[...] Il vostro documento parla di «sicurezza sostenibile», in opposizione a un approccio militare alla sicurezza. Cosa significa?
Sul lungo termine, «sicurezza» significa affrontare le enormi differenze economiche sul pianeta attraverso programmi efficaci di remissione del debito, una cooperazione allo sviluppo ben diretta, riforme del commercio globale che non penalizzino i paesi più deboli, e tutti gli altri strumenti che possono migliorare la vita della maggioranza mondiale. Significa dare priorità alle energie rinnovabili per risolvere il problema del clima, all’efficienza energetica per allentare la competizione per il petrolio, alla riduzione della povertà per ridurre gli squilibri mondiali, a fermare la proliferazione di armi di distruzione di massa. E ad affrontare le cause che stanno alla base dei molti conflitti di lunga durata. [...]
INTERVISTA Le vere minacce sul mondo XXI secolo La lotta al terrorismo è una vera priorità globale? I pericoli per la pace del pianeta? Sono il cambiamento del clima che provocherà carestie e inondazioni, la competizione per risorse naturali come acqua e petrolio, le diseguaglianze economiche, la corsa agli armamenti, ci dice Paul Rogers, esperto di «sicurezza» e direttore del Oxford Research Group
di Marina Forti (il manifesto, 01.08.2006)
Da cinque anni ormai, la politica internazionale è dominata dalla «guerra al terrorismo». Dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001 a New York e Washington il terrorismo internazionale è stato indicato come la principale minaccia alla sicurezza del pianeta; questo ha permesso al presidente George W. Bush negli Stati uniti di enunciare la teoria della «guerra preventiva» e invadere l’Iraq, ha fatto sembrare inevitabili misure di controllo che stracciano i diritti costituzionali e le libertà civili - e ha fatto passare in secondo piano ogni altra questione globale. La guerra al terrorismo ha guadagnato «le capitali e le stanze dei bottoni di tutto il mondo» fino a diventare «la nuova ortodossia della sicurezza», fa notare un gruppo di esperti in sicurezza internazionale in un documento pubblicato il mese scorso (Global Responses to Global Threats. Sustainable security for the 21st century, di Chris Abbott, Paul Rogers e John Sloboda, Oxford Research Group, giugno 2006). «Il terrorismo internazionale in realtà è una minaccia relativamente meno importante se comparata con altre, più gravi tendenze globali». Non è solo questione di conto delle vittime (in effetti la malnutrizione fa più morti del terrorismo). Minacce ben più gravi del terrorismo, sostiene il documento, sono almeno quattro fattori di crisi: il cambiamento del clima, la competizione mondiale per le risorse, l’emarginazione economico-sociale e politica della maggioranza del mondo, la militarizzazione globale. Sono queste «le ragioni profonde dei conflitti e dell’insicurezza del mondo attuale, e sono le cause probabili di futuri conflitti» - se non affrontate con urgenza.
Il Gruppo di ricerca di Oxford è noto per studi e analisi sui conflitti; il suo direttore Paul Rogers, professore di Studi sulla pace all’Università di Bradford, Gran Bretagna, è autore di un rapporto mensile sulla sicurezza globale in cui segue l’andamento della «guerra al terrorismo» (distribuito on-line: www.oxfordresearchgroup.org.uk). Ora però si dice convinto che bisogna cambiare i termini del discorso. «Ho sempre cercato di guardare alle cause profonde dei conflitti», ci ha detto. «Negli ultimi 18 mesi i miei colleghi e io abbiamo lavorato a uno studio commissionato da Greenpeace International e questo ci ha portato a guardare oltre l’orizzonte immediato dei 5 o 10 anni, a un futuro più a lungo termine. E se guardi sui 20 o 40 anni, le cause di possibili conflitti e violenza sono ben altre».
Voi elencate come minacce alla sicurezza globale il cambiamento del clima, la competizione per le risorse, gli squilibri tra paesi ricchi e poveri... Altri usano le categorie di Nord e Sud, o paesi industrializzati e in via di sviluppo, voi parlate di «emarginazione della maggioranza mondiale»: che significa?
Prendete paesi come l’India o il Brasile: ci sono élite locali, che rappresentano forse il 10 o il 20 percento della popolazione, che hanno stili di vita occidentali e sono ben integrati all’economia mondiale. Quando diciamo «maggioranza mondiale» intendiamo gli altri, i 4 miliardi e mezzo di abitanti del pianeta emarginati dal potere economico: e si trovano in gran parte in quello che usiamo chiamare Terzo mondo, ma in parte anche nei paesi industrializzati di Europa e America.
Si potrebbe obiettare che voi parlate di tendenze a lungo termine, ma i conflitti politici e sociali attuali, o anche le stragi nelle metropolitane, costringono a fare i conti con turbolenze più immediate.
Posso rispondere in due modi. Uno è che le forme di violenza politica estrema che abbiamo visto moltiplicarsi negli ultimi anni nascono di solito da gruppi di persone emarginate dal potere mondiale che non hanno altra possibilità di rivoltarsi contro le élites: è quello che si chiama conflitto asimmetrico. Considerate che negli ultimi 20 anni la capacità offensiva di gruppi paramilitari è cambiata parecchio, dunque è aumentata la possibilità di risposte violente da parte di gruppi marginali. Soprattutto, rispondo che molte delle cause soggiacenti alla violenza politica nascono proprio dall’emarginazione economica e politica. I movimenti radicali in Palestina nascono in gran parte dal fatto che la maggioranza dei palestinesi da decenni è marginalizzata, ridotta allo stato di rifugiati. Il movimento Hezbollah si è sviluppato in Libano in parte come risposta all’occupazione israeliana dopo il 1982, e perché la comunità sciita libanese è sempre stata la parte più povera, vulnerabile e marginale del paese: le milizie in un certo senso gli hanno dato un po’ di potere. L’emarginazione cronica della maggioranza è alla radice della rivolta maoista in Nepal e di quella, assai più significativa benché se ne parli molto meno, dei naxaliti in India: è diffusa in almeno 7 o 8 stati indiani. E poi, considerate che i problemi a cui assistiamo ora sono in in certo modo indicatori «precoci» di problemi più grandi in futuro, e mi riferisco anche alle pressioni ambientali.
Il cambiamento del clima, ad esempio, o la competizione per le risorse naturali.
Il cambiamento del clima ha effetti potenzialmente disastrosi sulle fasce tropicali, cioè alcune delle regioni più popolate e vulnerabili del pianeta: così la rivolta della maggioranza emarginata diverrà più acuta. Quanto alla competizione per le risorse, vale la pena di notare che la gran parte dei giacimenti petroliferi mondiali è concentrata in un piccolo numero di regioni del pianeta, e sono tutte teatro di conflitti annosi - e destinati a durare.
Oltre al Medio Oriente, si riferisce a zone come il delta del Niger?
Penso in particolare al Medio Oriente ma anche a casi come la Colombia o la Nigeria. Lo stato di cronica rivolta delle popolazioni del delta del Niger, e la violenza là diffusa, nascono dal fatto che la risorsa naturale della zona, cioè il petrolio, non si traduce in benessere sostanziale per le popolazioni locali. Il dibattito sulla sicurezza però è tutto impostato sulla campagna contro il terrorismo e sulle guerre che ne sono derivate. In questi giorni poi abbiamo sentito il presidente degli Stati uniti George Bush dire che anche la crisi in Libano è un altro capitolo della «guerra al terrorismo».
Il problema con la «guerra al terrorismo» è che si traduce sempre in misure per esercitare il controllo militare sulle crisi: è appunto ciò che vediamo ora in Libano, e anche in Afghanistan, o Iraq. Il paradigma dominante è «mantenere il controllo», ovviamente con la forza militare in primo luogo. Noi non rifiutiamo in assoluto missioni militari per mettere fine a un conflitto, preferibilmente sotto il mandato dell’Onu. Il punto però è che serve un approccio radicalmente diverso: capire perché i conflitti si polarizzano e perché movimenti radicali hanno sostegno popolare, andare alle cause. Ad esempio, non si risolve il conflitto in Medio oriente senza cercare un assetto di pace reale tra Israele e i palestinesi, e senza reale democrazia e rispetto dei diritti umani in tutta la regione. Ora ci dicono che Hezbollah è un’organizzazione terrorista. Ma è anche una forza politica con il maggiore numero di seggi nel parlamento libanese e due ministri nel governo, democraticamente eletti, e fornisce alla popolazione del Libano meridionale servizi sociali. Insomma, chiamarli in blocco terroristi è pericoloso. Lo stesso vale per Hamas, che ha rappresentanti democraticamente eletti.
Il vostro documento parla di «sicurezza sostenibile», in opposizione a un approccio militare alla sicurezza. Cosa significa?
Sul lungo termine, «sicurezza» significa affrontare le enormi differenze economiche sul pianeta attraverso programmi efficaci di remissione del debito, una cooperazione allo sviluppo ben diretta, riforme del commercio globale che non penalizzino i paesi più deboli, e tutti gli altri strumenti che possono migliorare la vita della maggioranza mondiale. Significa dare priorità alle energie rinnovabili per risolvere il problema del clima, all’efficienza energetica per allentare la competizione per il petrolio, alla riduzione della povertà per ridurre gli squilibri mondiali, a fermare la proliferazione di armi di distruzione di massa. E ad affrontare le cause che stanno alla base dei molti conflitti di lunga durata.
Come si potrebbe tradurre un simile approccio, ad esempio, nel caso della crisi libanese?
Israele è un ottimo esempio del fallimento del paradigma del controllo militare. Fin dal 1948 lo stato di Israele ha affidato la sua sicurezza alla forza: rispondere a ogni minaccia con una schiacciante forza militare. Quasi 60 anni dopo però Israele non è sicura, un terzo del suo territorio è sotto la minaccia dei missili che arrivano dal nord, poi ci sono i movimenti palestinesi radicali di Gaza e della Cisgiordania. Israele ha pensato di garantirsi la sicurezza con la forza e così facendo ha radicalizzato coloro che voleva controllare, una strategia auto-fallimentare. Con quello che sta facendo ora in Libano, Israele non farà che aumentare la propria insicurezza, aumentando l’odio nei suoi confronti. E’ un vero regalo agli strateghi di al Qaeda e di tutti i movimenti simili.
Il vostro studio conclude con una serie di raccomandazioni rivolte anche alla società civile, i movimenti, le ong, i giornalisti. Perché?
Noi cerchiamo di diagnosticare dei problemi e abbozzare idee su cui lavorare. La società civile organizzata può fare pressione sui governi, dire che non stanno affrontando le vere minacce alla sicurezza collettiva. La società civile organizzata ha una forza di pressione, ma in un certo senso anche qui è necessario cambiare approccio, legare i movimenti per la pace a quelli ambientalisti e quelli contro la povertà.
Il cambiamento del clima Minaccia centinaia di milioni di persone
Ormai la schiacciante maggioranza degli scienziati concorda: l’aumento dei livelli di anidride carbonica e altri gas «di serra» nell’atmosfera terrestre, soprattutto a causa di attività umane quali bruciare combustibili fossili e tagliare foreste, farà salire la temperatura terrestre tra 1,5 e 5 gradi centigradi entro il 2100: questo causerà un’allarmante espansione degli oceani e scioglimento dei ghiacci. Gli effetti saranno pesanti su alcune grandi aree metropolitane vicino alle coste: il graduale spostamento di centinaia di milioni di persone dalla zone costiere e dei delta fluviali. Inoltre ci sono segnali di «feed back positivo», un circolo vizioso in cui il riscaldamento del clima accelera le emissioni di anidride carbonica: questo potrebbe accadere nel mare Artico, e ce ne sono già i segnali. Ci sono anche indicazioni che nei prossimi 50 anni vedremo un notevole cambiamento nella distribuzione delle piogge, con il parziale inaridimento di alcune delle zone più fertili dei tropici, con notevole riduzione della «capacità di carico ecologica» e della produzione alimentare, dunque carestie.
La «sicurezza sostenibile» Non nucleare ma energie rinnovabili
Ci sono molti motivi per ridurre il consumo mondiale di petrolio. Uno è il cambiamento del clima, e sarebbe una ragione sufficente. Il fatto che il petrolio è fonte di conflitti come quelli che vediamo nel Golfo persico è un’altra buona ragione. L’Oxford Research Group sostiene che l’energia nucleare non è la risposta alla necessità di ridurre le emissioni di gas di serra: sia per i problemi ambientali, economici e di sicurezza associati alla gestione delle scorie radioattive; sia per i problemi di sicurezza associati alla moltiplicazione dei siti nucleari sul territorio (diverrebbero necessarie misure di sicurezza tali da minacciare seriamente le libertà personali e la democrazia). Una risposta sostenibile invece è passare all’uso di energie rinnovabili: eolica, maree, solare. E’ necessario stornare risorse dalla ricerca militare a quella civile, in particolare sull’energia. Bisogna inoltre andare oltre le tradizionali politiche antiterrorismo e di ordine pubblico a favore di più ampie strategie di soluzione dei conflitti, che affrontino anche le diseguaglianze socio-economiche del pianeta. La «guerra al terrorismo» finora ha spinto nella direzione opposta.
La maggioranza emarginata Diseguaglianze ed esclusione creano rivolta
Il benessere mondiale è aumentato, in termini globali: ma i benefici della crescita non sono egualmente distribuiti, ma concentrati in relativamente poche regioni del mondo. Oltre un miliardo di abitanti del pianeta sopravvive con meno di un dollaro al giorno e quasi metà dei 2,2 miliardi di bambini vive in povertà. Le popolazioni indigene subiscono persecuzioni e la distruzione di terre e risorse in nome del profitto. Tutto è aggravato dalla crescente oppressione ed esclusione politica. C’è un «chiaro pericolo presente» nel mondo oggi: la complessa interrelazione di discriminazioni, povertà globale, debito estero, malattie infettive (spesso curabili), disegueglianze globali. E di norme sul commercio internazionale che penalizzano i paesi deboli, o aiuti internazionali condizionati all’acquisto di prodotti dei paesi donatori o alla privatizzazione di servizi pubblici. Le aziende multinazionali sfruttano le risorse naturali di intere nazioni senza che le popolazioni locali ne abbiano beneficio, spesso con la connivenza di élites locali corrotte. Il successo di gruppi armati radicali è dovuto anche al fatto che forniscono servizi medici, sociali e scolastici che i governi non danno. Dove le fasce istruite della popolazione subiscono oppressione politica, occupazioni militari e mancanza di opportunità, il senso di emarginazione cresce e spesso sfocia in movimenti di rivolta anche violenti.
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Scheda
Petrolio, acqua, tantalio... Per le risorse naturali scoppiano guerre
Le economie industrializzate sono diventate nel corso del XX secolo sempre più dipendenti da materie prime importate, e in particolare idrocarburi. Questo ha scatenato competizioni feroci e guerre: tra gli esempi recenti quello dei Grandi Laghi africani, le guerre in Ruanda e Congo sono state anche un assalto a risorse minerarie indipensabili all’industria hi-tech globale. Maggiore oggetto di competizione restano però il petrolio e il gas naturale; il Golfo persico, sede di due terzi delle riserve mondiali, resterà centrale in questa competizione per i prossimi decenni. E’ così dagli anni ’70: per gli Stati uniti mentenere il controllo militare della regione è una priorità di sicurezza, tanto più se si intensifica la competizione per il petrolio e il gas con la Cina (che, come gli Usa, è diventata dipendente dall’import). La presenza Usa però è fonte di conflitto politico e alimenta movimenti paramilitari: la stessa al Qaeda ne è una reazione. L’occupazione americana dell’Iraq, con il pesante bilancio di «danni collaterali» civili, provoca indignazione in tutto il mondo musulmano (e alimenta il reclutamento nella resistenza), mentre gli Usa stanno rafforzando almeno 4 basi militari permanenti nel paese (almeno due vicino a importanti siti petroliferi). Un’altra risorsa sempre più scarsa e oggetto di competizione è l’acqua: la «politica dell’acqua» ha già un ruolo nei conflitti in diverse regioni, incluso il Medio oriente. __
terraterra
Il clima, gli uragani, e un rapporto taciuto
Marinella Correggia ("il manifesto", 29 Settembre 2006)
La lezione di Katrina, l’uragano del 2005 con milletrecento morti e 300.000 case distrutte sulle coste statunitensi, sembra essere servita a poco all’amministrazione Bush . Secondo la nota pubblicazione scientifica Nature, detta amministrazione avrebbe bloccato la divulgazione di un rapporto che riconduce al riscaldamento climatico l’aumento della frequenza e della violenza degli uragani. L’evento Katrina ha reso più intenso il dibattito in proposito fra gli esperti di clima e meteorologia. E quelli della National Geographic and Athmosferic Administration (Nooa) - che fa parte del Dipartimento del Commercio degli Stati uniti e, come dice il suo sito, si dedica a «migliorare la sicurezza nazionale e quella economica grazie alle previsioni e alle ricerche sul clima e su eventi collegati» - nello scorso mese di febbraio avevano incaricato un gruppo di propri esterti di preparare un rapporto che rappresentasse il punto di vista scientifico dell’agenzia in materia.
Secondo Nature, la bozza del rapporto confermava il nesso uragani-effetto serra. Ma nel mese di maggio, quando il rapporto avrebbe dovuto essere pubblicato, il coordinatore del gruppo di studiosi-redattori, Ants Leetmaa, ha ricevuto un messaggio in posta elettronica dal Dipartimento del Commercio: gli si comunicava la necessità di rendere il testo più tecnico e dunque, niente pubblicazione.
Un portavoce della Nooa ha definito la notizia del giornale scientifico britannico «un interessante pezzo di fantasia»: lo studio non sarebbe stato pubblicato perché non era pronto in tempo per la stagione degli uragani, il primo giugno... L’amministratore del Nooa Conrad Lautenbacher ha invece detto che il rapporto era di natura interna e non poteva essere divulgato prima che l’agenzia ne facesse la sua posizione ufficiale. Il fatto è che il rapporto era una semplice discussione sullo stato attuale della scienza degli uragani, e non conteneva posizioni politiche o dichiarazioni. Ma è il semplice collegamento tra la frequenza/intensità degli uragani e il riscaldamento del clima a essere politicamente sensibile, visto che l’amministrazione Bush non aderisce ai tentativi internazionali di limitare in modo vincolante le emissioni di gas serra.
Pare esserci maretta all’interno del Nooa, dove alcuni ricercatori in febbraio hanno accusato i colleghi di nomina politica di «ignorare la possibilità che il riscaldamento climatico possa influire sulla violenza degli uragani»; guarda caso, gli scienziati del clima che in passato avevano pubblicato articoli su questa connessione sono tenuti lontani dai media, a differenza di quelli che sostengono l’idea dei cicli naturali.
Comunque è una serie di studi recenti a mostrare un aumento della potenza degli uragani nel Pacifico e nell’Atlantico causato dalle crescenti temperature delle acque superficiali. Anche due settimane fa un gruppo di ricercatori ha dichiarato che la gran parte dell’aumento della temperatura degli oceani è risultato del riscaldamento climatico man-made. Così il cerchio si chiude. Anche se certi studiosi ritengono che molti altri fattori influiscano sui cicli degli uragani.
Intanto, a riprova di una certa schizofrenia all’interno della miriade di enti scientifici governativi Usa, un rapporto pubblicato pochi giorni fa sui Proceedings of the National Academy of Sciences a cura di un gruppo di ricercatori coordinato da James Hansen del Goddard Institute for Space Studies della Nasa (ente spaziale americano), nota che la temperatura del pianeta è aumentata a livelli mai visti negli ultimi 12.000 anni. Il ritmo si è accelerato negli ultimi 30 anni, e se aumenterà ancora in una misura superiore a un grado Celsius, "gli effetti non saranno più gestibili e la Terra cambierà a tal punto da diventare un altro pianeta". L’ultima volta che siamo stati così al caldo? Nel Pliocene medio, tre milioni di anni fa circa. Hansen non ha avuto reticenze sulle cause: "Questi dati indicano che stiamo arrivando vicini a livelli pericolosissimi nell’inquinamento di fonte umana".
Lo scienziato è stato del resto fra i primi, decenni fa, a sostenere che i gas serra originati dalle attività umane erano diventati un fattore predominante nel cambiamento climatico. Un buon diagnostico, ma un cattivo profeta: un suo studio del 2000 così notava: "Il tasso di crescita dei gas serra diversi dalla CO2 si è ridotto e se il trend continuerà, in capo a 50 anni l’impatto di questo gas sel cambiamneto climatico potrà essere pari a zero. Il che, combinato con un palusibile successo nella riduzione delle emissioni di CO2, potrà portare a ridurre i rischi di cambiamenti gravi". Non sta affatto andando così, almeno per ora.