Libera circolazione nell’Ue è un diritto *
Strasburgo parla di noi. E quello che ne esce non è un quadro consolante. Il dibattito straordinario del Parlamento Europeo si apre con l’introduzione del commissario europeo agli Affari sociali Vladimir Spidla. E va dritto al sodo: «La Commissione europea - dice - condanna vivamente qualsiasi tipo di violenza verso i rom e chiede garanzie per la loro sicurezza personale. Quanto avvenuto a Ponticelli - prosegue - non è un fatto isolato, ma è un’azione razzista che rientra nel populismo, in parole di odio». La Commissione europea, aggiunge Spidla, «respinge in modo assoluto qualsiasi assimilazione dei rom ai criminali, e chiede alle autorità degli Stati membri di astenersi da qualsiasi sostegno a casi simili, e a mostrarsi di esempio contro il razzismo e a punire con fermezza questi atti violenti».
E quanto all’ipotesi del governo Berlusconi di rivedere il trattato di Schengen, usa parole ancora più dure: l’espulsione di cittadini comunitari «è una misura estrema, una limitazione di quelle che sono le libertà fondamentali del trattato: il principio della libera circolazione - ricorda Spidla - è basato su principi consacrati nella legislazione dell’Unione europea e anche dalla Corte di Giustizia. I Romeni hanno la stessa libertà di movimento degli altri cittadini Ue, perchè sono cittadini dell’Unione e non possono essere trattati in modo diverso da altri. È necessario il rispetto dei loro diritti». Idem sull’ipotesi di introdurre il reato di immigrazione clandestina, il commissario avverte: «Una decisione di espulsione può essere presa esclusivamente caso per caso con la garanzia delle procedure e le condizioni di fondo che devono essere rispettate».
Poi, è la volta degli interventi dei singoli europarlamentari. E se ne sentono delle belle. Parla ovviamente il capogruppo dei Socialisti Martin Schultz, il primo a chiedere il dibattito straordinario. Spiega che «il problema in discussione non è tipicamente italiano, si presenta ovunque nell’Ue: è il problema dell’insufficiente integrazione minoranze, in particolare rom. Non vogliamo accusare l’Italia - afferma - ma tutti i paesi dell’Unione devono muoversi nella stessa direzione, i rom non possono diventare il bersaglio di chi porta avanti politiche estremamente populiste».
Rincara la dose l’europarlamentare rom Viktória Mohácsi, che nei giorni scorsi ha visitato i campi nomadi di Roma e Napoli. Il suo è un affondo pesante: «In Italia - racconta - i rom sono diventati il capro espiatorio elettorale: l’emergenza rom è stata causata da un presunto rapimento di una bambina a Napoli. A me - sostiene - sembra che la storia sia falsa: la polizia non ha visto nessuna denuncia, non ci sono indagini in corso. Il 13 maggio poi ci sono state le molotov a Ponticelli e sulla base delle informazioni che ho raccolto non c’è nessuna indagine di polizia nemmeno su questa vicenda. Il governo italiano - aggiunge - è forte con i deboli, e debole con i forti. Spero che le autorità italiane - conclude - vogliano perseguire i responsabili degli incendi, compresi quei funzionari pubblici che fanno dichiarazioni che istigano all’odio razziale».
Sul governo Berlusconi, dall’Europa, non arrivano parole dolci. L’europarlamentare olandese dei Verdi Elly de Groen-Kouwenhoven arriva a dire che «Berlusconi ha una tattica politica che sembra quella di Milosevic». Adrian Severin, parlamentare europeo rumeno, dice che «in Italia la dottrina ideologica della destra prepara leggi razziali». Un suo collega ricorda i tempi duri, quando la Romania doveva entrare in Europa e le si poneva come condizione quella di «non discriminare le minoranze come i rom». Il nostro connazionale Claudio Fava sostiene infine che «il governo Berlusconi sta reintroducendo il concetto di razza nel nostro ordinamento».
Sul fronte politico opposto, si distingue l’intervento di un italianissimo europarlamentare. Luca Romagnoli di Fiamma Tricolore fa due proposte: «Controllare il Dna di tutti i bambini trovati per strada e creare uno Stato rom: finirebbe così la loro diaspora, migliorerebbe la loro qualità di vita e finalmente migliorerebbe anche la nostra». Concludendo il dibattito, il commissario europeo Spidla definisce «inaccettabili» alcune proposte come questa e ricorda che «la storia europea ci ha insegnato che il razzismo porta catastrofi» e che «se non traiamo lezioni dal passato siamo condannati a riviverlo».
* l’Unità, Pubblicato il: 20.05.08, Modificato il: 20.05.08 alle ore 18.49
Intervista a Alain Touraine: "Vi racconto come pensa uno xenofobo"
Perché ci sentiamo sempre più minacciati.
di Fabio Gambaro (la Repubblica/DAIRIO, 20.05.2008)
PARIGI. «Viviamo in una società in cui ci sentiamo spesso minacciati. La mondializzazione, le catastrofi naturali, la crisi economica, le difficoltà della vita quotidiana. Abbiamo la sensazione di non riuscire più a far fronte a minacce che sono spesso indefinite e imprevedibili. Ci sentiamo senza difese e incapaci di agire, di conseguenza abbiamo paura. Una paura indistinta che trasferiamo sugli altri, soprattutto sugli stranieri». Alain Touraine non ha dubbi, la xenofobia è una reazione che rivela le contraddizioni di una società sempre più disgregata e incerta. «Attraverso la xenofobia si manifesta la paura di chi, al di là del passaporto, è diverso da noi fisicamente, ma anche sul piano della cultura, della religione o degli stili di vita. Le caratteristiche dell’altro però sono solo un pretesto per poter proiettare su di esso le nostre angosce», spiega il sociologo francese che ha appena pubblicato La globalizzazione e la fine del sociale (Il Saggiatore), un volume che viene ad aggiungersi ai molti altri già tradotti in italiano. «Rifiutando l’altro a partire da questa o quella caratteristica, la xenofobia mette in moto una dinamica che giunge perfino a negare l’umanità dell’altro, dichiarandolo non umano in quanto integralmente diverso da noi. La disumanizzazione dell’altro è una delle conseguenze più gravi della xenofobia».
Significa che lo xenofobo irrigidisce e assolutizza la nozione di altro da sé?
«Per lo xenofobo diventa impossibile vivere insieme agli altri, nei confronti dei quali agisce un vero e proprio tabù. Gli altri sono percepiti come essere impuri, la cui presenza minaccia una comunità idealizzata come pura e quindi da preservare da eventuali contaminazioni. In questo modo, nasce lo straniero assoluto, che diventa una minaccia globale da cui ci si deve difendere. Condotto alle estreme conseguenze, tale ragionamento produce il razzismo, vale a dire la forma più radicale della xenofobia. Naturalmente, chi è xenofobo si muove sempre sul piano generale, stigmatizzando un’intera comunità, anche se poi, sul piano personale, avrà sempre un amico arabo, senegalese o rumeno da esibire per respingere ogni accusa di xenofobia».
Le sembra che oggi la xenofobia sia in crescita?
«Sì e naturalmente ciò mi preoccupa molto, perché si tratta di un segno inquietante per la nostra società. Certo, se ci si colloca in una prospettiva storica, dobbiamo riconoscere che la storia del mondo è spesso stata dominata dal rifiuto degli altri, dei barbari, dei diversi. In passato, abbiamo avuto situazioni molto più gravi di quelle odierne, come quelle nate dalla tratta degli schiavi e dal colonialismo. Oggi però, dopo un lungo periodo in cui la xenofobia sembrava progressivamente arretrare, mi sembra che si stia tornando indietro. Si ritorna alla barbarie. E la xenofobia è una delle sue manifestazioni».
Quali sono le cause di tale evoluzione?
«Viviamo in una società più aperta e mobile, nella quale i contatti tra popolazioni differenti sono più facili e costantemente in crescita. È una situazione che produce conseguenze contraddittorie. Accanto all’apertura e alla disponibilità, si manifesta anche l’esasperazione dell’inquietudine che alimenta il rifiuto degli altri. Ma quando un’intera comunità viene osteggiata e respinta, finisce per ripiegarsi su se stessa, sprofondando nel risentimento. Il riflusso comunitario e la xenofobia sono strettamente intrecciati. Si alimentano vicendevolmente».
La xenofobia nasce anche da una crisi d’identità?
«Certamente, ma non è combattendo chi è diverso da noi che si rafforza la nostra identità. Al contrario, la coscienza della propria identità si accresce nel dialogo con l’altro da sé. In ogni caso, è vero che la xenofobia nasce quando un’identità si sente fragilizzata da minacce non immediatamente riconoscibili. Oltretutto, la mondializzazione, oltre a rimettere in discussione la nostra identità, minaccia la nostra capacità di agire. Sempre più spesso ci sentiamo deboli e impotenti. In alcune situazioni, come ha sottolineato il sociologo Alain Ehrenberg, assistiamo a un vero e proprio crollo dell’io. Allora diventa facile scaricare la responsabilità di tale situazione su qualcun altro che è riconoscibile attraverso questa o quella caratteristica specifica. La minaccia imprecisa e sfuggente diventa così immediatamente identificabile e quindi più facile da respingere. È la dinamica del capro espiatorio».
Di fronte a queste problematiche, la sinistra è spesso accusata d’ingenuità e d’eccessiva comprensione per gli stranieri. Che ne pensa?
«In passato, in nome dei valori dell’Illuminismo, la sinistra ha giustificato la colonizzazione. Quindi non è vero che essa sia sempre stata dalla parte degli altri. Detto ciò, è vero che oggi la sinistra viene spesso accusata di essere troppo accondiscendente nei confronti degli immigrati. Personalmente, non credo sia vero. Semplicemente cerca di resistere a un discorso dominante che utilizza il tema della sicurezza per giustificare un discorso xenofobo. Naturalmente, la sicurezza è un diritto di tutti che va garantito, specie alle popolazioni più deboli e precarie. Non bisogna però cadere nella demagogia, rendendo responsabile delle nostre difficoltà interi gruppi di popolazioni. Oggi tutte le statistiche ci dicono che la criminalità è opera soprattutto di giovani non immigrati. La minaccia criminale quindi viene dall’interno del paese, non dall’esterno. Non sono gli immigrati che vivono nell’insicurezza a minacciare la nostra sicurezza. Bisogna continuare a ripeterlo e cercare di elaborare politiche in grado di tenere insieme accoglienza degli altri e diritto alla sicurezza. Anche se certo ciò non è sempre facile».
Cosa si può fare concretamente per far arretrare la xenofobia?
«Al di là del discorso classico che tenta d’intervenire sulle cause sociali ed economiche che alimentano la paura, mi sembra importante favorire il dibattito e le decisioni politiche a livello locale. È importante che ci sia un dialogo diretto tra i cittadini e gli amministratori politici, perché solo così diventa possibile elaborare politiche efficaci che non siano xenofobe. La discussione è insostituibile, perché consente di smontare e decostruire il discorso della xenofobia, mostrando ai cittadini che gli immigrati non sono una minaccia. La riflessione e la discussione consentono di evitare le reazioni irrazionali. Solo così si sfugge alla paura».
Dalla parola latina "hostis" si può ricavare l’ambiguità di certe figure che arrivano dell’esterno
Dioniso e Venere. Il mito dello straniero e l’ospite sgradito
Il dio epidemico e la dea pandemica rappresentavano nel linguaggio dei simboli la forza vitale della mescolanza, ma anche i suoi pericoli. I pro e i contro della crescita culturale
di Marino Niola (la Repubblica/DIARIO, 20.o5.2008)
La rabbia contro gli immigrati monta impetuosa come un’onda. La nostra società sembra attraversata da un improvviso rigetto di ogni corpo estraneo. Pare ormai superata quella soglia oltre la quale la presenza degli stranieri viene percepita come una ragione d’allarme. Un pericolo fuori controllo. I fatti sono nuovi, ma la questione è antica. Nelle cronache di questi giorni si avverte, infatti, l’eco profonda di problemi e parole che vengono da molto lontano, da quel mondo greco e romano di cui siamo figli, in cui nascono i principi e i valori che ancora oggi professiamo. È il caso dei nomi che usiamo per parlare del rapporto con lo straniero, delle paure che esso suscita e al tempo stesso della necessità dell’accoglienza. Termini come straniero, ospite e nemico, che per noi hanno significati ben distinti, in origine sono strettamente interconnessi tra di loro. Che si tratti di un groviglio di problemi inseparabili lo rivela anche la confusione, solo apparente, della nostra lingua che definisce come ospite sia chi accoglie sia chi viene accolto.
In certi casi le parole parlano da sole e ci dicono che siamo di fronte a figure e questioni inestricabilmente intrecciate sin dalle sorgenti delle civiltà indoeuropee. In latino uno stesso vocabolo, hostis, definisce sia lo straniero sia il nemico sia l’ospite. Solo più tardi compare la parola hospes col significato esclusivo di ospite, nel senso di colui che viene accolto. Il che indica che il rapporto con lo straniero oscilla, per sua natura, tra un estremo ospitale e un estremo ostile. E proprio per tale ambivalenza esso va accuratamente regolamentato.
E il greco xenos, prima ancora di significare il forestiero, indica soprattutto l’ospite. Così è per esempio nell’Iliade e nell’Odissea. I significati variabili di queste parole riflettono le incognite del rapporto con l’altro, ricco di possibilità, ma anche di insidie. Fattore di crescita, ma anche veicolo di contaminazione.
Il mito greco - che dalle sue profondità lontane continua a coniugare il nostro tempo al "presente remoto" - designa proprio col termine epidemie i rituali celebrati per l’arrivo degli dei stranieri. Come Dioniso, il simbolo della mobilità e del fermento vitale.
Dioniso era per i Greci lo straniero per antonomasia. Il dio che giunge da lontano. Inatteso, sconosciuto e spesso sgradito. Un dio epidemico nel senso più profondo del termine. Secondo il celebre antropologo del mondo antico Marcel Detienne, il termine epidemia in origine non apparteneva al vocabolario della medicina, bensì a quello della religione arcaica e veniva impiegato proprio per indicare la manifestazione improvvisa di una presenza ignota. Dioniso irrompeva nella vita dei Greci come un ospite non invitato, portato dalle onde su un’imbarcazione di fortuna, una carretta del mare.
I rituali che lo celebravano, le cosiddette epidemie dionisiache, consistevano spesso nella messa in scena di una cattiva accoglienza del dio, la cui barca veniva inizialmente respinta. Il rito si caricava dunque di un profondo significato politico e sociale, elaborando i sogni e gli incubi del cittadino greco poiché rappresentava il pericolo e al tempo stesso la necessità dell’ospitalità, il disordine e la ricchezza della contaminazione. O, come si direbbe oggi, i rischi e i vantaggi dello sviluppo.
E se lo sbarco di Dioniso era chiamato epidemia, uno dei nomi di Venere, la dea dello scambio erotico e del contatto fra i corpi, era addirittura Pandemia. Un nome che aveva in sé tutta l’insidiosa doppiezza dello scambio. Che è contatto ma anche contagio. Un’ambiguità chiaramente fotografata nella nostra lingua che usa ancora parole come venereo per definire certe conseguenze dell’amore. Il dio epidemico e la dea pandemica rappresentavano nel linguaggio dei simboli la forza vitale della mescolanza, ma anche i suoi pericoli. I pro e i contro della crescita economica e culturale. È sorprendente come il mito riesca a farci interpretare e capire il presente con la chiarezza di un fotogramma originario che illumina le profondità dell’essere individuale e collettivo, facendo balenare una verità che sfugge ai dati della cronaca e alle cifre delle statistiche.
Ostilità, ospitalità, xenofobia. Le parole che adoperiamo ancora oggi per parlare di noi e degli altri derivano, dunque, da uno stesso nucleo di significati che sin dalle origini esprimono tutta la problematicità dell’apertura agli stranieri. Apertura che è tuttavia indispensabile, ora come allora. Ma sempre a certe condizioni. Nemmeno gli ospitalissimi Greci accoglievano chiunque e comunque. E distinguevano accuratamente diritti e doveri dello straniero accolto, e perciò garantito, dalla condizione del semplice sconosciuto. Del clandestino, dell’homeless, del sans-papier, dell’asylant, per dirla con le parole di adesso.
Ieri come oggi i rapporti tra noi e gli altri attraversano fasi che dipendono dallo stato di salute dell’economia e dalla tenuta del legame sociale. Alternando sistole e diastole, contrazione e dilatazione dell’ospitalità. La sicurezza e il benessere rendono tutti più solidali. Al contrario, più cresce il senso d’insicurezza e più l’altro viene vissuto come un nemico potenziale. Perché quando si ha paura tutto fruscia, diceva Sofocle. E la sensazione di essere assediati ci chiude la mente e il cuore