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Dalla Calabria, una riflessione sulla forza vitale della morte, anche in chiave politica. Specie ora, fra crisi e immorali

sabato 3 settembre 2011.
 

(18 marzo 2010) Siamo niente, in questo tempo, in questo mondo. Ci crediamo eroi onnipotenti, coi nostri giochi quotidiani che ci allietano e rattristano. Non siamo più capaci di sognare, di bramare ciò che va al di là del personale, dell’appagamento d’un giorno, d’un attimo.

Il pensiero della morte mi ravviva. Essa sopraggiunge inattesa, è imprevedibile, beffarda, reale. È la certezza di cui non possiamo fare a meno: dà senso alla vita, anche in una prospettiva non religiosa. C’è, quindi, una spiritualità della morte, la quale ci attende nascosta.

Così, nelle mie giornate da piccolo idealista, ascoltando le voci dei più deboli, degli sventurati, dei delusi e degli oppressi, viaggiando per la Calabria che pena nel silenzio, sentendo addosso la rabbia implosa del mio popolo, trovo uno spazio per una riflessione sulla morte. Senza finezze dell’intelletto, senza fronzoli, contorsioni di parole. Se solo questo cammino universale verso la morte potesse destarci, attivare le nostre energie sconosciute, indurci alla ricerca della libertà, scioglieremmo ogni riserva e non sciuperemmo manco un secondo a difendere l’ordine delle cose, i suoi artefici e pubblicitari.

Negare l’avvento della morte significa riparare in una ragione pubblica omicida, accettata per adattamento, istinto di sopravvivenza, giustificazione d’una vigliaccheria sospinta in profondità, seppure emergente. Il rapporto individuale con la morte misura la vitalità di ciascuno. Io vivo in quanto so della mia morte: non nel senso di prevederne il momento, ma con la consapevolezza che si trova dietro l’angolo per tutti, quindi anche per me. Se imparassimo a guardare alla morte, e non tanto a pensarla come evento lontanissimo, guadagneremmo in vita. Capisco che questo discorso può apparire pesante e oscuro, specie nella crisi attuale. Non mi dilungherò, prometto.

Mi chiedo perché taciamo. Perché non ci ribelliamo se il figlio di Mario Pirillo, tra i responsabili politici del dramma calabrese, si candida per sedere in consiglio regionale? Perché restiamo passivi e non abbiamo alcuna voglia di scorrere le liste dei candidati in Calabria, ridotta a terra di minacce, pericoli, rassegnazione, miseria, uccisioni brutali o strazianti agonie? Abbiamo per caso contezza di Tommaso Signorelli e Franco La Rupa? Sappiamo dei loro trascorsi, delle loro esperienze, della loro morale? Ancora, che cosa negli anni ha compiuto Nicola Adamo o il “magico” Enzo Sculco, che ora a Crotone ha inserito il suo pupillo Francesco Pugliano? Ci sono o no novelli tirapiedi di potenti, ficcati nelle liste per raccattare voti con l’illusione del ricambio? Siamo in grado d’individuarli e di non farci gabbare dalle loro maschere di cera?

Qui il punto vero è che, specie in Calabria, ci stiamo annullando come popolo e come individui, cui comunque corrisponde una scadenza naturale, la morte. Forse, solo se riconosciamo d’essere di passaggio, possiamo, temendo il tempo che scorre, riscoprire l’audacia della nostra condizione di mortali.

Io sento d’avere fretta, e questa fretta voglio trasmettere a chi legge, se vuole soffermarsi sulle mie righe povere, estemporanee. Ho fretta di gridare, aggregare, creare movimento. Ho fretta di raccontare quanto sia stupido e imperdonabile chiudersi nel proprio, angusto mondo, privandosi della possibilità di partecipare al corso della storia.

Ho visto studenti ingabbiati, prigionieri nei loro iter universitari, gaudenti per evasioni ripetitive. Ho visto l’indifferenza e la testardaggine, davanti alla necessità di un’azione comune. Ho visto profeti del progressismo arrampicarsi sugli specchi, per motivare il loro sostegno a camaleonti e furbi. Ho visto sgretolarsi coscienze e percorsi d’impegno politico nella cultura. Ho visto il politicamente corretto sbandierato nelle discussioni, manifesto nella riservatezza di nuovi opportunisti.

Ma ho visto anche la combattività di tanti ragazzi che non aspettano favori e maledicono chi li propone. Proprio per loro, col mio personalissimo connubio tra vita e morte, io voglio rendere una testimonianza, rinunciare al privato, alle comodità, alla sicurezza; e parlare, scuotere, intervenire, sognare. Assieme a loro.

Questo mi pare il primo passo d’un progetto che si chiama coraggio. Che poi possiamo articolare con tutti i nostri saperi, come società che ha uno scopo, una meta. Al di là dei colori.

Sta a noi scegliere, se le mie parole hanno una logica, prima che una qualche forza. Consapevoli di non essere immortali.

Emiliano Morrone


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