[...] il governo, volendo equilibrare un po’ una scala di redditi fortemente squilibrata, è stato generoso nel senso che ha diminuito il prelievo sui contribuenti fino ai 40-50 mila euro e lo ha accresciuto al di sopra di quella fascia. Si dice: doveva tagliare gli sprechi. Doveva riformare il "welfare". Doveva colpire gli statali. Doveva doveva doveva.
Mi viene in mente la risposta di Don Abbondio al cardinal Federico Borromeo che gli rimproverava di non aver celebrato il matrimonio tra Renzo e Lucia e di aver ceduto alle intimazioni degli sgherri di Don Rodrigo: "Eminenza, bisognava averli visti quei volti, averle udite quelle parole". E il cardinale, anziché irritarsi, crollò il capo in segno di comprensione. Padoa Schioppa di tutto si può accusare fuorché d’esser pusillanime. Né ha avuto sgherri alle calcagna [...]
Le sette lamentazioni e il rigore necessario
di EUGENIO SCALFARI *
NELLE ULTIME quarantott’ore i contenuti reali, gli obiettivi raggiunti e quelli mancati dalla Finanziaria 2007, sono venuti a galla. Così pure le reazioni dei contribuenti, dei partiti, delle parti sociali e degli economisti. Il quadro è completo o quasi.
Le reazioni dei partiti e quelle delle organizzazioni che rappresentano interessi erano in larga misura prevedibili; non ci sono state sorprese degne di nota: governo e maggioranza da un lato, opposizione dall’altro; sindacati dei lavoratori favorevoli, Confindustria commercianti e artigiani contrari. Più interessante quelle dei contribuenti e degli esperti di economia. Qui è tutto un lamentarsi, anche perché i contribuenti favorevoli tacciono, quelli in qualche modo colpiti - anche di poco o pochissimo - esternano. Eccome! E meritano ascolto anche se chiedono cose irragionevoli, perché un pizzico di verità comunque c’è.
Lamentela numero uno: troppe tasse e pochi veri risparmi. Numero due: la stangata è ingiusta, doveva colpire solo i grandissimi patrimoni e invece si è accanita sui poveri cristi. Lamentela numero tre: gli sgravi sui redditi bassi favoriranno anche gli evasori. Numero quattro: gli evasori sono costretti ad evadere. Numero cinque: i piccoli imprenditori sono le vittime politiche della manovra. Numero sei: il Nord e in particolare il Lombardo Veneto pagano ingiustamente di più. Numero sette: l’agnello sacrificale è comunque il ceto medio.
Queste, a volerle riassumere in poche parole, sono le sette lamentazioni contro la Finanziaria. Ho già detto che prima di contestarne il contenuto bisogna scoprire quel pizzico di verità che contengono. E il pizzico di verità è questo: bisognava rimettere in ordine i conti disastrati dell’economia e della finanza; bisognava applicare la necessaria dose di rigore. Rigore vuol dire rigore, inutile girarci intorno. Vuol dire far quadrare un bilancio nazionale disastrato, contenere il deficit, contenere il debito pubblico, raccogliendo le risorse necessarie. Stimate a circa 2 punti di Pil; in cifre assolute 24 miliardi di euro.
E’ evidente che non si potevano cercare queste risorse tra i poveri. Certamente bisognava cercarle tra i ricchissimi ed è stato fatto, non per farli piangere ma per un minimo di equità. I ricchissimi tuttavia sono pochissimi. Per trovare risorse vere bisogna dunque scendere nella trottola dei redditi e scendendo si arriva a contatto con il ceto medio. Il concetto di ceto medio è quanto di più discusso e fumoso esista in sociologia.
Dove comincia il ceto medio? E dove finisce? Alberto Statera ha condotto in varie puntate un’inchiesta rivelatrice ed anche molto piccante su quest’argomento e ci ha fatto scoprire che chi ha un reddito di 60 mila euro annui (pari a poco più di 45 mila al netto di imposte e contributi) si ritiene sull’ultimo gradino della scala dei redditi, sotto al quale comincia la povertà. Ci ha fatto anche scoprire che il barista di piazzale Clodio a Roma, con un reddito effettivo di 100 mila euro, ritiene legittimo ed anzi generoso nasconderne solo la metà al fisco, se lo dichiarasse tutto andrebbe fallito.
Allora ripropongo la domanda: qual è il ceto medio? La risposta è questa: il ceto medio è quello il cui reddito si colloca nei dintorni del reddito medio degli italiani. Nella operazione redistributiva avviata dalla Finanziaria il crinale individuato dal governo per distribuire risorse ad una parte e togliere risorse ad un’altra parte sta tra i 40 mila e i 50 mila euro di reddito annuo. Chi sta sopra dà, chi sta sotto riceve. E’ giusta la scelta del governo? Oppure esosa? O invece generosa?
La risposta la troviamo in un’inchiesta del 2004 effettuata dalla Banca d’Italia sulla distribuzione del reddito ed è una risposta sulla quale bisogna riflettere a lungo: il reddito medio degli italiani è di 24 mila euro annui, il Nord ha un reddito medio di 28 mila, il Sud di 17 mila. Avete capito bene? Questo dato significa che chi ha un reddito maggiore di 24 mila euro sta sopra la media e chi ce l’ha minore sta sotto la media.
Dunque il governo, volendo equilibrare un po’ una scala di redditi fortemente squilibrata, è stato generoso nel senso che ha diminuito il prelievo sui contribuenti fino ai 40-50 mila euro e lo ha accresciuto al di sopra di quella fascia. Si dice: doveva tagliare gli sprechi. Doveva riformare il "welfare". Doveva colpire gli statali. Doveva doveva doveva.
Mi viene in mente la risposta di Don Abbondio al cardinal Federico Borromeo che gli rimproverava di non aver celebrato il matrimonio tra Renzo e Lucia e di aver ceduto alle intimazioni degli sgherri di Don Rodrigo: "Eminenza, bisognava averli visti quei volti, averle udite quelle parole". E il cardinale, anziché irritarsi, crollò il capo in segno di comprensione. Padoa Schioppa di tutto si può accusare fuorché d’esser pusillanime. Né ha avuto sgherri alle calcagna.
Ma ha operato in un contesto politico. Ha ritenuto che le riforme necessitavano d’un rinvio a febbraio-marzo mentre gli obiettivi richiesti dai mercati e dall’Europa erano attesi entro novembre con la Finanziaria. E’ così difficile capire questa realtà? Vincenzo Visco ne ha ricordata un’altra con una battuta molto efficace nella sua intervista di ieri a "Repubblica". Ha detto: "Questa Finanziaria è la tassa di successione lasciata da Tremonti" esattamente così.
Vengo ora agli economisti indipendenti, stimolato dalle parole cortesi di Franco Bruni (che è uno di loro) sulla "Stampa" di ieri. Dice Bruni che gli economisti indipendenti hanno anche loro preferenze politiche (hanno un cuore, scrive testualmente) ma privilegiano l’indipendenza. In questo modo ravvivano il dibattito e compiono un’opera utile.
Sono d’accordo: ravvivano utilmente il dibattito. Ma non sono indipendenti. Ciascuno di noi ha nella sua testa una "variabile indipendente" e a quella è agganciato, quello è l’asse del suo ragionamento e da quell’asse egli dipende perché quello è il suo pre-giudizio. Ma questa è filosofia. Andiamo al pratico.
Quanto ha destinato il governo al raddrizzamento dei conti disastrati? Ha scritto Francesco Giavazzi (economista indipendente) che il deficit nel 2006 era del 3.6 per cento del Pil; dopo la Finanziaria scenderà al 2.8. Quindi l’operazione "rigore" è stata fatta con lo 0.8 del Pil. Valeva la pena di fare tanto chiasso per una decina di miliardi? Sarà sicuramente indipendente, Francesco Giavazzi, ma sbaglia o dimentica alcune cose. Anzitutto non si tratta del 3.6 bensì del 3.8, ma questo è un trascurabile dettaglio di due decimali. Il fatto è che il deficit nel luglio scorso era stimato a 4.1 e dopo la sentenza della Corte europea sul rimborso dell’Iva incassata sulle automobili delle imprese, era salito (il deficit) a 4.6.
Il governo, insediato da appena quindici giorni, provvide con la cosiddetta manovrina (decreto Bersani di luglio) e predispose anche la copertura dei presunti rimborsi Iva. Con questi interventi sommati a quelli contenuti nella Finanziaria 2007, il governo ha abbassato il deficit dal 4.6 al 2.8, cioè di 1.8 punti del Pil, pari a poco meno di 20 miliardi di euro. Un’altra questione riguarda il recupero dell’evasione. Sono oltre 7 miliardi. Nuove imposte? Oppure imposte dovute a legislazione vigente? Decidersi tra queste due definizioni è importante.
Recuperare l’evasione significa mettere le mani nelle tasche dei contribuenti oppure impedire che alcuni contribuenti mettano le mani nelle tasche dello Stato? Opterei per questa seconda dizione. Ma allora è sbagliato sommare quei 7 miliardi di recuperi con le altre entrate tributarie perché la qualità, l’essenza di quel denaro è diversa. Perciò quei 7 miliardi debbono essere tolti dalle cifre delle entrate perché appartengono ad un altro aggregato. E questo (sembra a me) è un altro errore che un economista indipendente non dovrebbe compiere.
Infine: l’operazione perequativa si chiude in pareggio. Tanto si taglia da una parte e tanto si aggiunge su un altro piatto. Non si può contabilizzare una parte senza accompagnarla con l’altra di opposto segno. Il contenuto di questa operazione è più etico che finanziario.
Mi par di capire che gli economisti indipendenti l’etica non la menzionino perché riguarda il cuore. Dovrebbero però ricordare che al tempo di Adam Smith, loro maestro e di tutti noi, la filosofia morale era un ingrediente essenziale e pre-giudiziale dell’economia politica. E’ bene non scordarlo mai. (4 ottobre 2006)
*
www.repubblica.it, 04.10.2006
Anch’io ho sognato che Prodi cadeva
di EUGENIO SCALFARI (www.repubblica.it, 29.10.2006)
La sparuta pattuglia dei mohicani ha ricevuto un inatteso rinforzo. Si tratta di Alessandro Profumo, massimo dirigente di Unicredit e principale autore del successo di quella banca che è ormai tra le prime in Europa. In un articolo di ieri sul "Corriere della Sera" Profumo ha ricordato e trascritto cifre ben note da tempo ma che acquistano speciale rilevanza quando sono diffuse attraverso giornali di vasta tiratura. Le cifre riguardano l’ammontare della spesa pubblica nelle principali democrazie europee e sono le seguenti: la spesa primaria rappresenta in Italia il 39,9 per cento del Pil, in Germania il 41,2, in Francia il 46,1. Se poi si considera quella voce al netto degli oneri sul debito pubblico, che da noi sono nettamente maggiori che in tutti gli altri Paesi dell’Unione, le cifre migliorano ancora nel senso che la nostra spesa primaria al netto degli interessi è ulteriormente più bassa di quella tedesca con un divario di circa tre punti e di quella francese con un divario di sei.
Ne consegue che la spesa corrente italiana è la più bassa in Europa salvo quella dell’Irlanda e della Spagna che spendono in rapporto al loro Pil ancora meno di noi. Siete sorpresi da queste cifre? Giustificano il can-can che da mesi anzi da anni viene suonato e ballato da studiosi e politici di indiscussa autorità?
Non siatelo perché una spiegazione c’è. I tagli alla spesa dovrebbero servire a procurare le risorse necessarie per finanziare il risanamento del bilancio e gli investimenti destinati allo sviluppo, più o meno 25 miliardi di euro. In mancanza di quei tagli le risorse vanno reperite attraverso entrate tributarie. Per evitare tuttavia una brusca deflazione si cerca di bilanciare le maggiori entrate con diminuzione di imposte e altre provvidenze (assegni familiari, innalzamento della "no tax area") per risollevare il potere d’acquisto delle fasce deboli.
La differenza tra questa manovra bilanciata e un’altra eventuale concentrata sul restringimento della spesa sta nel diverso impatto sull’economia nazionale. Il taglio secco della spesa - al di là della doverosa eliminazione degli sprechi e dell’indispensabile riforma delle pensioni - creerebbe effetti depressivi sul ciclo economico estremamente perniciosi quando si è appena all’inizio d’una ripresa ancora timida e in presenza di preoccupanti segnali di rallentamento dell’economia americana.
Ricordo infine (per l’ennesima volta) che le maggiori entrate attese dal recupero dell’evasione non vanno considerate nel mucchio delle imposte e tasse che determinano la pressione fiscale e dovranno infatti al più presto essere compensate con diminuzione di imposte di pari importo seguendo lo slogan di "pagare tutti, pagare meno".
Avessimo ereditato un lascito meno sconquassato dalla precedente legislatura questa massima avrebbe dovuto e potuto essere adottata subito; così non è stato ma l’obiettivo della riduzione fiscale a fronte dei recuperi d’evasione deve restare un impegno primario e spetterà all’opinione pubblica di farlo valere ove mai il governo lo dimenticasse.
* * *
Resta da chiedersi il perché di quel can-can sull’ammontare nella spesa pubblica e la sottovalutazione di alcuni obiettivi di contenimento della dinamica delle uscite che compaiono in questa finanziaria. Sono stati indicati ripetutamente dal ministro dell’Economia ma la cavalleria economicistica carica gli sparuti mohicani senza darsi la minima cura di prendere atto di quelle misure che modificano la spesa rispetto a quella determinata dalla legislazione vigente.
Eppure quei provvedimenti non sono da poco. Ci sono risparmi nella spesa regionale, in quella degli enti locali, nella pubblica amministrazione centrale. L’entità complessiva di questa manovra vale all’incirca 10 miliardi.
Se dalle maggiori entrate si tengono distinte quelle imputabili al recupero dell’evasione e quelle imputate al trasferimento di una parte del Tfr alle casse dell’Inps (che serve a rendere possibile il taglio dell’Irap in favore delle imprese) si vedrà che l’insieme del quadro non è affatto così squilibrato come la grancassa della destra vuole far credere e come il qualunquismo nazionale ripete pedissequamente.
La ragione della perdita del consenso che sta mettendo seriamente a rischio la sopravvivenza del governo dipende da varie ragioni e cioè:
1. Gli aggravi dell’Irpef sui redditi da 50 mila euro in su; aggravi modesti ma progressivi con l’aumentare del reddito.
2. Le imposte sulle rendite finanziare.
3. L’aumento dei contributi di categorie autonome.
4. La revisione degli studi di settore da concordare con gli interessati ma in ogni caso orientati al rialzo.
5. L’imposta di successione per i patrimoni superiori a 150 milioni con franchigia di un milione.
6. Il trasferimento all’Inps del Tfr per le imprese con più di cinquanta dipendenti, che ricevono tuttavia da subito una compensazione maggiore del maggior costo per il ricorso al credito bancario. In sostanza l’Italia "modestamente" possidente è stata chiamata a contribuire "modestamente" al raddrizzamento dei dissestati conti pubblici. Contemporaneamente ha dato incentivi consistenti alle imprese. Tra il taglio dell’Irap, i crediti di imposta, gli incentivi per la ricerca, la compensazione per il trasferimento del Tfr, il sistema delle imprese avrà nel 2007 un beneficio di almeno sei miliardi che nel 2008 supereranno gli undici. Cioè un terzo dell’intera manovra.
Dunque le imprese non hanno alcuna ragione di lamentarsi. Ma gli imprenditori in quanto soggetti individuali sì, sono colpiti. Del resto se ci sono sacrifici da fare chi deve pagarli se non chi può permettersi di pagarli? I pochi ricchissimi, i numerosi semi-ricchi, gli strati superiori del ceto medio e, sia pure "modestamente", gli strati mediani.
Quando, durante i cinque anni della precedente legislatura, avvertivamo che i conti d’una dissennata politica economica sarebbero infine venuti al pettine e che tutti avremmo dovuto farcene carico, non fummo creduti. Da un certo momento in poi, però, i primi effetti di quel disastro cominciarono a materializzarsi. Da quel momento in poi il fascino berlusconiano e tremontiano sparì, gli effetti del miracolo promesso e non mantenuto determinarono un massiccio disincanto che, purtroppo per il centrosinistra, fu in parte dissipato da una campagna elettorale assai poco efficace.
Restava comunque da pagare il conto di cinque anni sciagurati. È un conto salato: 2 punti e mezzo di Pil. Non lo dico io ma tutti gli economisti indipendenti, tutti gli istituti di ricerca internazionale, tutte le autorità europee e il Fondo monetario.
Due punti e mezzo di Pil sono circa 40 miliardi di euro. E poiché l’economia europea e anche italiana sta migliorando, 5 miliardi ci sono arrivati dal cielo.
Lo ripeto: la Finanziaria è riuscita a sostenere lo sviluppo delle imprese oltre ai provvedimenti di rigore indispensabili, ma ha dovuto tassare l’Italia benestante, della quale fanno parte imprenditori, manager, quadri, professionisti, giù giù fino ai redditi da 40 mila euro. C’era un altro modo?
* * *
Ma c’è la lotta politica e quella sì, è feroce. Usa addirittura lo spionaggio contro le persone. Si dice: robetta, spiavano Vieri, Totti, qualche velina troppo vistosa. Ladruncoli di galline, ricattatori da cortile. È vero, spiavano anche Prodi, ma anche Berlusconi. Dunque pari e patta, non c’è mandante politico, non a caso il Cavaliere ha sentenziato che si tratta di un bidone, una buffonata, un polverone per parlare d’altro. Poi, nella sua longanimità, ha offerto un governo di larghe intese del quale - ha detto - io non farò parte, tutt’al più potrò fare il ministro dei Beni culturali (?) o dello Sport (!).
Una volta ancora ha spiazzato Fini e Casini e li ha rimessi in fila. Bossi protesta perché teme che tra le ali da tagliare, oltre alla sinistra radicale, ci sia anche la Lega, ma sa che Berlusconi alla fine non lo farà. Intanto il Cavaliere ha iniziato la campagna acquisti tra le anime tremule del centrosinistra. Ce ne sono parecchie. Qualcuno si è già venduto, qualche altro ci sta pensando. Se si tratta di deputati i prezzi sono bassi, ma se si tratta di senatori sono alti. Non si parla ovviamente di denaro ma di influenze, cariche future, salotti buoni, relazioni altolocate. Si vedrà.
* * *
È una stagione altamente istruttiva, quella attuale. Agitata. Sanguigna. Intrigante. Le corporazioni nazionali sono tutte all’erta perché è il momento più favorevole per far valere i propri favori e le proprie richieste.
Molti amici sono turbati da strani sogni. E lo scrivono. È una maniera comoda per dar forma ad un articolo. Si può fare un sogno rosa oppure un incubo. Giovanni Sartori ha fatto un incubo l’altra notte e ce l’ha raccontato sul grande quotidiano lombardo. Vaticinava la sconfitta di Prodi per colpa di una Finanziaria dissennata e Prodi, con in mano un coltello a serramanico, si lanciava su di lui per trafiggergli il petto. Per sua fortuna a quel punto Sartori si è svegliato. Bene. Se può interessare anch’io ho fatto un sogno. Senza paesaggio. Ho saputo che il governo era stato battuto al Senato sulla fiducia.
Napolitano aveva aperto le consultazioni. Un nuovo governo si formava. Chiedevo a destra e manca chi fossero i ministri e soprattutto il presidente del Consiglio, ma nessuno voleva dirmelo. Però - sempre nel sogno - gli avvenimenti si succedevano con implacabile logica. Per quel tanto che ricordo, la sequenza era questa:
1. Il governo si dimetteva a metà novembre.
2. Napolitano, dopo aver consultato a tambur battente i gruppi parlamentari, dava l’incarico dieci giorni dopo.
3. L’incaricato perdeva quindici giorni per ottenere un consenso bipartisan e costruire una lista anch’essa bipartisan, impresa difficilissima.
4. A quel punto l’approvazione di una nuova Finanziaria era fuori discussione e perciò si andava all’esercizio provvisorio.
5. La Commissione europea applicava immediatamente all’Italia le sanzioni previste per eccesso di deficit. I mercati spingevano i titoli tagliati al margine delle quotazioni facendo salire di alcune centinaia di punti lo spread tra i nostri titoli pubblici e quelli tedeschi assunti come punto di riferimento bancario.
6. Veniva prescritta all’Italia una cura da cavallo. La nuova Finanziaria era, quella sì, lacrime e sangue.
7. Il contratto del pubblico impiego non veniva firmato.
8. La riforma delle pensioni innalzava l’età pensionabile a 63 anni.
9. I tagli a Comuni e Regioni indicati nella Finanziaria di Padoa-Schioppa venivano mantenuti. La perequazione dell’Irpef abolita. Il Tfr restava interamente nelle mani delle imprese.
10. La Cassa Depositi e Prestiti diventava azionista di Telecom e dell’Alitalia.
11. Sotto la mia finestra passavano senza interruzione cortei vocianti e le sirene della polizia suonavano a distesa.
12. Questo, più o meno. Un governo di moderati riformisti. O di riformisti moderati. Prodi nelle segrete del palazzo di re Enzo a Bologna. Fassino dislocato in Sicilia come commissario di quella federazione del suo partito. D’Alema agli arresti domiciliari a palazzo Borghese col divieto di avere contatti con Condoleezza Rice. Parisi all’Asinara. Bertinotti, Franco Giordano e Curzi obbligati a essere presenti a tutte le trasmissioni di Bruno Vespa. Rutelli e Marini in convivenza continuativa con Ciriaco De Mita. E Pollari? Pollari nominato comandante generale dei carabinieri e della guardia di finanza appaiati. A quel punto mi sono svegliato.
(29 ottobre 2006)
Speriamo che vincano gli ultimi moicani
di EUGENIO SCALFARI *
I piccoli commercianti. I piccoli imprenditori. Gli artigiani. I professionisti. Le associazioni professionali che li rappresentano. Insomma il ceto medio, cioè il ventre della trottola dei redditi, l’80 per cento dei contribuenti italiani. Da quella moltitudine di persone così variegate nelle sue figure sociali e professionali, perfino antropologiche, si alza da due settimane un rumore di fondo che culmina in una protesta gridata sulla quale cavalca l’opposizione e perfino alcuni settori della maggioranza guidati dai sindaci delle grandi città, Torino, Milano, Bologna, Roma, Napoli, quasi tutti di centrosinistra ma uniti nel respingere in blocco le restrizioni che li riguardano previste dalla Finanziaria.
Il governo è solo e neppure compatto. Ogni giorno che passa il coro delle proteste acquista intensità e sonorità. I media amplificano. La "querelle" sulla Finanziaria s’intreccia con quella sul costruendo partito democratico.
Altre contraddizioni, altre rotture in vista. Ieri questi due psicodrammi sono andati in scena simultaneamente, a Capri quella economico-finanziaria, ad Orvieto quella politica. Entrambi hanno come protagonista il governo e lo stato maggiore del centrosinistra, eroi negativi dello psicodramma. Con due parafulmini che attirano i fulmini nelle persone di Romano Prodi e Tommaso Padoa-Schioppa.
Stando alle invettive a ruota libera lanciate contro di loro da Fini tre giorni fa nel salotto di Vespa e da Tremonti ieri a Capri, Prodi e Padoa-Schioppa sono gli ultimi due moicani rimasti a difendere una Finanziaria indifendibile.
Fini e Tremonti: due personaggi che hanno ricoperto i più impegnativi ruoli politici nel governo Berlusconi, tutti e due vicepresidenti del Consiglio, uno ministro degli Esteri, l’altro dell’Economia, in lotta feroce tra loro per quattro anni sui cinque quanto è durata la legislatura, ma entrambi corresponsabili dello sfascio finanziario e politico che hanno lasciato e che è venuto dopo, sia nella politica estera che in quella economica. Capaci tuttavia di proporsi a getto continuo e in ogni sede utilizzabile come i giustizieri e i vendicatori di un popolo tradito da una sinistra eternamente pasticciona, bugiarda, affaristica e sadica che realizza la sua libido togliendo il sangue agli italiani per il solo gusto di vederli soffrire.
Io non so se i "moicani" siano Prodi e Padoa-Schioppa. Ma fossero pure soltanto loro - e per il poco che valga - mi metto volentieri in loro compagnia. Non mi sfuggono affatto i difetti di questa Finanziaria, ma m’indigna il tono e la natura delle critiche che le vengono rivolte, la consapevole rimozione degli obiettivi che essa realizza se si riuscirà a portarla all’approvazione del Parlamento nelle sue linee maestre. Infine mi indignano i pulpiti dai quali quelle critiche vengono lanciate ed anche l’insipienza di quelli che dovrebbero ribatterle col vigore della logica e la forza degli argomenti dei quali dispongono e che appaiono invece più intimiditi e balbettanti che armati di solide ragioni.
* * *
Sostiene Tremonti (e gli fa eco Francesco Giavazzi, economista senza macchia e senza paura come i cavalieri della Tavola rotonda) che per risanare i conti pubblici sarebbero bastati 13 miliardi di euro cioè più o meno un punto di Pil. Bastava una Finanziaria di quelle modeste dimensioni anziché quella da 33 miliardi e mezzo.
Dunque una prima verità sulla quale si sorvola: i conti pubblici erano comunque in disordine. Ma poco. Un disordinetto piccolo piccolo.
Come trovare quei 13 miliardi? Facilissimo: colpire gli evasori. Come scovarli? Cercandoli. E poi producendo riforme ed eliminando sprechi. Nella previdenza, nella sanità, nel pubblico impiego, negli enti locali. Ma rispettando paletti invalicabili: non toccare il ceto medio, non toccare i piccoli commercianti e i piccoli imprenditori, gli artigiani, il lavoro autonomo, le Regioni e i distretti del Nord e del Nordest. Questa è la ricetta alternativa di Fini e di Tremonti. Più, naturalmente, anche Bossi. Non toccando gli "studi di settore", non toccando le rendite finanziarie e meno che mai le successioni. Semmai colpendo i ricchissimi. Quelli con più di 500mila euro di reddito. Cioè con un reddito di un miliardo di vecchie lire all’anno.
Alla domanda di come si doveva provvedere per stimolare la ripresa produttiva e la competitività, le risposte del duo Fini-Tremonti è altrettanto semplice: liberalizzando, lasciando briglia lunga alle imprese, specie alle piccole e al lavoro autonomo creativo. Al "fai da te". Magari aggiungendovi il taglio di qualche punto di cuneo fiscale da riservare interamente alle imprese. I soldi per questa operazione li forniva Tremonti in persona prima, che si attribuisce il merito dell’aumento del gettito tributario verificatosi nel 2006 e probabilmente duraturo negli anni seguenti.
Gli allocchi applaudono. Gli allocchi sono tanti. Per ragioni imitative divengono rapidamente tantissimi. Il rumore degli applausi porta altro rumore.
Chi tace acconsente. I sondaggi registrano. I centristi assaporano: "happy days are here again", gli anni felici stanno per tornare. Felici per chi? Gli economisti indipendenti e i giornalisti delle terre di mezzo si leccano i baffi.
Berlusconi sentenzia: il governo imploderà. Se non basterà la bagarre parlamentare l’ultimo colpo lo darà la piazza.
* * *
Qualche rettifica si impone, dettata dalla realtà dei fatti e dei numeri.
Per raddrizzare i conti pubblici non bastavano 13 miliardi. Il deficit infatti non era di 13 miliardi ma di oltre 24. Non era a quota 3,8 del Pil ma a 4,6. Per scendere al 2,8 patteggiato con Bruxelles fin dal precedente governo ci vogliono appunto 24 miliardi ai quali bisogna aggiungerne ancora qualcun altro: i fondi necessari per avviare gli investimenti in infrastrutture lasciate senza un soldo dal governo precedente; i fondi per chiudere alcuni contratti aperti da anni; i fondi per fronteggiare la sentenza della Corte di giustizia europea sui rimborsi dell’Iva alle automobili delle aziende.
Dunque 24 miliardi: queste le dimensioni del risanamento necessario.
Basta tassare i ricchissimi? I ricchissimi dichiarati sono non più di 700.
Avete capito bene: non più di 700.
In un articolo pubblicato giovedì scorso ho ricordato uno studio della Banca d’Italia sulla distribuzione del reddito nel 2004. Non mi pare che quel tema sia stato ripreso, evidentemente non appassiona o è imbarazzante.
Eppure a me pare di notevolissimo interesse e spiega molte cose. Il reddito medio pro capite ammonta, secondo questo studio estremamente accurato, a 24mila euro. Reddito medio e ceto medio sono due concetti diversi. Il primo è un numero, il secondo uno "status" socio-economico a definire il quale entrano molti elementi immateriali: titolo di studio, livello professionale, natura del lavoro, biografia familiare.
Tuttavia il reddito medio definisce con approssimazione l’area entro la quale si colloca il ceto medio. Infatti intorno ai 24mila euro annui si colloca il reddito degli operai specializzati, di gran parte del ceto insegnante, degli impiegati di prima e seconda categoria.
Se si dà retta agli studi di settore concordati con gli interessati, vi si collocano anche gran parte dei commercianti e delle partite Iva. Gran parte dei professionisti. Gran parte di chi ha acceso mutui sulla casa.
Quando dico "intorno ai 24mila euro" intendo netti, cioè più o meno 35mila lordi. Il governo ha fissato il discrimine della sua operazione perequativa tra i 40 e i 50mila euro annui lordi. Cioè ha largheggiato.
Significa che i contribuenti che superano i 50mila euro di reddito sono ricchi? La mia risposta è no. Diciamo che rappresentano un ceto medio-alto, che arriva attraverso vari scaglioni fino ai 100mila euro di reddito.
L’Italia è un paese dove il ceto che sta sotto alla media è purtroppo molto numeroso. Si sente ceto medio e lo è per la parte immateriale, culturale, della definizione, ma non per la parte definita dal reddito. Ecco perché la media del reddito è bassa: perché le disuguaglianze sono forti e l’evasione fortissima.
Per recuperare l’evasione ci vuole tempo e costanza. Il fatto di averne ricavato 7 miliardi per il 2007 rappresenta un primato.
L’ho già scritto giovedì scorso: non vedo grandi applausi per questo primato. Perché? Perché sono stati rivisti gli studi di settore? Con il consenso degli stessi contribuenti? Non è un’ammissione d’aver sottratto al fisco materia imponibile? Vorrei una risposta su questo punto, ma so già che non l’avrò.
Gli artigiani protestano. Il loro rappresentante nel salotto di Vespa faceva la voce grossa. Forse aveva buone ragioni. Se fossi stato presente gli avrei chiesto che tipo di artigiani rappresenta la sua organizzazione.
Idraulici? Elettricisti? Capomastri? Officine meccaniche? Bene.
Qualcuno ottiene una fattura da questo tipo di artigiani quando vengono a riparare un guasto a domicilio? E voi (noi) clienti di questi artigiani chiediamo la fattura? Non la chiediamo perché non sapremmo su chi scaricare l’Iva e poi quell’artigiano non tornerebbe più a casa nostra. Sta di fatto che il 90 per cento degli artigiani a domicilio lavora in nero, ti dà un pezzetto di carta con su scritto il compenso oppure ti dice "faccia lei" ma poi protesta se non gli dai un compenso già definito dall’uso comune.
Attenti: sono poteri deboli individualmente ma poteri forti come massa. La Costituzione europea in Francia fu bocciata soprattutto da quel ceto. Dove la deve cercare Visco la massa dell’evasione? Certo nelle tasche di Ricucci e dei suoi simili, ma con quella è tanto se recupera l’1 per cento. Qui l’evasione è intorno al 20 per cento del reddito. Fate due conti e capirete dove sta.
* * *
Questa Finanziaria dunque ci porterà al 2,8 per cento di deficit dal 4,6 ereditato; ci porterà al 2 per cento di avanzo primario dallo zero lasciato da Tremonti; all’inversione della curva di aumento del debito pubblico.
Costa sacrifici questo raddrizzamento. Costa a dir poco 24 miliardi. Ai quali aggiungetene circa 5 per il cuneo fiscale, uno per il rinnovo contrattuale del pubblico impiego, 3 o 4 per far ripartire i cantieri lasciati a secco.
Per far fronte alle esigenze c’è stato il "sequestro" del 50 per cento del Tfr dalle casse delle imprese a quelle dello Stato-Inps. E’ veramente un sequestro? Della parte di accantonamento che i lavoratori non vorranno trasferire ai fondi pensioni? Saranno dunque i lavoratori a decidere, lo Stato agirà solo sulla quota residuale.
Dicono Tremonti-Giavazzi: non è denaro vero ma un prestito, i lavoratori lo prestano alle imprese o allo Stato e le imprese o lo Stato lo debbono iscrivere come un debito.
Esatto, è così. Un debito però senza scadenza nel senso che viene pagato e riaccantonato in permanenza. Ci si domanda se l’Europa lo accetterà come entrata. Forse lo accetterà come entrata "una tantum" e credo che così debba essere. Credo che debba essere sostituito appena possibile dal recupero dell’evasione man mano che si verificherà. Scambiarlo con il cuneo fiscale? La Confindustria ha risposto: grazie no. Allora scambiarlo col blocco degli investimenti, già accantonati dal ministro del Tesoro ove mai l’Europa non accettasse la sua impostazione? Sarebbe pura follia.
Un fatto tuttavia è certo: bisogna aiutare le piccole imprese industriali e commerciali ad accedere al credito a tasso agevolato. Questa sì, è una correzione da far subito con apposito emendamento del governo. E i Comuni? Prodi li sentirà nei prossimi giorni. Dovrà fare di tutto per alleggerire il prelievo ma è inutile chiedergli miracoli: per ogni alleggerimento si dovrà trovare una seria copertura.
Con queste rettifiche indispensabili spero che il partito dei moicani vinca. Lo spero per il bene del Paese. Se poi il ceto medio con 60-100mila euro di reddito non vuole concorrere al finanziamento degli assegni familiari e delle detrazioni sui parenti a carico di chi ha un reddito che è un quarto del suo, allora non c’è scampo. Non ha sbagliato solo Prodi ma perfino il Papa e la sua campagna per il sostegno alle famiglie: tutti gli battono le mani ma nessuno vuole rimetterci un solo centesimo.
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Post Scriptum. A Orvieto i leader dell’Ulivo hanno perorato il Partito democratico. Tutti, da Veltroni a D’Alema, da Rutelli a Fassino, da Bersani a Franceschini a Amato, ma soprattutto Prodi. E’ dunque probabile (e auspicabile) che la nascita avvenga nel 2008 come previsto e avvenga tra i due partiti maggiori con ampie rappresentanze di associazioni fuori dai partiti.
L’appartenenza ad uno schieramento internazionale allo stato dei fatti è più un alibi che un ostacolo reale. Comunque è problema da affrontare a tempo debito e il tempo debito non è oggi.
La vera questione è quella posta in più occasioni da Reichlin: la natura del compito storico che il nuovo partito si assumerà in una fase che non è più quella novecentesca. Le motivazioni di quel secolo non esistono più. I bisogni sono cambiati, l’orizzonte è planetario, strutture e sovrastrutture sono intrecciate, le classi si sono dissolte, le corporazioni si scontrano, gli interessi forti comandano, i fondamentalismi si blindano, paesi nuovi e giganteschi emergono.
Ha senso, di fronte alla vastità di questi problemi, impantanarsi sul tema dello stendardo sotto al quale vogliamo o non vogliamo militare? Questa disputa sa di vecchio e soprattutto non è all’altezza del compito. Ma anche limitarsi a declamare sull’Ulivo non è all’altezza del compito. Il Partito democratico non può essere né socialista né cattolico.
Delinea il suo campo nella sfida alla globalizzazione democratica, che non è quella - o solo quella - dei banchieri d’affari e del monopolio delle tecnologie. Dev’essere molto di più. Se non dovesse essere altro che l’Ulivo fatto partito, allora il gioco non varrebbe la candela. (8 ottobre 2006)
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www.repubblica.it, 08.10.2006
Un equo “patto fiscale” è alla base di uno stato civile
di Rina Gagliardi *
La discussione sulla finanziaria è appena agli inizi, anche e soprattutto dal punto di vista politico, sia per ragioni generali (la fisiologica emendabilità di un testo di partenza che non coincide mai con quello di arrivo) che per ragioni specifiche (gli interessi e perfino le identità che vi si giocano anche questa volta, anche e specialmente all’interno della maggioranza). Ancora, però, ci pare rilevante ragionare attorno alla “filosofia” che sostiene o dovrebbe sostenere la legge di bilancio. Il tema, cioè, della battaglia culturale che la accompagna, le sta “dietro” e “dentro”, come sottolineava ieri, proprio su Liberazione un lucido articolo di Andrea Colombo.
Non per caso, sempre ieri, un editoriale del Corriere della Sera affrontava il problema in termini simmetrici ed opposti: più che le singole misure previste, comprese le misure fiscali che tutto sommato non sono così cattive, anzi sono compatibili con un’ottica liberale - scrive Maurizio Ferrera - si tratta di mettere a punto una diversa e più marcata egemonia “riformista”. Quel che non va bene è soprattutto il linguaggio “giustiziero”, insomma, secondo il più importante quotidiano italiano. Non va bene l’armamentario linguistico che la sinistra radicale ha, per l’occasione, rispolverato. Ed è ora di considerarlo, definitivamente, desueto.
Tutto questo potrebbe esser considerato come una classica questione di lana caprina. Ma non è vero, nient’affatto. All’opposto, la sinistra (la sinistra-sinistra) rischia in questa circostanza l’ennesimo paradosso: quello cioè di ottenere - magari - un buon successo politico e un (relativo) insuccesso culturale, rimanendo impicciata, e impacciata, in schemi difensivi.
Partiamo dalla faccenda più controversa: le tasse. Si sentono in giro, perfino tra le nostre file e perfino tra persone “insospettabili”, umori preoccupati, paure, dubbi. Anche tra chi aderisce senza riserve alle proposte di rimodulazione delle aliquote, che vanno tutte nella direzione di una maggiore progressività e di una più marcata equità sociale, non mancano riserve sui possibili contraccolpi elettorali che potrebbero piombare sulll’Unione e sulla sinistra.
Da dove nascono queste esitazioni, percepibili soprattutto nel Nord e nei territori più “avanzati” d’Italia, quanto meno dal punto di vista produttivo? Dalla persuasione sotterranea, presente da sempre nella storia d’Italia (mancata rivoluzione borghese?) e consolidata da più di due decenni di egemonia neoliberista, che le tasse siano in fondo un “male”. Che l’evasione fiscale sia nemmeno un peccato veniale, ma una “necessità” di cui non pentirsi, come discettava su Repubblica il tabaccaio-barista, reo confesso e fiero di dichiarare al fisco il 50 per cento dei suoi guadagni. Che, insomma, più si frega il fisco, meglio è.
Questa cultura profonda, ahimè, attraversa anche una parte dell’elettorato di sinistra - scuote la sicurezza, perfino, di quei lavoratori dipendenti che le tasse, non per scelta ma per non innocente meccanismo, le pagano tutte fino all’ultimo euro, ma forse invidiano, nel loro cuore, la libertà di evadere di cui dispongono autonomi, professionisti, commercianti, e così via.
Ora, bisognerebbe ricordarsi che un equo “patto fiscale” è alla base non del comunismo, ma di qualsiasi Stato civile e democratico, almeno dal punto di vista del sistema politico - sarà un caso che negli Stati Uniti l’evasione fiscale sia un reato gravissimo e che la più piccola delle evasioni contributive, se scoperta e pubblicizzata, basta a rovinare folgoranti carriere politiche? E bisognerebbe ribadire che nella stessa cultura liberale la leva fiscale è uno degli strumenti insostituibili per garantire quel (minimo) di redistribuzione della ricchezza, senza il quale trionfa l’egoismo e si perde la coesione sociale. Un sistema fiscale equo e progressivo, insomma, non è caratteristica precipua della sinistra radicale: è, dovrebbe essere, la base portante di una democrazia matura.
In Italia, tuttavia, l’iniquità fiscale è così radicata, specie dopo il lungo periodo berlusconiano, da rendere “rivoluzionarie” tutte le misure in controtendenza. Questa “parvenza” nasce, a sua volta, da almeno due ragioni. La prima attiene alla disgregazione, meglio alla crescente “liquidità” della società attuale (la ricordava Marco Revelli, sempre su Liberazione di ieri) che ne rende difficilissima, quasi impossibile, una lettura, o anche una fotografia, in qualche modo lineare, od “oggettiva”. L’antico schema borghesi-proletari, più un “ceto medio” che tende a moltiplicarsi a dismisura, non riesce più a dar conto della complessità e della frammentazione reali: non perché si tratta di uno schema desueto (in gran parte non lo è), ma perché le classi sociali sono tali e “veritiere” quando corrispondono ad una coscienza condivisa, ad una identità rivendicata, ad un “vissuto” soggettivo. Né basta un unico indicatore - il reddito - adefinire un’appartenenza, o una collocazione di classe.
Se è vero, quindi, che oggi tra “coscienza borghese” e “coscienza proletaria” vi è un’infinita zona grigia, fatta di pulsioni individuali, “comunitarie”, tribali, talora indefinibile perfino a se stessa, è vero che il primo a risentirne gli effetti è proprio il patto fiscale. L’identità di “cittadino” e “cittadina”, da questo punto di vista, si dimostra terribilmente astratta, lontana dalle persone - quasi quanto la politica nel suo insieme. Se io sono prima di tutto un tabaccaio, un barista, un disoccupato, una colf pagata in nero, un ex-operaio deluso, una casalinga frustrata, una consumatrice incallita, un raider, uno scommettitore clandestino fortunato, che cosa mi lega allo Stato, alla comunità nazionale?
Non è certo un caso che, in una fase storica così critica, il sentimento forse più diffuso sia, ahimè, lo “spirito di vendetta” sociale nei confronti di quelli che sono o appaiono privilegi sociali. Qualunque professionista benestante, interrogato sulle sue evasioni, risponde d’istinto «e i bar che non rilasciano scontrini?». Qualunque lavoratore autonomo (o che tale si percepisce) si scaglia con veemenza contro i “fannulloni” che affollano i ministeri, dipinti in toto come parassiti privilegiati. Non qualunque, ma molti lavoratori perbene ce l’hanno prima di tutto con gli stranieri che “rubano” il lavoro e anche le case. Eccetera eccetera.
La seconda ragione attiene, ancora, alle categorie culturali perdute. In una situazione così confusa e così poco leggibile, a sinistra (e non solo) si tendono ad usare nozioni che, per essere più chiare e comunicative, rischiano di accrescere la confusione (e ulteriormente diminuire l’egemonia). Esemplare, in proposito, la (pur meritoria, almeno nelle intenzioni) polarità “ricchi” e “poveri”, che è tornata proprio attorno a questa legge finanziaria. Ora, come dice Lidia Menapace, i “ricchi” e i “poveri” non appartengono alla politica - se mai, forse, attengono all’etica - e rinviano non alla materialità sociale reale, ma a una sorta di “legge di natura”. Si sa, ricchezza e povertà abiteranno a fortiori la migliore delle società possibili - o no? Inoltre, i “poveri” sono uno strato sociale da assistere, non una parte di popolo che può accampare diritti. Ma, soprattutto, ricchi e poveri non sono né seriamente definibili né facilmente riconoscibili - e così si ripiomba nella soggettività confusa, o nel gramsciano senso comune disgregato. Un problema quasi analogo si pone sul “lusso”: provate a trovare un criterio condiviso, e non bacchettone, e resterete stupiti di quanto sia difficile approssimarsi ad una definizione convincente.
Eppure, anche noi parliamo, con crescente frequenza, di ricchi e di poveri, e di lusso: perché sembra più chiaro e semplice, perché in una certa misura è davvero più chiaro e semplice. Forse, la via d’uscita è invece l’introduzione, anche su questo cruciale fronte, della complessità. Ciò che definisce la condizione della parte sfruttata della società, quella che tendiamo a rappresentare e ricomporre, sono molti fattori: il reddito, certo, ma anche i diritti, la collocazione produttiva, sì, ma anche la possibilità di accesso alla conoscenza, alle relazioni sociali, alle opportunità della modernità. “Oggettivamente” parlando (se mai è lecito un tale avverbio), la sinistra è tale, oggi, in quanto si rivolge ai “senza”: coloro che sono penalizzati sul reddito, sui diritti, sulla conoscenza, sull’accesso sociale - e nessuna di queste privazioni può esser considerata di minore importanza, o sovrastrutturale.
Qui si colloca evidentemente la contraddizione di genere. Qui è la base concreta della lotta alla precarietà. E qui, forse, ci sono le tracce per la ri-costruzione di un’idea e una pratica di cittadinanza, nutrita di corpi, bisogni, materialità. Ma vale la pena di continuare a pensarci su, come dicono nel progredito e barbarico Nord.
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www.liberazione.it, 05.10.2006
«Non è una manovra contro il ceto medio, ma una legge che per la prima volta si pone il problema della redistribuzione del reddito».
La «middle class» ignota al fisco
Intervista di Galapagos a Luciano Gallino (il manifesto, 03.10.2006)
«Definire storicamente cosa sia il ceto medio non è difficile; decisamente più complicato è intrecciare questa definizione con i redditi che vengono denunciati al fisco italiano: le denunce dei redditi presentate dai contribuenti sono una caricatura del paese reale. Quello che è certo è che questa finanziaria non è fatta contro il ceto medio e trovo ridicolo chi fa affermazioni di questo contenuto. Mentre trovo positivo che per la prima volta un governo affermi apertamente che la finanziaria è stata concepita per operare una redistribuzione del reddito a favore delle classi che in questi anni sono state fortemente penalizzate». Luciano Gallino dà giudizi netti sulla manovra economica del governo anche se i 217 articoli della legge e le oltre 250 pagine di testo non sono una lettura agevole. «Piena com’è - sostiene - anche di molti aspetti tecnici».
Professore, l’opposizione di destra attacca il governo Prodi sostenendo che la finanziaria è un duro colpo ai ceti medi. Possiamo provare a definire che cos’è il ceto medio?
Il ceto medio è una definizione che nasce un paio di secoli fa. Oggi come allora con questo termine definiamo coloro che dispongono di mezzi e anche competenze per poter lavorare e guadagnare. Semplificando: imprenditori, commercianti, professionisti, avvocati. Questo è un po’ il nucleo classico del ceto medio. Al quale dobbiamo aggiungere i dirigenti, i tecnici, i funzionari della Pubblica amministrazione, i professori universitari.
Ma esiste ancora un ceto medio? Non ritiene che la tendenza sia quella di una proletarizzazione, anche in forme diverse dal passato? O meglio ancora: secondo studi recenti quella cui stiamo assistendo appare come una polarizzazione verso le classi estreme.
Non sono d’accordo con l’affermazione che il ceto medio stia scomparendo e che ci sia un forte aumento della proletarizzazione. Mi sembra eccessivo dirlo. Sono invece d’accordo con chi parla di una polarizzazione: la piramide sociale sembra avere un vertice più ristretto e i passaggi tra le varie classi sono meno frequenti. Polarizzazione è un concetto più aderente alla realtà.
Banalizzando, mi sembra che lei affermi che chi è già ricco tende a essere ancora più ricco, mentre per tutti gli altri è difficile fare passi avanti, risalire la piramide.
La distanza tra il 10-20 per cento della popolazione più ricca e il 10-20 di quella più povera è aumentata. E non solo in Italia.
Da un punto di vista delle statistiche del reddito e del patrimonio è possibile fissare chi oggi in Italia è «ceto medio»?
Se parliamo dell’Italia ci scontriamo con una straordinaria povertà delle statistiche. Negli Stati uniti è sufficiente collegarsi con il sito del Congresso o con quello del Census bureau, tanto per citarne solo un paio, per sapere tutto o quasi della distribuzione dei redditi e della ricchezza. Certo, anche negli Usa c’è evasione fiscale e come sempre una reticenza dei più ricchi a far sapere quanto sono effettivamente ricchi. Però i dati complessivamente sono significativi ed è sicuro che tra i poveri non si nascondono i falsi poveri, cioè gli evasori fiscali. In Italia, purtroppo, le statistiche non sono altrettanto soddisfacenti: le indagini campionarie dell’Istat e della Banca d’Italia forniscono sono una parziale approssimazione. I dati dei bilanci delle famiglie, quelli sui consumi e sulla distribuzione della ricchezza sono molto approssimati. Prima di tutto perché le indagine sono campionarie e un campione anche se ben fatto è sempre una rappresentazione approssimata dell’universo. E poi perché l’approssimazione cresce al crescere dei redditi. Queste indagini, anche se recentemente hanno rilevato la dicotomia nella crescita dei vari redditi, non possono essere la base per cercare di definire la soglia reddituale del ceto medio.
Insomma c’è una sorta di omertà, anche se l’indagine è anonima e non vale a fini fiscali.
Decisamente. Ma va anche peggio se utilizziamo i dati sulle denunce fiscali per cercare di capire quale sia la vera distribuzione dei redditi in Italia: dalla configurazione della piramide dei redditi quella che emerge è una caricatura del paese reale.
Fare stime dell’evasione fiscale non è facile: i dati sul reddito nazionale stimano però un prodotto interno lordo di un 25-30 per cento superiore a quello che emerge dai dati fiscali.
Non c’è solo l’evasione, ma anche l’elusione e l’erosione. Si stima che il lavoro nero equivalga all’occupazione di almeno altri 5 milioni di persone. In parte anche lavoro dipendente, di chi svolge un doppio lavoro. In realtà l’area dell’evasione si nasconde soprattutto nel lavoro autonomo, nelle imprese. Fa cascare le braccia apprendere che in base ai dati delle denunce dei redditi al fisco solo l’1,59% dei contribuenti denuncia più di 70mila euro l’anno.
I dati sul patrimonio mobiliare (712mila persone con oltre 500mila euro, un miliardo di lire) dei quali più volte recentemente abbiamo scritto sul manifesto mi sembrano confermare che gli italiani non sono molto sinceri con il fisco. Ma torniamo al problema politico: questa finanziaria può essere etichettata - come fa la destra - come «contro il ceto medio»?
E’ una forzatura politica: se le dichiarazioni dei redditi fossero corrispondenti o vagamente vicine alla realtà ci potrebbe essere qualche appiglio, anche se questa finanziaria a quanto mi sembra tende a far pagare qualche centinaia di euro in più solo agli alti redditi. Ovvero i contribuenti che denunciano più di 75mila euro l’anno. Tutti gli altri, almeno fino alla soglia dei 40mila euro, che sulla base delle dichiarazioni sembrano costituire il ceto medio, avranno invece dei benefici fiscali che crescono al diminuire dei reddito. E questo mi spinge a pensare che la finanziaria operi un passo, magari piccolo, verso una politica di redistribuzione del reddito. La prima finanziaria se non sbaglio, è del 1978 e questa è la prima volta che sento parlare un governo di redistribuzione del reddito. Non è poco.
Non c’è il rischio che la redistribuzione del reddito privilegi chi è un evasore fiscale?
Nel ceto medio non c’è solo chi denuncia più di 40mila euro l’anno, ma anche i gioiellieri che, se non ricordo male, denunciano circa 20mila euro di ricavi al fisco. Il problema quindi è la spaccatura tra l’appartenenza al ceto medio e il reddito che viene denunciato. E’ evidente che il vero problema è la lotta all’evasione fiscale, che consente di determinare il vero livello di reddito.
Fra chi più si lamenta di questa finanziaria sembra esserci la reale classe media, secondo la definizione che ne ha dato, che è anche quella che denuncia al fisco quanto realmente guadagno. Insomma, i lavoratori dipendenti, i manager, i professori universitari che saranno costretti a pagare più tasse solo perché denunciano più di 70mila euro lordi l’anno.
E’ vero. In Italia esistono molte persone che non possono sfuggire al fisco. Non so quante siano esattamente. Tra loro per esempio vi sono i professori universitari i quali - parlo per esperienza personale - ai 70mila euro non arrivano. E credo che non sia piacevole per loro vedersi continuamente inseriti in una classe di privilegiati, mentre i veri privilegiati sono quelli che hanno redditi reali simili ai loro che però sfuggono a qualsiasi tipo di tassazione.
L’unica vera «persecuzione» al ceto medio sarebbe fare un lotta seria all’evasione fiscale.
Non c’è dubbio, visto che per molti appartenenti al ceto medio siamo a livello di dichiarazione dei redditi al disotto della decenza fiscale.
Che giudizio dà complessivamente di questa finanziaria?
Salvo le piccole distorsioni alle quali accennavo, cioè alcune migliaia di contribuenti che si sentono presi in giro, direi che è un notevole passo in avanti, per quanto sostenevo prima: ovvero la redistribuzione del reddito. E’ un fatto politico di rilievo.
Ormai è una vera questione nazionale
Ebbene sì, sugli evasori d’accordo con Padoa-Schioppa
Il problema del cittadino evasore e della sua sostanziale impunità rimane. Ed è di tale incidenza da meritare a nostro avviso il titolo di "Questione fiscale", un qualcosa cioè che dovrebbe assumere una rilevanza sociale, etica
di Giorgio Ferrari (Avvenire, 05.10.2006)
Su una cosa almeno - in attesa che il dibattito parlamentare chiarisca e, speriamo, modifichi ed emendi quei tratti per taluni in odore di soviet della legge finanziaria - ci sentiamo di concordare con il ministro dell’Economia Tomaso Padoa Schioppa: chiosando un pamphlet degli anni Cinquanta del polemista Ernesto Rossi dal significativo titolo Settimo non rubare, Padoa Schioppa ci ricorda come il vero ladro, il rapinatore occulto non è lo Stato che mette le imposte, bensì chi quelle imposte e quei tributi evade, letteralmente sottraendo dalle tasche dei cittadini onesti il denaro che essi pagano due volte, una per sé e una per conto degli evasori.
Aggiungiamo doverosamente una puntualizzazione: il cittadino a reddito fisso di per sé non è necessariamente più onesto o più virtuoso di quello che un reddito fisso - dunque certo - non ce l’ha; semplicemente il contribuente a reddito fisso non può, lo voglia o no, evadere o eludere il fisco. La sua è una virtù apprezzabile seppure per certi versi coatta, o, come suggeriscono taluni sociologi, una coazione alla virtù.
Il problema del cittadino evasore e della sua sostanziale impunità rimane. Ed è di tale incidenza da meritare a nostro avviso il titolo di "Questione fiscale", un qualcosa cioè - come lo furono nell’Ottocento il Rapporto Sonnino sul meridione o l’Inchiesta Jacini sull’agricoltura - che dovrebbe assumere una rilevanza sociale, etica, epocale.
Prerogativa del nostro Paese - ma non siamo gli unici al mondo, sia chiaro - è una secolare riluttanza a pagare le imposte, cui si aggiunge un’altrettanto secolare abilità nell’evaderle. Il motivo di fondo è la sfiducia sostanziale nello Stato, l’elevato tasso di inefficienza (e non di rado di corruzione) dell’amministrazione pubblica, la sottile persuasione che la tassa sia un furto perpetrato dall’alto e che dunque il denaro raccolto dagli esattori vada a beneficio esclusivo delle oligarchie al potere. In altre parole manca in la rghi strati della società italiana la convinzione che vi sia un bene comune da tutelare e da salvaguardare, uno spazio giuridico cioè che prescinda le convinzioni politiche e le ideologie e che viceversa appartiene sempre e comunque ai cittadini.
Evadere il fisco, non rilasciare scontrini e fatture, assumere dipendenti in nero, finisce così per diventare una sorta di necessità storica, un esercizio qualificante di furbizia collettiva al quale solo gli sfortunati salariati a reddito fisso o gli ingenui non possono sottrarsi. Gli altri, ricchi o poveri che siano, lo fanno con condiviso compiacimento.
E’ questo tipo di sottocultura che Padoa Schioppa avversa, e noi con lui. Sottocultura cui da sempre si affianca - e negarlo sarebbe ipocrita - una tolleranza dello Stato nei confronti del contribuente infedele che altrove - e parliamo di società avanzate come la Svezia, la Germania, l’Olanda, gli Stati Uniti, la Svizzera - è da secoli impensabile. Paesi in cui al rigore del fisco (c’è il carcere per una dichiarazione infedele in America) si accompagna però la consapevolezza che lo Stato siamo noi, i cittadini e che a questo servono le tasse, al bene di tutti noi.
L’ex premier dal palco della festa democristiana a Saint Vincent "Grave se il governo ponesse la fiducia sul provvedimento"
Finanziaria, Berlusconi: "Pronti a manifestare in tutta Italia"
E attacca: "Sulla moneta Visco e Bersani hanno copiato Stalin". Fini: "Prima battaglia parlamentare, poi se non si cambia, si va in piazza" *
ROMA - Silvio Berlusconi torna prepotentemente sulla Finanziaria e non esclude "manifestazioni in tutta Italia". Inoltre, spiega, sarebbe "grave" se il governo ponesse la fiducia sul provvedimento. Il leader azzurro, concludendo la tre giorni organizzata dalla Democrazia cristiana a Saint Vincent, ripropone la strategia indicata, a più riprese, in questi giorni: "Non ci tireremo indietro a scendere nelle piazze con manifestazioni in ogni capoluogo di provincia e in ogni piazza, per dare a tutti la possibiltà di partecipare".
Un’opposizione che, spiega il leader di An, Gianfranco Fini "deve prima passare in Parlamento e poi, in assenza di cambiamenti, nelle piazze". E a Francesco Storace che aveva esortato il partito a organizzare "comunque e, in caso, anche da sola" una mobilitazione contro la Finanziaria, Fini replica secco: "Noi non siamo il megafono delle proteste altrui. Per questo presenteremo pochi e qualificanti emendamenti e qualora non fossero sufficienti, proporremo la mobilitazione in piazza".
Neanche Berlusconi, però, esclude la battaglia parlamentare: "Il nostro dovere è di opporci alla finanziaria in Parlamento, dove dovremmo presentare emendamenti comuni nella Cdl per evitare che la cultura pauperista e l’odio sociale che permeano la manovra del governo Prodi, non ricada sugli italiani". Una battaglia da farsi insieme a quelle parti della maggioranza che vogliono modificare la manovra: "Cercheremo il dialogo con le forze dell’attuale maggioranza, qualora volessero unirsi a noi per modificarla profondamente".
Quindi, riprendendo il tema che gli è caro dei "comunisti", ha raccontato: "Ho letto l’ultimo scritto di Stalin dove spiega che l’obiettivo comunista è togliere la moneta. Visco e Bersani ci stanno riuscendo. Hanno aperto la via fiscale al regime abolendo la moneta in tantissimi rapporti".
Il leader della Cdl è apparso particolarmente ottimista, soprattutto nel commentare i sondaggi che danno il centrodestra in vantaggio di quattro punti sull’Unione: ’Siamo avanti di sei punti tondi tondi". Il presidente in attesa di entrare in sala è stato costretto a sedersi su una poltrona a causa di un dolore al ginocchio destro. "Ieri - ha detto - alcuni giovani mi hanno sfidato sugli ottanta metri piani. Ho vinto io, ma dalla notte scorsa ho un forte dolore al ginocchio". (8 ottobre 2006)
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www.repubblica.it, 08.10.2006