari a tre finanziarie, senza alcun vantaggio per il Paese. Absit iniuria verbis! Come non detto. Da noi gli economisti ed i politici si sbracciano su declino italiano e crescita sotto le medie. Ma quale azienda, con un debito superiore ai suoi ricavi annui riesce a crescere sulle medie? Perché dovrebbe riuscirci un’azienda indebitata e sottocapitalizzata come l’azienda Italia?
Il governatore Draghi: «In Italia salari più bassi d’Europa»*
I livelli retributivi dell’Italia «sono piu bassi che negli altri principali paesi dell’Unione europea». Lo ha affermato il governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, nel suo intervento all’Università degli Studi di Torino.
«Le differenze salariali rispetto agli altri paesi - ha detto Draghi - sono appena più contenute per i giovani, si ampliano per le classi centrali di età e tendono ad annullarsi per i lavoratori più anziani. Il differenziale è minore nelle occupazioni manuali e meno qualificate».
Il governatore ha poi affrontato altri temi. La politica economica «può aiutare il rilancio della produttività e della crescita» e la diagnosi dei mali porta «in primo piano l’esigenza di misure volte a riformare le regole dell’economia e della spesa pubblica: il ventaglio dell’azione pubblica è ampio». Draghi suggerisce «una coraggiosa riforma del sistema di istruzione» e «un innalzamento dell’età effettiva di pensionamento» che può ricostruire «l’equilibrio fra attesa di vita, attività lavorativa e modelli di consumo».
«La spesa pro capite per consumi è oggi più che raddoppiata rispetto al 1970», dice Draghi, sottolineando come «nell’ultimo quindicennio in Francia e, soprattutto, nel Regno Unito il reddito pro capite sia cresciuto a ritmi sostenuti, favorendo una rapida espansione dei consumi.
In Germania, che ha condiviso con noi una fase di quasi stagnazione della crescita economica fino a due anni fa, la dinamica della spesa è risultata inferiore a quella del reddito, che ha beneficiato degli intensi processi di ristrutturazione, dei miglioramenti della produttività e della rafforzata capacità esportatrice del sistema produttivo tedesco. Viene confermata la fondamentale diversità dei casi italiano e tedesco: il nostro sistema ha sofferto di una crisi di competitività internazionale, quello tedesco di una crisi di fiducia dei consumatori».
«Secondo stime che saranno diffuse entro l’anno dalla Banca d’Italia - annuncia il numero uno di Bankitalia - la ricchezza delle famiglie italiane, non considerando quella pensionistica pubblica, in accordo con le norme statistiche internazionali, ha mostrato un deciso incremento dalla metà degli anni novanta: pur tenendo conto delle difformità nazionali nella valutazione delle attività reali, alla fine del 2004 essa era pari a circa otto volte il reddito disponibile, un valore in linea con quello del Regno Unito e nettamente più elevato di quelli di Giappone, Francia, Germania e Stati Uniti. Nel nostro paese le attività finanziarie rappresentano poco meno della metà della ricchezza totale netta, una quota superiore a quella francese, pressochè pari a quelle della Germania e del Regno Unito e molto al di sotto di quelle degli Stati Uniti e Giappone. L’indebitamento delle famiglie italiane, pur in significativo aumento, rimane molto inferiore nel confronto con gli altri paesi».
* l’Unità, Pubblicato il: 26.10.07, Modificato il: 26.10.07 alle ore 18.31
100 mila statali in piazza. Epifani: Prodi ascolti la piazza *
Sono oltre 100mila, secondo fonti sindacali, i lavoratori del Pubblico Impiego scesi in piazza a manifestare contro la legge Finanziaria ed il governo che non ha previsto risorse per il rinnovo del contratto dei lavoratori pubblici.
Oltre 700 pullman e 50 treni speciali hanno portato i manifestanti a Roma mentre sarebbero in arrivo altri 10 treni. Il che fa supporre che il dato dell’affluenza al corteo è destinato a salire. Allo sciopero generale di 8 ore in corso oggi ed appoggiato dal corteo hanno aderito, invece, sempre secondo fonti sindacali, circa l’80% dei lavoratori.
Il leader della Cgil, Guglielmo Epifani, si rivolge dal palco in piazza San Giovanni al premier Romano Prodi affinché ascolti anche la protesta dei lavoratori pubblici per ritrovare la giusta direzione di marcia. «Lo dico a Prodi - ha detto Epifani - ascolta questa piazza. O meglio: anche questa piazza. Ascolti le ragioni di questa lotta e se ritroverà la sintonia con il popolo, la gente, forse troverà la rotta per andare avanti nel senso giusto».
Epifani ha sottolineato che tocca a Prodi farlo. «È responsabilità del Governo - ha aggiunto - noi siamo e restiamo parte del paese che non si rassegna».
Per Raffaele Bonanni, Cisl, questo governo è un governo che per il pubblico impiego non ha fatto nulla e continua una strada di «ipocrisia e irresponsabilità»: è «un governo Pinocchio». «Ci vengono a dire fannulloni a noi, ma questo è un governo Pinocchio e fannullone. Questi contratti sono importanti: lo ricordiamo a Prodi, sordo e disattento, a Padoa-Schioppa, così attento ai fatti degli altri, e lo ricordiamo a Nicolais, così evanescente e assente».
Per Angeletti, Uil. «Quella di oggi è una manifestazione contro il governo per chiedere che rispetti i patti e faccia il suo dovere essendo coerente con le chiacchiere che fa. L’esecutivo - ha aggiunto - ha fatto una finanziaria che non prevede risorse per i contratti pubblici. Ed è come se la Confindustria dicesse che non si rinnovano i contratti. Ma è la legge a imporre al Governo di farlo».
Pioggia battente e cielo plumbeo a Roma accoglie le migliaia di dipendenti pubblici in sciopero. Il corteo è partito nella tarda mattinata da Piazza della Repubblica per sfilare fino a piazza San Giovanni sotto le bandiere e gli striscioni delle organizzazioni confederali. Lo sciopero di otto ore coinvolge 2 milioni di statali, di tutti comparti si ed è stato proclamato da Fp-Cgil Cisl-Fp Uil-Fp. La manifestazione protesta per la mancanza di copertura economica per il rinnovo del biennio economico 2008-2009 del contratto degli statali nella Finanziaria attualmente in discussione al Senato. Per ora i dipendenti dello Stato percepiscono solo l’indennità di vacanza contrattuale e, da ultimo, sono otto anni che le risorse finanziarie che il rinnovo del contratto non trovano posto nelle leggi finanziarie. Altra questione sollevata dallo sciopero: la regolarizzazione dei precari del pubblico impiego. La manifestazione che si concluderà a piazza San Giovanni con il comizio finale dei tre leader di Cgil Cisl e Uil, Guglielmo Epifani, Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti, con uno slogan: contro la Finanziaria che colpisce il lavoro pubblico.
«Abbiamo predisposto due emendamenti con carattere di priorità sulla vertenza degli statali: uno per la stabilizzazione del rapporto di lavoro dei precari e l’altro per la copertura finanziaria del biennio economico 2008-2009 del contratto di lavoro», spiega il senatore del Pdci, Dino Tibaldi. I due emendamenti con carattere di priorità fanno parte dei 32 predisposti dai quattro partiti che formano la "cosa rossa". Per ora debbono essere discussi nella maggioranza e in Commissione Bilancio del Senato.
«È vero che la legge Finanziaria non ha previsto misure di raccordo tra il vecchio ed il nuovo - aggiunge Tibaldi - ossia mentre dal 1 gennaio 2008 stabilisce assunzioni a tempo indeterminato per pubblico concorso e supera quindi il lavoro precario, dall’altro non ha provveduto alle situazioni in essere per tutti coloro i quali negli ultimi anni hanno lavorato con contratti a tempo determinato e rischiano senza misure di raccordo di essere mandati tutti a casa». Si tratta di circa 300mila persone che nel corso degli ultimi anni hanno svolto lavori con contratti a tempo determinato nella pubblica amministrazione: secondo il Governo sarebbero molti meno e comunque si tratta sempre di migliaia di persone. «La nostra proposta è che ogni pubblica amministrazione predisponga un piano triennale per la stabilizzazione dei precari - prosegue Tibaldi - fino per coloro che hanno già compiuto tre anni di lavoro con contratti a tempo determinato e sia per coloro i quali stanno maturando adesso i tre anni di rapporto di lavoro a tempo determinato». Insomma per tutti costoro si deve stabilizzare il rapporto di lavoro. «Ed ancora prevediamo che il lavoro svolto a tempo determinato costituisca titolo - aggiunge Tibaldi - per partecipare ai concorsi pubblici».
* l’Unità, Pubblicato il: 26.10.07, Modificato il: 26.10.07 alle ore 14.30