Fao: vola il prezzo dei cereali
"Rischio di stretta mondiale" *
ROMA - Il prezzo dei cereali continua a crescere e i paesi che già hanno più difficoltà a sfamare la propria popolazione sono destinati a trovarsi sempre più in difficoltà. Secondo la Fao, la bolletta cerealicola delle nazioni povere, che già era aumentata del 37% mel 2006/2007, aumenterà addirittura del 56% nel 2007/2008. Per far fronte a questa emergenza, l’organizzazione internazionale esorta tutti i Paesi donatori e le istituzioni finanziarie internazionali a incrementare la propria assistenza per un ammontare compreso tra 1,2 ed 1,7 miliardi di dollari. E il direttore generale avverte: "Rischio di una stretta mondiale".
Da un rapporto presentato oggi sulle previsioni di produzione dei cereali, emerge che per i paesi africani a basso reddito con deficit alimentare la bolletta per tariffe e trasporto del petrolio aumenterà del 74% a causa dell’impennata dei prezzi dei cereali, delle tariffe dei trasporti e del petrolio. I prezzi non accennano infatti a rallentare la loro corsa, per la domanda sostenuta e il progressivo esaurimento delle scorte. Nel 2007, secondo il rapporto Fao, il prezzo del riso è quello che ha registrato l’aumento maggiore, a seguito dell’imposizione di nuove restrizioni all’esportazione da parte di alcuni tra i maggiori Paesi esportatori. Alla fine di marzo i prezzi del grano e del riso erano circa il doppio dell’anno precedente, mentre quelli del mais erano aumentati di oltre un terzo.
Negli ultimi mesi si sono verificati scontri per questioni alimentari in numerosi Paesi di tutto il mondo: Egitto, Camerun, Costa d’Avorio, Senegal, Burkina Faso, Etiopia, Indonesia, Madagascar, Filippine e Haiti. Nonostante le misure prese dai governo locali, la popolazione è scesa in strada a causa dei forti aumenti dei prezzi del pane, dei prodotti a base di mais, del latte, dell’olio, della soia e di altri prodotti alimentari di base. In Pakistan e in Thailandia si è addirittura dovuto ricorrere all’esercito per evitare assalti al cibo nei campi e nei magazzini.
"L’inflazione degli alimentari colpisce maggiormente le popolazioni povere, poiché la spesa per procurarsi il cibo rappresenta una quota molto più alta del totale del loro budget", ha detto Henri Josserand, del Sistema mondiale d’informazione e preavviso rapido della Fao. "La spesa per il cibo rappresenta solo il 10-20% della spesa complessiva del consumatore dei Paesi industrializzati, mentre per il consumatore dei Paesi in via di sviluppo può arrivare a rappresentare sino al 60-80% del totale".
Secondo le previsioni, la produzione cerealicola mondiale nel corso di quest’anno è destinata a crescere del 2,6%, per attestarsi intorno alla quantità record di 2.164 milioni di tonnellate. "Se l’aumento di produzione previsto per il 2008 si materializzerà - si legge nel rapporto - potrebbe attenuarsi l’attuale situazione di scarsità dell’offerta cerealicola mondiale, ma molto dipenderà dalle condizioni climatiche".
Le scorte mondiali di cereali dovrebbero raggiungere, nel 2007/2008, i 405 milioni di tonnellate, valore minimo negli ultimi 25 anni e 21 milioni di tonnellate in meno rispetto al livello già assai ridotto dell’anno precedente. "I livelli di produzione e anche le scorte sono ai minimi dagli anni ’80. Non è quindi possibile continuare a contare sulle scorte", avverte il direttore generale della Fao, Jacques Diouf. E aggiunge: "E’ necessario affrontare il problema a livello più alto. Mi sorprendo per non essere stato invitato al Consiglio di sicurezza. Ci sono molti rischi di una stretta a livello mondiale: bisognerà anzitutto correggere tutte le politiche errate degli ultimi decenni".
* la Repubblica, 11 aprile 2008.
La Banca mondiale: un miliardo di persone vive con un dollaro al giorno
Bisogna dimezzare il numero degli affamati nel mondo: tocca al G7 occuparsene
Fame, l’allarme di Draghi "Impatto drammatico"
dal nostro inviato ELENA POLIDORI *
WASHINGTON - Allarme cibo e dunque allarme poveri: è l’altra faccia della crisi finanziaria che sta scuotendo i mercati. I continui rincari dei prezzi dei prodotti commestibili, uniti a quelli energetici, dei carburanti e dei fertilizzanti, gravano sulle spalle del Terzo Mondo: c’è il serio rischio di uno choc alimentare. Ne è consapevole Mario Draghi, governatore della Banca d’Italia, che dai microfoni del Developement Committeee, il comitato per lo sviluppo del Fondo monetario lancia un sos. La rincorsa dei prezzi ha "un impatto drammatico sulla povertà"; costituisce un "ulteriore ostacolo" al processo di sviluppo dei paesi più dimenticati; mette a repentaglio la crescita di alcune tra le nazioni già fragilissime dell’Africa sub-sahariana che consuma principalmente cibo. Spiega: "Elevati prezzi dell’energia fanno crescere i costi dei trasporti, mettendo così una pressione addizionale sui prezzi alimentari". Risultato: s’allarga il divario tra ricchi e poveri.
Le parole di Draghi, seguono i conti da brivido forniti da Robert Zoellick, presidente della Banca Mondiale, che l’altro giorno s’è presentato in conferenza stampa con un filone di pane in mano: più di un miliardo di persone vive ancora con meno di 1 dollaro al giorno. "Servono progressi rapidi nella lotta alla povertà", esorta il banchiere ricordando che secondo il Millennium Development Goal, entro il 2015, bisogna dimezzare il numero degli affamati nel mondo: tocca ai capi di stato e di governo del G7 occuparsene.
Le ultime notizie sul fronte cibo dicono che - con la crisi, riso, mais, latte, grano, soia - i prezzi stanno diventando proibitivi ovunque. Ma per alcune nazioni sono alimenti-base. I poveri spendono il 75% del loro reddito, già misero, proprio in cibo; sopravvivere in queste condizioni è difficile. A livello globale, spiega Zoellick, il riso costa il 75% in più negli ultimi due mesi, il grano il 120% nell’ultimo anno. Il costo del filone che brandisce "vale" dunque un’enormità per chi già fatica a mangiare. In paesi come lo Yemen - ricorda - una famiglia media spende più di un quarto delle sue entrate proprio in pane. Sempre il Fmi calcola che i prezzi dei prodotti alimentari sono cresciuti del 48% a livello globale dalla fine del 2006, mentre secondo l’Ocse sono diminuiti dell’8,4% gli aiuti dei paesi ricchi, per il secondo anno consecutivo.
La Fao, che pure s’appella ai capi di Stato, stima che i prezzi dei cereali e del grano sono raddoppiati nell’ultimo anno, quelli del mais sono saliti di un terzo e aumenti consistenti si registrano anche per la soia. Il tutto mentre calano le scorte mondiali e si moltiplicano le restrizioni all’esportazione.
A livello nazionale: in Sudan il grano è aumentato del 90%, in Armenia del 30%, in Senegal è raddoppiato. In Uganda il mais costa il 65% in più, in Nigeria il miglio costa il 50% in più. La Washington Post dava conto ieri del grave disagio delle Filippine dove il prezzo del riso, il nutrimento fondamentale, è cresciuto dell’80% da gennaio 2007. In certe zone del mondo, dal Burkina Faso all’Etiopia, al Madagascar, i governi sono intervenuti con la forza per evitare assalti al cibo. Proprio ieri la Banca mondiale ha stanziato 10 milioni di dollari per aiutare Haiti a combattere la crisi alimentare: un team di esperti partirà alla volta del paese per mettere a punto un piano d’emergenza. Zoellick ricorda che "c’è una emergenza che non può essere affrontata solo con analisi, parole, convegni"; s’appella alla comunità internazionale.
Draghi assicura che, nonostante le restrizioni di bilancio, l’Italia ha mantenuto la sua quota storica di contributi alle istituzioni che sostengono i paesi poveri e ha anche ottenuto l’approvazione del Parlamento per contribuire alla cancellazione dei debito dei più bisognosi su un periodo di 40 anni.
* la Repubblica, 14 aprile 2008
Le rivolte della fame di BARBARA SPINELLI (La Stampa, 13/4/2008)
Nella campagna elettorale che abbiamo alle spalle, la politica estera è stata ridotta a un’unica questione, come si fa con quelle pillole ricostituenti in cui convergono per miracolo tutte le vitamine: se i governi occidentali debbano andare o no alle Olimpiadi di Pechino. Se la torcia vada spenta oppure no. Nelle finali interviste tv, questa è stata l’unica martellante domanda ai candidati. Una delle questioni fondamentali dei nostri tempi - l’emergere della potenza cinese e la sua ascesa economica - è apparsa così all’orizzonte nella più falsata delle maniere. L’estrema semplificazione ha soppiantato l’analisi esigente, su come Cina e India stanno cambiando le nostre vite e su quel che ci spetta fare. I diritti dell’uomo e del Tibet hanno suscitato apprensioni singolari, spesso apparenti. In realtà sono stati adoperati per bendarci gli occhi davanti a quel che succede in noi stessi e fuori: per congelare la nostra visione del mondo, riesumando metodi e istinti ereditati dal conflitto con l’Urss. Ogni semplificazione abbreviatrice ha qualcosa di sordo, incompatibile con la conoscenza.
Per capire un po’ di più bisognava forse andare più di frequente al mercato, osservare il rincaro dei prezzi alimentari: cereali, pane, latte, riso. Quel che accade alle nostre bancarelle sta infatti accadendo sul pianeta, e ha come motore l’immane crescita della Cina oltre che dell’India. Crescita che significa, in ambedue i casi: più pane per tutti e più carne.
Il popolo cinese sta uscendo dalla fame prodotta dal comunismo, e la novità è decisiva perché eravamo abituati a dirci che solo le democrazie saziano. La Cina, insomma, fa paura più che mai, e non solo perché reprime i tibetani. Spaventa perché ha cominciato a cibare i suoi poveri, perché è ormai una potenza economica, perché sta estendendo la propria influenza su continenti (Africa, America Latina) che l’Occidente rischia di perdere non avendo saputo assisterli. La difesa dei diritti tibetani è cosa giusta ma dietro di essa si nascondono motivazioni non sempre limpide, morali: alla pietas si mescola l’ipocrisia ma anche una passione profondissima e inconfessata: l’invidia, suscitata dalla forza cinese. Un’invidia che spiega appetiti nazionalisti e protezionisti che perversamente accomunano no-global, destre, sinistre radicali. Tremonti, ministro in pectore di Berlusconi, ripete che l’11 dicembre 2001, quando la Cina fu ammessa nell’Organizzazione Mondiale del Commercio (Wto) fu traumatico come l’11 settembre. Nell’immaginazione dei popoli, la riuscita cinese ha connotazioni terroristiche, repellenti. Può anche esser positiva, spiega Tremonti, purché la risposta non sia il cosiddetto mercatismo, il governo mondiale del libero commercio: sarebbe l’«ultima pazzia ideologica del ’900», il cui pantheon sarebbe la Wto. Per questo si schiaccia Pechino sull’esperienza dell’Urss: il suo balzo avanti scompiglia le carte di ieri, ma con quelle vecchie carte si continua a giocare.
Guardare in faccia la vera Cina e il mondo significa capire gli errori altrui ma anche i propri: il protezionismo, e soprattutto l’indifferenza. Un’indifferenza più insidiosa dell’indifferenza ai diritti umani, perché ignora volutamente le complicazioni d’un Paese che ha cominciato a sfamare il proprio popolo. Un’indifferenza che disconosce gli effetti delle nostre politiche su Cina, India e i poveri della Terra. La Banca Mondiale ha calcolato che il caro-cibo affligge ben più dolorosamente i poveri che gli affluenti. Che passare dal consumo di pane alla carne è benefico e disastroso: per produrre un chilo di carne di maiale son necessari 3 chili di cereali, per produrre un chilo di carne di bue ce ne vogliono addirittura otto. Esistono i diritti tibetani ma anche il proliferare di sommosse della fame, che ci riguardano e implicano responsabilità dei ricchi su cui si tace. Robert Zoellick, presidente della Banca Mondiale, ricorda che i prezzi di tutti i cibi base sono aumentati dell’80 per cento in tre anni, e che 33 Paesi conoscono sommosse cruente: in Africa, Asia, America Latina.
Di questi tumulti siamo in gran misura artefici, con la nostra cecità e insipienza: forse per questo preferiamo il Tibet, di cui artefici non siamo. Sono responsabili di egoismo gli Stati Uniti, e anche l’Europa. Gli studiosi sono espliciti: accanto alla domanda cinese e indiana, accanto al clima distruttore di raccolti, accanto al petrolio costoso per gli agricoltori, accanto al dollaro debole con cui si compra poca merce e che però resta moneta di riserva mondiale (l’Europa per proteggersi ha l’euro), c’è la disinvoltura unilaterale, impetuosa, sbadata, con cui Bush s’è gettato sulle bioenergie alternative: l’etanolo estratto da mais, che l’America produce con ingenti sovvenzioni. L’iper-produzione di questo etanolo ha contribuito enormemente al rincaro mondiale del cibo: diminuendo le superfici coltivabili per alimenti, abbattendo foreste.
Una vignetta di Patrick Chappatte, sull’Herald Tribune dell’11 aprile, riassume perfettamente il dramma: in primo piano un grosso benestante signore fa il pieno dell’automobile a una pompa di etanolo, mentre due figurine magre, sullo sfondo, tendono la ciotola vuota implorando cibo. Alle suppliche il ricco replica: «Mi spiace, ho molto da fare: sto salvando il pianeta!». America e Europa hanno buona coscienza: raccontano a se stesse che l’etanolo permette di consumare energia e rispettare il clima. Ma è buona coscienza cinica: in realtà «divorano la ricchezza del mondo», scrive l’Economist del 6 dicembre. È stato calcolato che la stessa quantità di mais impiegata per i biocarburanti serve a fare un pieno di Suv e a produrre le calorie che sfamano un essere umano per un anno.
Se questi temi fossero stati affrontati, il cittadino saprebbe le difficoltà che l’aspettano. Capirebbe che l’aumento dei prezzi del cibo non è occasionale, ma durerà. Perché il clima continuerà a produrre siccità, cicloni. Perché i nostri stili di vita non mutano. Perché l’illusione protezionista scansa l’urgenza: i negoziati commerciali, la comprensione di popoli diversi. La tendenza delle nazioni affluenti sarà di scaricare le difficoltà su altri, fingendo che il mondo sia quello del ’900.
Se non fosse così, discuteremmo di Pechino in modo fruttuoso. E non solo del Tibet ma anche delle comunità musulmane Uigur, perseguitate nel Turkestan orientale, o delle ciclopiche speranze di vita migliore legate alla crescita cinese. Evocheremmo anche quel che Pechino ha appreso, estendendo l’influenza in Africa e America Latina.
Un’influenza non esclusivamente deleteria: su Birmania e Darfur il governo cinese sta compiendo passi avanti, anche se pochi l’ammettono. Sono fatte di tanti strati, le bende che ci rendono ciechi. C’è la nostra avversione all’Islam, che snebbia solo il Tibet. C’è una specie d’ignoranza militante dell’immenso sforzo cinese, non paragonabile a quello dell’Urss. Infine c’è il film tibetano che abbiamo in testa e che potremmo intitolare: Sogni Proibiti. È il sogno di una Cina che non cresce, denutrita, trascinata solo da fedi: esotica e separata come il Tibet. Anche il Tibet lo sogniamo a occhi aperti: non dimentichiamo che fra i rivoltosi in esilio ci sono forze, ostili al Dalai Lama, pronte a spastoiarsi dal pacifismo e desiderose di violenza: anche di violenza kamikaze, annuncia Tsewang Rigzin, presidente del Congresso giovanile tibetano.
È un’occasione perduta, non aver pensato la questione cinese in campagna elettorale e continuare a coltivare, di essa, l’immagine repulsiva che consente di non parlare di noi, di come dobbiamo agire, cambiare. Siamo ben regrediti rispetto alla campagna del 2006, quando Prodi ci provò e disse che con questa Cina bisognava negoziare un esigente governo del mondo, non chiudendoci ma aprendole le porte e i porti.
In Africa esplode la guerra del pane
di Toni Fontana *
Da tre giorni nella regione mineraria di Gasfa, in Tunisia, sono in corso violenti scontri tra poliziotti e manifestanti che protestano contro il carovita. Nessuno sa con esattezza ciò che sta accadendo. Il regime censura e nasconde la verità. La Tunisia, in ordine di tempo, è l’ultimo tra i Paesi africani ad essere attraversato da proteste contro il carovita e l’aumento dei prezzi degli alimentari. Dalle coste del Mediterraneo al cuore dell’Africa violenze e rivolte si stanno estendendo a macchia d’olio. Alla fine di febbraio la polizia del Cameroun ha ucciso 40 persone, in Senegal le proteste si susseguono dalla fine di marzo.
Centinaia gli arresti, scontri anche Costa D’Avorio, in Etiopia il governo ha finora scongiurato la ribellione organizzando centri di distribuzione di cereali. Tensioni e scontri anche in Egitto. «Il continente africano è attraversato da una burrasca» - scrive il quotidiano di Abidjan, Fraternité Matin. Ma non è solo l’Africa in affanno. L’aumento del prezzo del mais ha provocato conflitti sociali in Messico e in Argentina, sta aprendo nuovi fronti della protesta in Asia, dal Pakistan alla Thailandia. «L’aumento del prezzo degli alimenti non pare disgraziatamente un fenomeno congiunturale, ma strutturale» - fa notare Andrés Ortega, direttore di Foreign Policy in Spagna. Le cause sono tante e molto complesse. Marcelo Giugale dirigente della Banca Mondiale ne elenca cinque: i sussidi per la produzione di cereali destinati ai biocarburanti, l’ aumento del costo del gasolio e dei fertilizzanti, il maltempo che ha flagellato aree produttive primarie nel pianeta (come l’Australia), l’aumento del consumo di carne in Asia che ha fatto lievitare il domanda di mangimi, speculazioni che hanno provocato l’impazzimento dei prezzi. I dati diffusi dalla Fao non concedono nulla all’ottimismo. Il raddoppio dei prezzi dei beni alimentati (in molti casi triplicati) rischia di far diventare più poveri 100 milioni di persone che popolano paesi già afflitti da carestie ed emergenze, il tasso di povertà aumenterà dal 3 al 5%. In Africa ci provocherà l’annullamento dell’impatto dell’aiuto internazionale. La Fao spiega che negli ultimi due mesi i prezzi dei cereali hanno subìto un aumento molto forte, grano e riso costano il doppio rispetto ad un anno fa. La protesta dilaga in Africa perché saranno le popolazioni di quel continente a pagare il prezzo più salato. La Fao prevede che, entro il 2008, importare cereali costerà il 56% in più, le tariffe dei trasporti subiranno aumenti vertiginosi, oltre il 70%. La Fao teme una «crisi mondiale» e prevede fortissimi aumenti anche dei prezzi delle sementi e dei fertilizzanti (tra il 30 ed il 70%). In Africa grandi masse di contadini poveri si stanno spostando verso le città che crescono in modo disordinato confinando in immense periferie i più poveri. Nel 2007, per la prima volta nella storia, il numero di persone che vive nei centri urbani ha superato quello di coloro che risiede nelle zone rurali.
Nell’Africa subsahariana questa percentuale si colloca tra il 35 e il 50% ed è in continuo e veloce aumento. Alcuni Paesi africani, i stanno nuovamente indebitando senza aver tratto vantaggio da alcune riduzioni concesse dai paesi occidentali. La Banca Mondiale propone alcune soluzioni (nuovo patto per una politica alimentare globale e fondo di emergenza dei paesi donatori) e punta il dito contro i biocarburanti. «Gli americani - ha detto il presidente della Banca Mondiale, Robert Zoellick si preoccupano di come riempire i serbatoi delle loro auto, ma c’è gente che non sa come riempire lo stomaco».
I biocarburanti (combustibili ottenuti da materie prime vegetali) sarebbero la causa principale dell’aumento dei prezzi perchè riducono la produzione e la domanda di prodotti alimentari. Zoellick su questo è categorico e, alla vigilia della riunione del G7 (che si è aperta ieri a Washington) ha chiesto ai Paesi che producono materie prime per i biocombustibili di «essere sensibili in questo momento di fronte alle difficoltà che i paesi più poveri stanno attraversando». Alcuni però fanno notare che i dirigenti della Banca Mondiale predicano bene, ma razzolano male. Le Ong (tra queste l’italiana Crbm, campagna per la riforma della Banca Mondiale) ricordano che questa istituzione sta promuovendo la costituzione di due nuovi fondi, il cui valore oscillerebbe tra i 7 ed i 12 miliardi di dollari, per finanziare opere, come dighe, nell’emisfero nord del pianeta. «I fondi pubblici - dice invece Crbm - devono essere usati per aumentare gli investimenti nelle fonti energetiche rinnovabili e non in progetti arcaici a carbone, come il Tata Mandra in India». Le previsioni della Fao e delle grandi agenzie internazionali non ammettono ritardi nell’affrontare i problemi. Occorre rinunciare ai biocarburanti? Anche l’agenzia europea per l’Ambiente chiede all’Unione di rinunciare all’obiettivo di giungere, entro il 2010, al 10% di benzina verde sul totale dei carburanti. L’Agenzia dice che queste produzioni non solo non riducono le emissioni di gas, ma «accelerano la distruzione di foreste tropicali» in alcuni paesi, come ad esempio l’Indone\sia.
«Si profila - interviene Louis Michel, commissario europeo - uno choc alimentare mondiale, meno visibile di quello petrolifero, ma con effetti potenziali di un vero tsumani economico e umanitario in Africa».
* l’Unità, Pubblicato il: 12.04.08, Modificato il: 12.04.08 alle ore 12.39
Allarme fame e crisi mutui al G8 di Washington *
Inizia a Washington la riunione dei ministri economici e dei banchieri centrali del G8. Il momento è cruciale, caratterizzato dalla revisione al ribasso delle stime sulla crescita globale dell’economia, operata dal Fondo Monetario Internazionale al 3,7% e dalla persistente crisi del mercato immobiliare Usa. Ma anche dall’allarme sulla crisi fame nel mondo lanciata giusto alla vigilia del vertice dalla Fao, l’organizzazione dell’Onu per l’alimentazione e l’agricoltura.
Nell’ultimo anno e mezzo, i prezzi degli alimenti hanno subìto in tutto il globo pesanti rincari; l’indice generale dei prezzi al consumo per i prodotti alimentari è salito su scala globale di almeno 57 punti percentuali. A farne principalmente le spese sono ovviamente i paesi poveri, e specificamente quelli che affidano la loro esistenza alla coltivazione del riso, il cui prezzo è più che raddoppiato.
C’è da aspettarsi che la riunione di Washington si concentri però più sulle come fronteggiare le difficoltà dei mercati finanziari a partire dal rapporto del Financial Stability Forum, organismo presieduto dal governatore di Bankitalia Mario Draghi, piuttosto che sull’emergenza alimentare
Nonostante l’allarme della Fao sull’impennata dei prezzi del cibo che sta mettendo in ginocchio i paesi del Terzo Mondo, rischiando di ribaltare le conquiste ottenute nella lotta alla povertà globale, abbia impensierito anche la Banca Mondiale e il Fondo monetario internazionale.
Secondo Robert Zoellick, presidente della Banca Mondiale sarebbe necessario «energizzare nuovamente i Paesi donatori per un New deal sulle politiche mondiali alimentari». Il primo a sollecitare che il G7 di Washington si occupi anche di questo, raccogliendo l’appello dell’ex presidente del Fmi Joseph Stiglitz, è stato il premier laburista britannico Gordon Brown. Brown ha scritto al presidente di turno del G8, il primo ministro giapponese Yasuo Fukuda, per chiedere un forte impegno internazionale contro i prezzi dei generi alimentari in aumento. «La comunità internazionale ha bisogno di una risposta coordinata», ha scritto Brown, proponendo che Fmi e Onu lavorino insieme per «sviluppare urgentemente» una strategia sia a breve termine che per il lungo periodo.
Secondo la Banca mondiale l’aumento dei prezzi dei beni alimentari, raddoppiati o addirittura triplicati in certi casi negli ultimi tre anni, gli oltre 100 milioni di persone che vivono nei paesi a basso reddito rischiano di precipitare alla fame e si potrebbero considerare azzerati sette anni di sforzi internazionali per rialzare dal 3% al 5% il tasso di povertà della popolazione mondiale.
Una prima misura sulla quale la Banca Mondiale sta già lavorando è «destinare l’1% dei Fondi sovrani a investimenti ad hoc in Africa, che dovrebbe riuscire a indurre una crescita e uno sviluppo nel continente nero pari a 30 miliardi di dollari».
Ma l’emergenza si è fatta ancora più bruciante recentemente. A preoccupare sono soprattutto i rialzi stellari dei prezzi del riso -cresciuto a livello globale del 75% in soli di due mesi- e quelli del grano, nell’ultimo anno cresciuto del 120%.
Ciò significa, ad esempio, che il costo di un filone di pane è più che raddoppiato, e che in Yemen una famiglia media spende più di un quarto delle sue entrate esclusivamente in pane. «Noi come Banca Mondiale - ha precisato il presidente Zoellick - stiamo avviando una redistribuzione degli aiuti, la riserve di cibo nel mondo sono molto basse, c’è una emergenza che non può essere affrontata solo con analisi, parole, convegni». Per il presidente della BM, «c’è anzitutto bisogno che la comunità internazionale si impegni concretamente per recuperare i 500 milioni di dollari necessari per colmare il gap di necessità alimentari individuate dalle Nazioni Unite». Il sostegno all’agricoltura e al suo sviluppo nei Paesi sottosviluppati è per Zoellick, «una priorità che potrà se correttamente sostenuta creare in realtà nuove opportunità».La Banca Mondiale per parte sua inizierà con il raddoppiare a 800 milioni di dollari gli aiuti all’agricoltura nell’Africa sub-sahariana.
Le prime reazioni a questo drammatico impoverimento si sono iniziate a vedere. È il caso del recente sciopero di tre giorni degli operai tessili egiziani, che hanno portato a violenti scontri con la polizia, arresti di massa e un morto. O dell’incendiarsi della situazione in Tunisia dove gli operai minerari di Redeyef hanno ingaggiato una battaglia per le strade di altri tre giorni, anche lì per denunciare l’aumento dei prezzi dei generi alimentari e la disoccupazione. Persino negli Emirati Arabi Uniti, un regime ancora più liberticida e dove ancor meno esiste il diritto di sciopero, la scorsa settimana i lavoratori immigrati - pakistani, bengalesi e filippini, per la maggior parte - hanno scioperato per una settimana e la loro lotta ha portato - a quanto è trapelato - ad oltre 600 arresti. E sembra solo delle avvisaglie di quanto può succedere. Sia in termini di conflittualità nei luoghi dove finora anche molte delle industrie dei paesi industrializzati hanno delocalizzato pezzi consistenti di produzione. Sia in termini di flussi migratori in arrivo nei continenti più ricchi.
* l’Unità, Pubblicato il: 11.04.08, Modificato il: 11.04.08 alle ore 14.27