Il giornalismo della maldicenza
di Giuseppe D’Avanzo*
L’Italia ha molti guai e tra i suoi guai c’è, senza dubbio, il giornalismo. Nelle democrazie mature d’Occidente, il giornalismo è spesso una parte della soluzione, qui da noi è un problema che rende più arduo venire a capo delle anomalie nazionali. Se questo avviene, un motivo c’è: l’informazione è stata degradata a chiacchiera. In un certo posto, a una certa ora del giorno, qualcuno dice qualcosa. Non è accaduto nulla. C’è uno che ha espresso un’opinione, ma quella diventa la notizia del giorno. Sulla finta notizia si raccolgono pareri, si scrivono editoriali, si titolano le prime pagine, si combinano interviste. Meglio se un tipo del centrosinistra si lancia contro Romano Prodi o uno del centrodestra dà sulla voce a Silvio Berlusconi. Ottimo se in questa routine si possa sistemare, con qualche ghirigoro, un pettegolezzo. Si conoscono tra gli addetti molte frasi famose di questo canone giornalistico. Quella che qui conta suona così: «Non parlatemi di inchieste giornalistiche, ché mi viene l’orticaria».
Un’inchiesta giornalistica è la paziente fatica di portare alla luce i fatti, di mostrarli nella loro forza incoercibile e nella loro durezza. Il buon giornalismo sa che i fatti non sono mai al sicuro nelle mani del potere e se ne fa custode nell’interesse dell’opinione pubblica e anche nell’interesse della politica perché senza fatti la politica annienta se stessa. È per proteggere se stessa che la democrazia prevede nel suo ordinamento costituzionale alcuni «rifugi della verità» garantiti - le università, le magistrature - e difende dai governi la libertà di stampa senza la quale, in un mondo che cambia, «non sapremmo mai dove siamo».
Il giornalismo della chiacchiera e della maldicenza dimentica il suo dovere di raccontare «dove siamo». Non guarda ai fatti, non li cerca, non vuole trovarli, soprattutto non ne vuole tenere conto. Quando si ritrova improvvidamente qualche fatterello tra i piedi, lo trasforma in opinione. Screditata a opinione, la verità di fatto è fottuta perché diventa irrilevante. Ma è appunto in questo "salto" l’astuzia del gioco. Accantonata la realtà, quel che resta si può combinare a mano libera. Ogni cosa è uguale al suo contrario. Ognuno è uguale all’altro. Non contano più comportamenti, responsabilità, abitudini, attitudini, condotte, decisioni, direzioni, orizzonti. Liberatosi dalla inevitabilità dei fatti, questo giornalismo deforme è ora il padrone della scacchiera. Muove torri e pedoni. Nella notte dove tutto è nero, nel vuoto di realtà creato, il lettore è frastornato. «Chi ha fatto che cosa?», non trova mai una risposta.
Accade in queste ore. C’è un giornalista, Renato Farina, sorpreso a trafficare con i servizi segreti che lo pagano con migliaia di euro. Il disgraziato non sa come difendersi. L’ha fatta grossa e lo sa. Ha tradito se stesso, il suo buon nome, l’amicizia di chi lavora con lui, gli appassionati lettori delle sue cronache. Non sa come uscirne con decoro. Gli suggeriscono di lanciarsi all’attacco. Chi se ne importa dei codici deontologici, tu hai combattuto per l’Occidente la IV guerra mondiale. Sei un soldato dell’Occidente cristiano ed ebreo. Sei un crociato. Sei un patriota.
Il disgraziato s’afferra all’argomento come un naufrago al legno. Sistemandosi addirittura accanto a Karol Wojtyla, scrive che ha «cercato di fare di tutto e di più per difendere questo nostro Paese e la sua civiltà cattolica». È la pietosa menzogna di un uomo che prova a proteggersi dal disprezzo. L’espediente miserabile di chi, religiosissimo, vuole rendere accettabile la sua umana debolezza invocando una fede e un’autorità che pure gli dovrebbero essere sacre. Un penoso spettacolo su cui si chiuderebbero volentieri gli occhi. Una brutta cosa che dovrebbe essere relegata in un angolino del discorso pubblico, e presto accantonata. Fino a quando, non sorprendentemente, il direttore del "Corriere della Sera" Paolo Mieli entra nel gioco. Prende sul serio quell’argomento: Farina è un crociato e un patriota. Santifica le ragioni di quel disgraziato addirittura con la legge di Antigone (che Dio lo perdoni). Non giustifica che abbia preso del denaro, ma per tenere a galla l’esercizio deve precipitare nel suo ragionamento, con un venticello calunnioso, anche chi dai metodi di lavoro, la storia professionale, l’opacità morale di Renato Farina è lontano un braccio di mare. La manovra deve accecare il lettore, nascondergli una realtà che, se raccontata, renderebbe l’iniziativa di Mieli un’arlecchinata.
Renato Farina non è stato pagato dal servizio segreto per difendere l’Occidente cristiano o combattere l’Islam radicale. Il Sismi ha chiesto a Farina di mettersi in contatto con un pubblico ministero per carpirgli informazioni e inquinarne il lavoro. Per questo è stato pagato. Il Sismi ha retribuito Farina per vedere pubblicato un dossier falso e screditare Romano Prodi, il candidato dell’opposizione a Palazzo Chigi. Lo ha pagato per spiare gli esiti dell’inchiesta sulle intercettazioni abusive e i dossier illegali raccolti dalla "sicurezza" di Telecom. Le attività di Farina non hanno nulla a che fare con l’Occidente, l’Islam, la civiltà cattolica. Lo si vede a occhio nudo. Le attività di Farina, rivolte contro le istituzioni del Paese (magistratura, governo), sono del tutto anti-italiane, assai poco patriottiche. Se Paolo Mieli non avesse così in uggia il mestiere di informare i lettori che ancora hanno fiducia nel "Corriere della Sera", si rimboccherebbe le maniche anche con l’orticaria per capire perché un’istituzione dello Stato (il Sismi) paga un giornalista (Farina) per mettere a mal partito altre istituzioni dello Stato (Palazzo Chigi e la Procura di Milano). Chiederebbe ai suoi bravi cronisti di raccontare quali interessi nascondono queste manovre oscure. Si sforzerebbe di spiegare ai suoi lettori come, quando e perché questo è avvenuto, e che cosa significa.
Ho lavorato per qualche tempo al "Corriere della Sera" e sono sicuro che un’eccellente redazione saprà riportare nel lavoro quotidiano i fatti là dove oggi ci sono soltanto chiacchiere e maldicenze. Non so se Paolo Mieli l’ha mai saputo, ma so che la sua redazione non ha dimenticato che, senza un’informazione basata sui fatti, la libertà d’opinione è soltanto una beffa crudele.
La politica della maldicenza di GIUSEPPE D’AVANZO *
QUALCHE fatto certo, innanzitutto. Ne abbiamo bisogno come di aria fresca. Il Sismi di Nicolò Pollari ha violato la legge istitutiva del 1977 dei servizi segreti che vieta all’intelligence di ingaggiare giornalisti. L’ingaggio di Renato Farina, vicedirettore di "Libero" da parte del Sismi di Pollari, non è contestato. Lo ammette Farina. Non lo nega Pollari. Secondo un’indagine in corso della Procura di Milano il Sismi, che pagava Farina, controllava nei movimenti, e forse intercettava, alcuni giornalisti di "Repubblica".
Sono due questioni che, come ha scritto Ezio Mauro, interpellano la qualità della nostra democrazia e impongono di sapere quanti altri giornalisti e quante altre testate sono state illegalmente controllate (non importa come) in questi anni. A fronte di due fatti accertati e di una domanda, le risposte che il governo ha ritenuto di dare sono inafferrabili.
Il sottosegretario alla Difesa Lorenzo Forcieri, come capitava anche al sottosegretario alla Difesa del precedente governo Berlusconi, ha ricevuto una notula dal Sismi e si è limitato a leggerla in Parlamento. La domanda era: il Sismi ha intercettato giornalisti? La risposta del governo è: il Sismi ci dice che non ha intercettato giornalisti.
Non si riesce a cavarsi neanche la curiosità di capire quale fazione del Sismi nega al governo i passi abusivi. Si sa, per ammissione di Renato Farina, che il direttore Nicolò Pollari è contro Marco Mancini, direttore del controspionaggio. Che l’uno e l’altro dispongono di "cordate" all’interno di un Servizio dove, per confessione di Farina, il lavoro di alcuni agenti è ormai fuori controllo.
Chi ha dunque smentito al governo la circostanza dei pedinamenti e delle intercettazioni abusive? I "pollariani"? I "manciniani"? O, se esiste, un terzo partito, una quarta fazione? Non si sa. Non sembra comunque che il governo avverta la responsabilità o il dovere di tagliare con nettezza questo nodo che sta avvelenando il dibattito pubblico.
Non avverte la responsabilità istituzionale di rassicurare la stampa nella sua libertà e nella sua autonomia. Preferisce nascondersi dietro la foglia di fico dell’inchiesta giudiziaria in corso senza avvertire che, prima dell’accertamento delle responsabilità penali, è il governo che deve vigilare e dar conto di routine e obiettivi che, in questi anni, si è dato il Sismi di Pollari.
Sono stati tutti coerenti con la sua missione istituzionale? Anche la violazione accertata della legge che vieta al Servizio di tenere a stipendio giornalisti appare a un governo, palesemente intimidito o impacciato, un peccato veniale, forse nemmeno un peccatuccio, soltanto un trascurabile niente.
Le confuse mosse del governo si sovrappongono alla grave denuncia del ministro dell’Interno. Giuliano Amato, in Parlamento, ha svelato l’esistenza di un sistema, favorito da "contratti di fatto" (vuol dire, pare di capire, che qualcuno paga qualcun altro) tra giornalisti e pubblici ufficiali in possesso dei brogliacci delle intercettazioni telefoniche. Per farla breve, una liason prezzolata tra procure e giornali.
"Alcuni giornalisti - ha detto Giuliano Amato - sarebbero in possesso di una password per entrare negli archivi giudiziari nel momento in cui un atto viene consegnato ai difensori". E’ una denuncia che inquieta. Va presa molto sul serio. Si sa che la fonte del ministro è una sola, è un giornalista. Lo conferma il ministro a "Repubblica". Deve essere influentissimo e soprattutto così attendibile da persuaderlo a sollevare il caso in Parlamento, prima di ogni accertamento.
E’ evidente che quel giornalista ha offerto al ministro una notizia di reato. "Repubblica" non ha mai avuto dubbi che Giuliano Amato si rivolgesse alla magistratura chiedendo che faccia quel che deve per eliminare quelle pericolose muffe. "Repubblica" sosterrà per quanto è nelle sue forze e nei suoi doveri l’iniziativa del ministro. I pubblici ufficiali infedeli che nelle procure d’Italia offrono ai cronisti addirittura le password degli archivi di indagine devono essere individuati, allontanati, severamente puniti.
Con qualche ritardo, si è appreso che questa notizia di reato era contenuta anche in un appunto che il ministro ha rintracciato soltanto in serata, dandone poi comunicato alla stampa. L’affare, a questo punto, si fa controverso. Qual è la fonte del ministro? Il giornalista o l’appunto di polizia? E se c’era un appunto del prefetto di Potenza perché il ministro ha ritenuto di indicare in un giornalista la sua unica fonte? Se all’origine della denuncia c’è la nota del prefetto, a quando risale l’informazione e quali indagini preliminari ha disposto Amato prima di recarsi in Parlamento?
Non dubitiamo che, nelle prossime ore, il ministro voglia fare chiarezza. Una luce migliore sulle cose sgombrerebbe il campo anche da qualche avventurosa coincidenza che soltanto per malignità (i maligni non mancano mai) potrebbe coinvolgere il ministro, magari soltanto per sprovveduta leggerezza.
Accade infatti che un giornalista sia pagato dai Servizi segreti che lo ingaggiano illegalmente. Accade che Giuliano Ferrara, con la consueta radicale provocazione, proponga ai suoi lettori un’equivalenza tra il Sismi e le procure; tra Farina e i cronisti giudiziari. Fin qui, tutto è prevedibile. Tutto addirittura secondo partitura. Un piccolo e influente giornale d’opinione che non sa che farsene dei "fatti", per esplicito programma, suona con il suo strumento la musica che conosce.
Meno comprensibile è che il sasso lanciato da Ferrara venga raccolto dal "Corriere della Sera" di Paolo Mieli che, grande giornale d’informazione, dovrebbe dar conto di qualche fatto documentato, reale, attendibile, verificabile per spiegare ai lettori che ancora lo leggono con fiducia che cosa accade e perché.
Al contrario, con un ghirigoro retorico e obliquo, in un vuoto di eventi, episodi e realtà, anche Paolo Mieli propone al suo lettore la stessa equazione di Ferrara: Sismi uguale procure uguale polizia; Farina, giornalista prezzolato, uguale cronisti prezzolati da polizia e procure. In questo non edificante e soprattutto posticcio contesto di verità rovesciate, appare prevedibilissimo Francesco Cossiga. Il presidente emerito della Repubblica riprende il venticello calunnioso del "Corriere della Sera" di Mieli e lo trasforma in interpellanza parlamentare: "Il capo della Polizia paga i giornalisti?".
Nessuno può pensare, né lo pensa "Repubblica" che, alzando il dito contro una connection illegale e prezzolata tra procure e giornalisti, Giuliano Amato voglia aver voluto alimentare il mulino della maldicenza con le indiscrezioni sussurrate da un giornalista influentissimo. Sappiamo che nelle prossime ore, il ministro dell’Interno, al di là dell’appunto di polizia recuperato a tarda sera e soltanto ora trasmesso al ministero di Giustizia, vorrà mettere a disposizione dell’autorità giudiziaria tutte le informazioni in suo possesso (compreso il nome dell’influentissimo giornalista) per eliminare un connubio inquinante tra stampa e procure della Repubblica. (12 luglio 2006)
La repubblica, 12.07.2006