Com’è noto, Dubai è la città più importante di un piccolo stato della Penisola arabica, che in questi anni ha fatto i soldi con il petrolio: gli Emirati Arabi Uniti. Affacciata sul Golfo Persico, Dubai è però famosa per essere un paradiso fiscale; da qui, infatti, sono stati inviati i soldi ai dirottatori dell’11 settembre, anche se non si sa da chi in particolare. Dubai è un’opera di tecnologia miracolosa: da trent’anni, cioè da quando si è scoperto il petrolio, ha cominciato uno sviluppo moderno fortissimo. Grattacieli, hotel lastricati fuori e dentro di marmo, centri commerciali, fermate dell’autobus con l’aria condizionata: un paradiso, insomma. Costruito, però, in mezzo al deserto, con un clima arido e pesante. Eppure Dubai è un centro finanziario fondamentale per tutto il Medio Oriente, è una piazza del commercio dell’oro, ma soprattutto è un paradiso fiscale - anche per le mafie, come quella russa. Durante gli anni della finanza selvaggia e del credito facile, lo sviluppo immobiliare ne ha fatto una città ‘imperiale’: possiede, ad esempio, l’edificio più alto del mondo, superando quindi Kuala Lumpur. Ma chi ha costruito Dubai? Ufficialmente è frutto dell’ingegno dello sceicco - così dicono. La realtà, invece, è che i grandi palazzi di Dubai li hanno costruiti gli operai, la grande maggioranza dei quali sono emigrati, che hanno lasciato i loro paesi d’origine per poter spedire qualche soldo in più a casa. Come Sahinal, un ragazzo di 24 anni, originario del Bangladesh, intervistato dal giornalista britannico. La sua storia è esemplare della condizione schiavistica in cui vivono i cosiddetti ‘operai di Dubai’.
“Appena è arrivato all’aeroporto di Dubai - scrive il giornalista - l’impresa edilizia che l’aveva ingaggiato gli ha tolto il passaporto, che Sahinal non ha mai più rivisto”. Se è vero che la filosofia riconosce un fondamento ontologico alla persona, la stessa cosa non vale per il cosiddetto cittadino. Nello Stato di diritto, infatti, l’identità dell’individuo non esiste di per sé, ma presuppone un riconoscimento giuridico. Tant’è che la nostra identità può essere messa in discussione in mancanza di una carta d’identità. Se in questo mondo l’identità di un individuo è legata ad una carta che ne certifichi la cittadinanza, allora privare un immigrato del suo passaporto è un atto disumano.
Sahinal è uno dei 300mila uomini che vivono “schiacciati” a Sonapur, una bidonville non troppo distante dal centro. Nel leggere quest’intervista al ragazzo del Bangladesh viene spontaneo chiedersi ‘chi’ sono gli altri, qual è la loro storia, quali le loro angosce che nessuno racconta sulle colonne dei giornali. Pensare a queste persone che vivono nel totale anonimato, che lavorano come bestie sotto il sole cocente del deserto è angosciante. Che ne è della loro individualità, dei loro diritti sul lavoro, della loro quotidianità? Prigionieri in un città straniera, senza documenti né conoscenza della lingua, son costretti a lavorare 14 ore nei cantieri con un paga da fame, circa cento euro al mese. La descrizione delle abitazioni è impressionante: in una cella di cemento armato ci dormono undici persone; tra l’odore degli escrementi che hanno otturato una specie di gabinetto e la mancanza d’aria il dormire diventa impossibile. Da una parte l’acqua non è desalinizzata e pertanto provoca la nausea; dall’altra il caldo, durante il lavoro, è una cosa inimmaginabile: “Ti fa sudare al punto che per giorni e settimane non riesci a pisciare perché tutti i liquidi ti vengono fuori dalla pelle - afferma Sahinal - Dopo un po’ cominci a puzzare, poi ti vengono nausee e giramenti di testa”.
Il lato oscuro di Dubai è quello che nessuno dei cittadini arabi arricchiti vuole vedere. E’ ovvio immaginarsi scioperi o proteste da parte degli schiavi (non riesco più a chiamarli operai), ma anche in questo caso la complicità delle autorità è determinante. La polizia è al servizio dei più forti o dei più ricchi, che in fondo è la stessa cosa: reprimono le rivolte e incarcerano. Così un ordine apparente regna sulla città, dove grattacieli imponenti costruiscono un paesaggio sempre più simile a Manhattan e le gru sono sempre in movimento. Ciò che non si vede o, meglio, non si vuol guardare sono gli operai schiavizzati. I suicidi nei cantieri sono moltissimi, ma non li denuncia mai nessuno.
Ritengo che Dubai sia anche un esempio della deriva propria della globalizzazione: le diseguaglianze aumentano a fronte di una ricchezza che aumenta per pochi grazie alla finanza e al petrolio. Ciò che conta, quindi, sono i soldi (tanti) e l’immagine che si proietta all’esterno. La terza grande voce del bilancio della città è infatti il turismo. Qui sorgono alcuni degli hotel più lussuosi del mondo, ma allo stesso tempo il mare è inquinato al punto da dover evitare di bagnarvisi. Gli impianti di depurazione erano troppo lenti e così gli autisti che trasportavano i liquami hanno scaricato per chissà quante volte direttamente nei tombini acque sporche e rifiuti. Il tutto è ovviamente finito in mare: “Le persone hanno cominciato a notare residui di fogna, preservativi e assorbenti usati in mare” - scrive il giornalista britannico.
I paradossi e le esagerazioni riflettono il modus vivendi et operandi di quella classe dirigente che dalla caduta del Muro di Berlino ha fatto i soldi non più soltanto attraverso il petrolio, ma anche grazie a quella finanza che Loretta Napoleoni chiama ‘creativa e selvaggia’. Il credito era facilmente accessibile grazie ai tassi d’interesse bassissimi, l’indebitamento ha sostenuto una crescita destinata al tracollo (vedi i mutui subprime ). L’economista italiana, infatti, dipinge un parallelo tra la situazione di Dubai e quella di una città che ha subito uno sviluppo fuori del comune negli Usa: Las Vegas. Crescita immobiliare, turismo e un enorme volume di soldi in circolazione. Il potere dei soldi o, meglio, l’allucinazione di una ricchezza eccessiva ha prodotto di conseguenza delle opere spropositate. Se pensate che in una delle zone più aride del mondo è stato costruito un campo da golf, allora capite la follia: per evitare che si secchi l’erba e quindi scompaia sotto la sabbia, “bisogna pomparci dentro più di 18 milioni di litri d’acqua al giorno”. Proviamo un attimo a riflettere. Da una parte gli schiavi che lavorano nei cantieri con 55 gradi, dall’altra un campo da golf che è un insulto per la loro dignità umana, oltre che un’opera assurda in quell’ambiente.
La crisi - prosegue il giornalista - si è fatta sentire anche in questa città, anzi molto di più che in altre: la recessione ha fermato i lavori dei cantieri di Dubai. Inoltre le aziende edili, che se ne sono andate, si sono portate via anche i passaporti degli schiavi e le loro buste paga. Li hanno condannati ancora una volta. Il giornalista cerca di confrontarsi con coloro che a Dubai non sono stranieri, ma cittadini e vivono normalmente, hanno un’occupazione, soldi e i loro diritti. Tenta invano di aprirgli gli occhi sulla realtà disumana degli schiavi, ma molti di loro vedono solo la prosperità e la ricchezza odierne. “Nessuno vuole tornare indietro. Prima avevamo il tenore di vita di un paese africano” - afferma Ahmed, un ragazzo di 23 anni che parla un inglese perfetto. Eppure nessuno, pur sapendolo, vuole rendersi conto che parte di quella ricchezza è stata costruita sfruttando schiavi stranieri. Ciò che a Dubai è più vistoso, i grattacieli e gli hotel appunto, sono stati realizzati sulle spalle di esseri invisibili, che per il governo e per i cittadini non esistono; sono lì per lavorare, come bestie. “Ma perché lo stato si dà tanto da fare per difendere e nascondere questo sistema schiavistico?” - si domanda ad un certo punto Johann Hari. Molte imprese sono di proprietà statale e quindi è una questione di profitti. I lavoratori schiavizzati costano meno e, poiché son costretti, lavorano di più.
Urge una riflessione, che sarà comunque breve. Da circa vent’anni le teorie neoliberali stanno governando le dinamiche del villaggio globale. Non solo quelle economiche, ma anche quelle politiche e culturali. Dato che il mondo sta assumendo un connotato sempre più omogeneo, bisognerebbe chiedersi dove ci condurrà la logica del profitto. E’ chiaro che tra il PIL, indice del nostro presunto sviluppo, e il surriscaldamento globale c’è un rapporto diretto. Più ‘cresciamo’, più consumiamo e più inquiniamo. Stiamo letteralmente consumando la terra e le sue risorse e non vi è atto più immorale di condannare le generazioni future a non avere un futuro e una terra perché noi, in nome del ‘legittimo’ diritto al profitto, abbiamo distrutto questa terra. Questo è prima di tutto un problema culturale e, di conseguenza, politico. La politica attuale, anche quella che si definisce democratica o socialista, ha in realtà accettato come normale le dinamiche della globalizzazione e del capitalismo. Ciò che spaventa è la mancanza di una coraggiosa critica politica all’etica del profitto; mancano le idee politiche e quindi manca la capacità di immaginare un mondo diverso, che resta possibile. La politica, orfana di idee, si sta riducendo ad amministrazione dell’esistente, considerato normale. O siamo in grado di criticare il primato del profitto in nome di idee più nobili e meno materiali, che prediligano l’interesse generale rispetto a quello individuale, oppure continueremo a costruire una società diseguale e schiavista.
Se il mondo diventa un’immensa Dubai
di John Banville (la Repubblica, 28 ottobre 2015)
L’ossessione degli anni ‘50 per la fantascienza, alimentata dalla paranoia da guerra fredda, il terrore della bomba e il sogno di un mondo nuovo, sgargiante, pulito e senza limiti, produsse una serie di riviste meravigliosamente strampalate. I racconti che c’erano dentro erano quasi sempre trascurabili (o forse eravamo troppo giovani per apprezzarli?), ma chi può dimenticare le illustrazioni in copertina, che raffiguravano le città fantastiche di un futuro lontano, con grattacieli alti un chilometro e mezzo, viadotti che si libravano tra le nuvole, automobili volanti e treni che solcavano i cieli. Oggi, vedendo le fotografie di Dubai, noi della vecchia generazione ci stropicciamo gli occhi per essere sicuri di non sognare. In questa città nel deserto, il futuro, che ai tempi della nostra gioventù sembrava impossibilmente lontano, o semplicemente impossibile, è già arrivato: ed è un futuro (chi lo avrebbe immaginato?) grottescamente pacchiano.
Joseph O’Neill, per un lampo di ispirazione, ha ambientato il suo nuovo romanzo, L’uomo di Dubai, a Dubai, appunto. I libri per cui è più famoso, il pluripremiato La città invincibile e quello precedente Blood-Dark Track, sono incentrati sui luoghi e l’assenza di luogo. Niente di strano, considerando che le sue origini, come Blood-Dark Track illustra doviziosamente, sono un groviglio inestricabile: uno dei suoi nonni era un uomo d’affari turco un po’ losco, l’altro era un nazionalista irlandese e militante dell’Ira.
O’Neill è nato a Cork, ma da bambino ha vissuto con i suoi genitori in tanti Paesi diversi, fra cui il Mozambico, la Turchia, l’Iran, e da quando aveva sei anni in Olanda, dove ha frequentato scuole francesi e inglesi. Poi ha studiato legge al Girton College di Cambridge e per dieci anni ha fatto l’avvocato a Londra, prima di trasferirsi a New York e stabilirsi lì, nel 1998.
L’anonimo avvocato svizzero-americano originario di Zurigo che fa da narratore in L’uomo di Dubai (è lui The Dog del titolo inglese), ha un nome che inizia per X, e per comodità lo chiameremo così. Ha lasciato New York e si è stabilito, se stabilito è la parola giusta, fra le discutibili meraviglie di Dubai, dopo la fine disastrosa e umiliante di una storia di nove anni con Jenn, anche lei avvocatessa esperta di diritto societario. Uno dei problemi insolubili della coppia, anche se non esplicitamente dichiarato, è che fra i due Jenn è quella che ha più successo sul lavoro, e di sicuro è più determinata, per non dire spietata. In realtà la sua durezza Jenn la espleta non soltanto nella vita professionale, ma anche nei rapporti con il nostro sventurato eroe. Quando la loro storia finisce, dopo che X decide, in stile Bartleby, che donare un campione di sperma non fa per lui (una splendida scena comica a cui O’Neill avrebbe potuto dare maggior rilievo), lei svuota il loro conto, lasciandolo senza un soldo.
Per sua fortuna, almeno in apparenza, X incappa in un vecchio amico dei tempi in cui era studente in Irlanda, tale Eddie Batros, rampollo di una ricchissima famiglia libanese; questo Eddie poco dopo gli offre un lavoro come «amministratore fiduciario della famiglia Batros». Per svolgere questo lavoro X deve trasferirsi a Dubai.
O’Neill tira fuori una cosa che assomiglia molto, anche in questa fase prematura della sua esistenza, a un capolavoro di comicità. Lo stile che ha congegnato per il suo racconto semidistopico è uno splendido amalgama fra il demotico e il leccatino. Si avvertono echi di Ballard e Martin Amis (che bieco divertimento avrebbe Amis a Dubai!), di Bellow e Nabokov, di Woody Allen e Don DeLillo, e di Philip Roth quando era comico, di Wittgenstein - sì, Wittgenstein - e di William Butler Yeats.
O’Neill è uno di quei rari scrittori che non si lasciano innervosire dalla ricchezza e dalle infinite potenzialità del linguaggio letterario. Qui ci sono frasi di tale tortuosa complessità, animadversioni degne del Proust più verboso, che a due terzi del cammino la mente dà forfait: ma la pancia ride. L’uomo di Dubai è causticamente spiritoso come il miglior cabaret. È anche beatamente disinteressato alla trama (la vita ha forse una trama?), come in una delle immense opere dell’ultimo Henry James.
La cosa divertente (amaramente divertente) è che Dubai, come il resto del mondo, dopo il Grande Crac del 2008 aveva frenato di brutto, e forse sarebbe sprofondata senza lasciar traccia nelle sabbie dell’Arabia se i suoi vicini degli Emirati Arabi Uniti, meno smodati e più ricchi, non avessero messo mano alla loro larga dotazione di petrodollari per salvarla dai suoi stessi eccessi. X, però, è fedele al suo luogo di rifugio, che si rivelerà, anche se lui non lo sa, fin troppo temporaneo. «Non mi schiero con i denigratori», dichiara.
Questo non gli impedisce di vedere la sconfortante iperbolicità del luogo: «La missione non dichiarata di Dubai è rendersi indistinguibile dal suo aeroporto». O’Neill si trastulla largamente con le peculiarità delle usanze e costumanze locali. Alla fine X finirà dritto in una, o anche più d’una, trappola legale, quando la famiglia Batros sarà sorpresa con le mani nel sacco e lui sarà il capro espiatorio.
L’uomo di Dubai, come scopriamo pian piano, è una sorta di trappola per gli sprovveduti. In superficie sembra una commedia, brillantemente lavorata ma ordinaria, sulla mascolinità post-femminista, dove un homme moyen sensuel, inoffensivo, benintenzionato ma impacciato, più Candido che Caligola, va a cozzare con i costumi, o la mancanza di costumi, dei tempi moderni.
Ma la superficie nasconde oscure profondità. Nelle pagine di apertura del libro, X racconta delle sue visite (alla disperata ricerca di qualcuno che gli spieghi perché è Jenn a sentirsi umiliata dalla fine della loro relazione) a siti «dedicati ai progressi moderni della psicologia» e in particolare forum dove giungere alla saggezza attraverso le esperienze condivise di altri. Ma quello che trova è una Babele infuocata di accuse, recriminazioni e veri e propri abusi, che, confessa, fa paura a guardarla.
Il mondo, insomma, si è trasformato in un’enorme Dubai, una città di false meraviglie al largo di un mare di sabbia, dove il sogno della vita moderna si è trasformato in un incubo futuristico in cui tutto è più grande, più alto, più largo, più profondo, più ricco di tutto il resto in tutti gli altri posti, un luogo la cui «assenza di passato rappresenta una grande opportunità per raccontare storie», come dice Ted Wilson, studioso di storia convertito in pierre. X - che alla fine si accorgerà di non avere nessuna storia da raccontare che valga la pena di essere ascoltata, o che convinca chicchessia che lui è autentico, che lui vale - è sconvolto dalla piega che hanno preso le cose. Contemplando la natura essenzialmente sintetica della città in cui si trova esiliato, rimane meravigliato e sgomento dalla proprio ingenuità.
10 e lode per il commento precedente.
"In Italia facciamo solo la contabilitá allo Stato"