Un buco di 500 milioni: si fermeranno gli autobus e si spegneranno le luci nelle strade
Non ci sono più soldi per raccogliere l’immondizia e per seppellire i morti
Debiti, scandali e stipendi d’oro
Taranto, così "fallisce" una città
Se entro l’anno non arriveranno dal governo 60 milioni sarà la bancarotta
dal nostro inviato ATTILIO BOLZONI *
TARANTO - I primi a fermarsi saranno i camion della spazzatura. E poi gli autobus. Tutti a piedi, per strade sporche e buie. In cassa non ci sono più nemmeno i soldi per pagare le bollette, in ogni pubblica via si spegneranno le luci. E per la festa dei morti non si seppelliranno più i morti: i servizi cimiteriali verranno ufficialmente sospesi il primo novembre. Il Comune di Taranto non ha più niente. Neanche un solo miserabile euro.
Quella che segue è la ricostruzione dei fatti che hanno sprofondato una città del Sud in un gorgo di debiti, il più grande dissesto finanziario di un ente locale dal fallimento della Napoli dei vicerè degli Anni Ottanta. Un buco di quasi 500 milioni, un sindaco rovesciato dagli scandali, stipendi d’oro che hanno arricchito un clan di burocrati, un prefetto nominato a governare quella Puglia diventata famosa per Giancarlo Cito, intruglio tra un guappo e un picchiatore nero che si era impadronito di un pezzo d’Italia.
E sono stati proprio gli eredi naturali del "feroce telepredicatore" finito in carcere per mafia a divorarsela, a mangiarsela fino all’ultima briciola. Così Taranto ha dichiarato la sua bancarotta amministrativa e la sua bancarotta politica. "La situazione di cassa è paurosa, fatti i conti ho un’autonomia per soli 10 giorni e poi non posso più garantire i servizi essenziali", annuncia Tommaso Blonda, il prefetto incaricato di salvare questa città di 200 mila abitanti che respira i fumi della più grande acciaieria d’Europa e si sta preparando alla sopravvivenza civile.
Il prefetto ha portato con sé 5 sub commissari e 6 alti funzionari che ha piazzato nelle ripartizioni chiave del Comune, quelle dove tiranneggiavano dirigenti da 100 mila euro in su. Ma aver messo a posto le carte - e averle spedite in procura - non basterà più ormai per sottrarsi al tracollo. "Solo un atto straordinario dello Stato può mettere in salvo Taranto", spiega il prefetto. A Palazzo Chigi ha chiesto 60 milioni di euro sino alla fine dell’anno. Se non arriveranno, Taranto è spacciata.
Su come questa capitale di Magna Grecia sia finita così in basso, non è un gran mistero per chi ci sta o c’è nato. "È una città che appena 15 anni fa, quando doveva scegliere il proprio sindaco fra un onesto magistrato e un pregiudicato, ha preferito il pregiudicato e si è incamminata verso l’isolamento", risponde Giancarlo De Cataldo, un tarantino che vive a Roma, giudice di Corte di Assise, saggista, autore anche di quel "Romanzo criminale" che magnificamente narra le gesta della banda della Magliana. E sospira De Cataldo: "La città migliore è quella che non ha potere".
Dopo Cito e le scorribande ricattatorie dagli schermi della sua Antenna 6 o la caccia grossa agli emigrati sui marciapiedi, il destino di Taranto era come segnato. Mantenuta nel dopoguerra dall’arsenale dell’Ammiragliato, ingrassata poi dalle commesse dei cantieri navali, tramontato il sogno industriale degli anni ’60 e ’70, è andata sempre disperatamente in cerca di padroni. Trovandoli di volta in volta. In quel tribuno prima, in quell’allegra compagnia di giro che poi ha vinto le amministrative del 2000 prosciugando le finanze comunali. "Io ho perso contro il 65% dei voti dell’altro candidato a primo cittadino: subito dopo, noi dell’opposizione, siamo stati costretti a portare 20 chili di carte alla magistratura", ricorda Ludovico Vico, oggi parlamentare eletto nell’Unione e rivale dell’ultimo sindaco, Rossana Di Bello. È cominciato con lei - una che da Fi è passata a capeggiare una lista civica - l’inizio della fine del Comune di Taranto.
Eventi e poi eventi e ancora eventi. Tutti di cartapesta. E costosissimi. E appalti e appalti e ancora appalti. Tutti a trattativa privata. E assunzioni a go go. E incarichi, consulenze, contratti a ore per aspiranti clienti da sistemare a ogni tornata elettorale. Direttamente in Comune. O nelle "partecipate", l’Amat (servizio trasporti) e l’Amiu (nettezza urbana). Assunzioni dopo assunzioni, nell’ultima primavera sono diventati più di 3mila quelli che prendono una busta da paga dal Comune.
E intanto i conti sono andati in rosso. Il disavanzo era di oltre 83 milioni di euro nel 2004, è lievitato a quasi 138 milioni nel 2005. I debiti fuori bilancio sfiorano i 150 milioni. Gli oneri latenti sono di quasi 160 milioni di euro. Il commissario straordinario stima con precisione il "buco" fra i 446 e i 447 milioni. Con un trucco le voci passive le hanno trasformate in attive, i debiti in crediti, nelle entrate sono finite le voci "uscite" delle partecipate e voci incerte come quelle dei tributi ancora non riscossi. Una contabilità taroccata dal primo all’ultimo numero.
Il sindaco Di Bello si è dimesso subito dopo una condanna a 16 mesi per l’appalto dell’inceneritore, in 33 sono sotto inchiesta per falso in bilancio. "Il Comune è stata una fabbrica di distribuzione indiscriminata di ricchezza, c’è stato un saccheggio", spiega Roberto Nistri, insegnante di storia e filosofia al liceo classico Archita per tanti anni, scrittore anche lui. E aggiunge Gino d’Isabella, uno dei segretari della Cgil: "L’ultima giunta ha costruito il suo potere su sabbie mobili che poi hanno risucchiato la città". Hanno mandato in rovina Taranto. "Stiamo solo cercando di farla migliore e ci riusciremo". È stato uno degli ultimi solenni giuramenti della Di Bello alla "Voce del Popolo", battagliero quindicinale che ha seguito ogni passo della vicenda amministrativa. Poi è sparita.
È una sacca Taranto. Di veleni, di soperchierie. Uno uno Stato nello Stato come ai tempi di Cito. Adesso hanno chiuso le mense scolastiche, cancellati i buoni libro, ridotto le auto dei vigili urbani. E a fine mese i dipendenti comunali non avranno più lo stipendio. Da qualche settimana, fuori dal Municipio, ogni mattina arriva puntuale Giovanna, una ragazzina che distribuisce piccola pubblicità. Sta in piedi davanti al portone, ha in mano un pacco di foglietti colorati e tutti uguali. Vanno a ruba. Promettono: "Un prestito eccezionale dedicato solo a te, tassi e condizioni riservati ai dipendenti pubblici di Taranto". (14 ottobre 2006)
* www.repubblica.it, 14.10.2006
Ilva annuncia: “Chiudiamo lo stabilimento di Taranto e tutti quelli che vi dipendono”
di Redazione Il Fatto Quotidiano | 26 novembre 2012
Chiusura. Per il Gruppo Riva non ci sono alternative dopo il provvedimento di sequestro emesso oggi dal Gip di Taranto. Una decisione che comporterà “in modo immediato e ineluttabile l’impossibilità di commercializzare i prodotti e, per conseguenza, la cessazione di ogni attività nonchè la chiusura dello stabilimento di Taranto e di tutti gli stabilimenti del gruppo che dipendono, per la propria attività, dalle forniture dello stabilimento di Taranto”. In pratica, una ritorsione. E’ quanto ha scritto l’azienda in una nota diramata nel pomeriggio. Un comunicato in cui la società ha anche reso noto che “proporrà impugnazione avverso il provvedimento di sequestro e, nell’attesa della definizione del giudizio di impugnazione, ottempererà all’ordine impartito dal gip di Taranto”.
La clamorosa decisione di Riva Group è arrivata dopo i 7 arresti effettuati oggi insieme al sequestro dei prodotti finiti. I primi ad avere la notizia sono stati i sindacati, a cui la società ha comunicato la chiusura immediata dell’area a freddo del siderurgico tarantino. ”L’azienda ci ha appena comunicato la chiusura, pressoché immediata, di ‘tutta l’area attualmente non sottoposta a sequestro’ e ciò riguarda oltre 5000 lavoratori cui si aggiungerebbero a cascata, in pochi giorni, i lavoratori di Genova, Novi Ligure, Racconigi, Marghera e Patrica”. E’ quanto detto da dal segretario Fim Cisl Marco Bentivogli.
La Procura ha infatti sequestrato ‘coils’ e lamiere prodotti nelle ultime settimane in quanto li ritiene ‘provento e profitto di attività penalmente illecita’, quella cioé derivata dagli impianti dell’area a caldo, altiforni e acciaierie, che dal 26 luglio scorso sono sotto sequestro senza facoltà d’uso con l’accusa di disastro ambientale. L’Ilva, dicono i pm, non poteva produrre dopo il sequestro e il fatto che abbia continuato a farlo è un illecito. Di qui il blocco dei prodotti derivati da quest’attività. Per l’area a freddo, causa la crisi di mercato, l’Ilva aveva già fermato alcuni impianti nei giorni scorsi come il treno lamiere e il rivestimento tubi, ai quali si è aggiunto dalla fine della scorsa settimana anche il tubificio due. Per effetto di questa fermata 700 lavoratori sono in ferie forzate in attesa che l’Ilva definisca con i sindacati metalmeccanici un accordo sulla cassa integrazione ordinaria, già chiesta per 2mila unità. Adesso, invece, dopo il sequestro la società ha deciso di fermare tutta l’area a freddo e quindi più impianti. Si calcola che circa 5mila potrebbero essere i lavoratori coinvolti in questo stop.
Non solo chiusura: l’Ilva annuncia ricorso al sequestro
La società del gruppo Riva, dopo la clamorosa decisione, ha comunque annunciato ricorso al provvedimento di sequestro. La presa di posizione parte dal fatto che “Ilva non è parte processuale nel procedimento penale - si legge nella nota - ed è quindi estranea a tutte le contestazioni ad oggi formulate dalla Pubblica Accusa”. Non solo. La società, dopo aver ricordato “che lo stabilimento di Taranto è autorizzato all’esercizio dell’attività produttiva dal decreto del Ministero dell’Ambiente in data 26.10.2012 di revisione dell’AIA” ha sottolineato che “il provvedimento di sequestro di oggi si pone in radicale e insanabile contrasto rispetto al provvedimento autorizzativo del Ministero dell’Ambiente”. Da questa presa di posizione, quindi, deriva “l’impugnazione avverso il provvedimento di sequestro” e “nell’attesa della definizione del giudizio di impugnazione, ottempererà all’ordine impartito dal GIP di Taranto”.
La società: “A Taranto nessun rischio per la salute”
Infine la provocazione diretta ai magistrati, con la messa a disposizione da parte dell’Ilva delle consulenze attestanti la conformità dello stabilimento alle leggi anti-inquinamento. “Per chiunque fosse interessato - hanno comunicato i vertici dell’azienda - Ilva mette a disposizione sul proprio sito le consulenze, redatte da i maggiori esponenti della comunità scientifica nazionale e internazionale, le quali attestano la piena conformità delle emissioni dello stabilimento di Taranto ai limiti e alle prescrizioni di legge, ai regolamenti e alle autorizzazioni ministeriali, nonché l’assenza di un pericolo per la salute pubblica”. Ilva, infine, ha ribadito “con forza l’assoluta inconsistenza di qualsiasi eccesso di mortalità ascrivibile alla propria attività industriale, così come le consulenze epidemiologiche sopraccitate inequivocabilmente attestano”.
Taranto, tumori in aumento esponenziale. Ilva sotto accusa. Clini: si impone un programma straordinario di prevenzione
di Domenico Palmiotti *
TARANTO - Sono dati choc quelli che il ministro Renato Balduzzi presenta a Taranto e fotografano senza ombre quanto l’inquinamento industriale e dell’Ilva in particolare incida pesantemente sulla salute della popolazione locale. In particolare, ha precisato Balduzzi nei quartieri di Tamburi, Borgo, Paolo VI e nel comune di Statte. In base all’aggiornamento dello studio Sentieri condotto dall’istituto superiore di Sanità, nel periodo 2006-2007 Taranto registra per le malattie gravi un aumento del 30 per cento di tutti i tumori per gli uomini e del 20 per cento per le donne.
«I dati sui tumori e la mortalità impongono un programma straordinario per la prevenzione dei rischi ambientali e la protezione salute della popolazione», ha dichiarato il ministro dell’Ambiente Corrado Clini, commentando i dati del rapporto Sentieri su Taranto. documenti
Il Rapporto «Ambiente e salute a Taranto: evidenze disponibili e indicazioni di sanità pubblica» è stato presentato in conferenza stampa all’Ospedale SS. Annunziata della città pugliese. Sono intervenuti anche i responsabili dello studio, promosso dal Ministero della Salute e coordinato dall’Istituto Superiore di Sanità.
Colpiscono soprattutto i dati più dettagliati: per gli uomini +50 per cento di tumore maligno del polmone, +100 per cento di mesotelioma e di tumori maligni del rene, +30 per cento di tumore alla vescica, +40 per cento di tumore maligno del fegato. Nelle donne, invece, abbiamo +24 per cento di tumori al seno, +48 per cento del polmone, +75 per cento del fegato.
Analizzando invece la mortalità, sempre nello stesso periodo, le donne a Taranto registrano un eccesso dell’8 per cento della mortalità per tutte le cause e del 13 per cento per tutti i tumori. Gli uomini, invece, 14 per cento di mortalità in più per tutti i tumori, malattie circolatorie e per tutte le cause, mentre per i tumori polmonari esiste un 33 per cento in più e addirittura un 419 per cento in più per il mesotelioma pleurico (nelle donne, invece, il mesotelioma pleurico provoca un aumento del 211 per cento di decessi).
«Questo quadro è coerente con quanto emerso dai precedenti studi descrittivi ed analitici di mortalità e morbosità, in particolare la coorte dei residenti a Taranto nella quale, anche dopo avere considerato i determinanti socio- economici, i residenti nei quartieri di Tamburi, Borgo, Paolo VI e nel comune di Statte mostrano una mortalità e morbosità più elevata rispetto alla popolazione di riferimento, in particolare per le malattie per le quali le esposizioni ambientali presenti nel sito possono costituire specifici fattori di rischio».
Come se non bastasse già questo quadro impressionante, gli esperti dell’Istituto superiore di Sanità che affiancano il ministro, forniscono altri dati. Uno spicca su tutti: a Taranto la mortalità infantile nel primo anno di vita è superiore del 20 per cento rispetto al resto della Puglia.
«Non abbiamo certezza assoluta - dicono gli esperti dell’Istituto superiore di Sanità - sul nesso fra inquinamento, malattie e decessi, ma l’analisi degli studi e dei dati precedenti e anche la stessa letteratura scientifica, determina una forte suggestione che ci porta a evidenziare nella componente ambientale una delle cause principali».
«Sorpreso di questi dati? Un pochino sì - confessa il ministro Balduzzi -. Noi, però, questi dati non li abbiamo nascosti ma portati al tavolo per l’Autorizzazione integrata ambientale dell’Ilva e chiesto che le prescrizioni sanitarie venissero combinate a quelle ambientali. Siamo stati ascoltati, nel senso che quello che abbiamo chiesto è stato recepito nell’Aia. Entro un anno, quindi, bisognerà fare un riesame della stessa Aia e vedere se e come la situazione sta cambiando. La mia sensazione è che si debba fare di più». E in un incontro successivo con l’arcivescovo di Taranto, Filippo Santoro, Balduzzi sottolinea: «Io non appartengo a quella linea di pensiero che guarda con sospetto alla magistratura. Tutt’altro. Io guardo con fiducia alla magistratura».
Balduzzi giudica quindi Taranto come possibile punto di svolta rispetto a situazioni analoghe presenti nel resto del Paese, nel senso che, da ora in poi, la linea da seguire dovrà essere la valutazione ambientale strettamente intrecciata con quella della salute delle popolazioni interessate. Due intanto le azioni che Balduzzi mette in campo: un monitoraggio sanitario «sull’efficacia delle prescrizioni» (analizzando l’aspetto ambientale, il biomonitoraggio e la sorveglianza epidemiologica) ed un piano di prevenzione «generalizzata«. Il primo fa parte dell’Aia all’Ilva, il secondo, invece, dovranno attuarlo ministero della Salute, Regione e Aal di Taranto.
Unanimi le reazioni del mondo ambientalista tarantino: i dati di Balduzzi confermano le nostre denunce sulla pericolosità dell’inquinamento prodotto dall’Ilva. Il presidente nazionale di Legambiente, Vittorio Cogliati Dezza, chiede che i dati di Balduzzi siano uniti a quelli della valutazione del danno sanitario, introdotto in Puglia con una legge regionale del luglio scorso, e orienti le stesse prescrizioni dell’Aia.
In una nota ufficiale, l’Ilva rileva che «I dati dello studio "Sentieri" esposti lunedì dal Ministro Balduzzi richiedono un’attenta e approfondita analisi. Da una prima lettura emerge una fotografia che rappresenta un passato legato agli ultimi 30 anni e non certo il presente».
Taranto, rischio tumori noto già dal 1997
L’Oms: "Enti sapevano, non hanno fatto niente"
Uno studio dell’organizzazione mondiale della sanità aveva rilevato aumenti del 39 per cento della mortalità per tumore nell’area jonica. Faberi: "Assenza delle amministrazioni con azioni appropriate durata anni" *
Il ministro dell’Ambiente Corrado Clini non è il primo a richiedere l’aiuto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità per il monitoraggio della salute degli abitanti di Taranto. Già il suo predecessore Edo Ronchi ci aveva pensato, ma nonostante il risultato dello studio non fosse molto diverso da quelli che ora potrebbero portare alla chiusura dell’Ilva, non ci furono molte reazioni.
Il rapporto realizzato dal Centro Europeo Ambiente e Salute dell’Oms, che all’epoca aveva ancora sede a Roma, è intitolato ’Ambiente e Salute in Italia’, e dedica un capitolo alla città.
I dati esaminati vanno dal 1980 al 1987, e già in quel periodo avevano trovato per gli uomini un eccesso di mortalità per tumore del 10%, con punte per alcuni tipi di cancro, come quello della pleura, del 39%. Anche per le donne sono stati trovati eccessi di mortalità per tumore rispetto alla media regionale, soprattutto per la pleura e per il mesotelioma: "I dati di oggi erano emersi anche allora - spiega Michele Faberi, uno dei curatori insieme a Roberto Bertollini e Nicoletta Di Tanno, sempre dell’Oms - c’é stata un’assenza delle amministrazioni con azioni appropriate durata anni".
Lo studio ha trovato all’epoca una mortalità generale aumentata per gli uomini, dell’8% nell’area di Taranto, che comprendeva 4 comuni, che saliva all’11% nella sola città, mentre per le donne non era stato notato nessun incremento. La definizione di area ad elevato rischio ambientale era già stata ’guadagnata’ da Taranto nel 1990, mentre nel 1998 Taranto e Statte sono stati inseriti fra i primi 14 siti di interesse nazionale per la bonifica. Da un secondo studio dell’Oms tra il 1990 e il 1994, gli eccessi di mortalità sono risultati confermati, e in qualche caso come le malattie dell’apparato respiratorio sono addirittura peggiori.
Tutti i dati tra il 1995 e il 2002 sono poi confluiti nello studio Sentieri, più volte citato dallo stesso ministro Clini e utilizzato come base anche per la perizia che ha portato alla decisione del Gip di Taranto. Dai dati, pubblicati nel 2011 dalla rivista Epidemiologia e Prevenzione, era emerso nella zona "un eccesso di mortalità tra il 10 e i 15%".
* la Repubblica, 14 agosto 2012
Il giudice e la fabbrica
di Luciano Gallino (la Repubblica, 14 agosto 2012)
UNA funzione essenziale delle leggi consiste nell’impedire che il più forte abbia la meglio sul più debole. I giudici di Taranto nelNel caso di Taranto sembra accertato che la parte più forte, la proprietà dello stabilimento, abbia permesso che esso infliggesse da anni alla parte più debole, i lavoratori del sito insieme con l’intera popolazione della città, un tasso di inquinamento che i periti della Procura hanno ritenuto letalmente elevato. Nel caso di Pomigliano è comprovato, stando alla sentenza della Corte d’appello, che la Fiat abbia proceduto ad assunzioni discriminatorie, applicando il singolare principio per cui un’impresa assume soltanto quei lavoratori che abbiano in tasca una tessera ad essa gradita, o meglio nessuna.
Adesso ambedue le vicende sono giunte a un punto critico. I giudici di Taranto hanno disposto il blocco dell’attività produttiva sino a quando l’impianto non sia dotato di tecnologie antiinquinamento adeguate. Non si vede come avrebbero potuto decidere altrimenti. Un impianto siderurgico integrato tipo quello tarantino presenta due caratteristiche: tutti i suoi componenti, dal reparto sinterizzazione sino ai treni di laminazione, sono fortemente inquinanti; al tempo stesso non si può fermarne uno per metterlo a norma perché in un ciclo integrato fermare un componente significa bloccare tutti gli altri. Ma se si ferma tutto il sito circa 15.000 operai, tra diretti e indiretti, rischiano di restare senza lavoro. A Pomigliano quel che può succedere è che la Fiat metta in cassa integrazione un numero di nuovi assunti più o meno corrispondente agli iscritti alla Fiom che dovrebbe riassumere, visto che per gli attuali volumi produttivi, essa dice, gli addetti attuali sono più che sufficienti. In ambedue i casi, siamo da capo: la tutela della legge che i giudici hanno offerto ai più deboli rischia di essere vanificata.
Non si è qui dinanzi soltanto alle responsabilità del più forte, per quanto queste siano grandi. Nessuna delle due vicende sarebbe arrivata al punto in cui è oggi se i governi che si sono succeduti negli ultimi anni; i ministeri competenti, in specie quelli dell’Ambiente e dello Sviluppo (o dell’Industria, come si chiamava un tempo); nonché i partiti ieri contrapposti e oggi alleati nel sostenere il governo cosiddetto dei tecnici, non avessero dato in qualche modo un aiuto alle società coinvolte per aver mano libera o quasi nei loro siti produttivi.
Che l’impianto di Taranto inquinasse dentro e fuori dei suoi cancelli era risaputo da anni. Senza risalire troppo indietro, basterà ricordare che l’Arpa della Puglia aveva trasmesso al ministero dell’Ambiente, nei primi mesi del 2008, un documentato rapporto circa i rischi derivanti dalla diffusione di sostanze velenose provenienti dall’impianto in questione. Tuttavia una lettera del ministero all’Arpa in data 8 agosto 2008 affermava seccamente che le rilevazioni effettuate a cura dell’agenzia non potevano essere ritenute valide. Non proprio una licenza di inquinare, ma in ogni caso un efficace contributo per perdere altri anni prima di intervenire.
Quanto a Pomigliano, è probabile che la Fiat non avrebbe osato attuare le sue pratiche discriminatorie se le cosiddette riforme del lavoro susseguitesi sin dai primi anni 2000, le posizioni dei partiti ancorché definitisi di centro-sinistra, più tambureggianti campagne mediatiche, non avessero fatto tutto il possibile per spingere in un angolo la Cgil e la Fiom come rappresentanti di un sindacato capace ancora di dire no, almeno ogni tanto, alle richieste sempre più intrusive dei diritti dei lavoratori avanzate dalle imprese. Sarebbe inaudito veder buttare fuori dalla fabbrica tanti operai quanti l’azienda deve riassumerne in forza della sentenza di appello. In gioco qui non è tanto il destino dei singoli, quanto un principio basilare della democrazia industriale.
Mentre a Taranto si tratta soprattutto di salvare il lavoro di migliaia di operai, davanti una disposizione dei giudici che a fronte delle responsabilità grandissime delle imprese e dei politici appare doverosa prima ancora che pienamente giustificata. Per farlo occorrono non soltanto soldi, che oltre allo stato la proprietà dovrebbe tirare fuori anche di tasca propria a fronte degli utili degli ultimi anni (le stime parlano di miliardi), ma anche invenzioni organizzative. Come, ad esempio, adibire gran parte dei lavoratori stessi ai lavori di ristrutturazione ambientale dello stabilimento.
Nessuno conosce quell’impianto meglio di chi ci lavora; e molte professionalità potrebbero essere utilizzate nei lavori di ristrutturazione con un periodo relativamente breve di formazione. Su questo punto non è ammesso dire che non è possibile, prima ancora di approfondire la questione. Quel che non sembrava possibile, consentire all’impianto tarantino di avvelenare insieme i suoi addetti e la popolazione, lo stato e i suoi ministeri lo hanno già fatto. Ora hanno il dovere di imboccare al più presto la strada opposta, quella di un’opera di risanamento che non fa pagare il prezzo per una seconda volta ai lavoratori e alla città.
Appello
ILVA: l’Italia deve sapere
ILVA: l’Italia deve sapere. Adesioni a olivier.turquet@gmail.com
Agosto è un momento classico dove l’attenzione agli eventi declina inevitabilmente. Ma non è il caldo torrido di questo agosto che ci preoccupa. Ci preoccupa che la vicenda di Taranto venga compresa in tutti i suoi aspetti e che i cittadini italiani siano informati su quello che sta succedendo.
In questo senso chiediamo a noi stessi come persone implicate nell’informazione e nella società civile, e a tutti i media, il cui dovere è dare gli elementi di giudizio ai loro lettori:
la più ampia informazione sull’azione della magistratura
il resoconto delle posizioni in campo sui problemi della salute, dell’occupazione e della qualità della vita di quella martoriata città
la massima informazione sugli elementi tecnici della questione dell’ILVA e sulle sue possibili soluzioni
Dobbiamo purtroppo sottolineare che questi elementi essenziali sono stati spesso disattesi in questi giorni da molti mezzi di informazione e, sopratutto, dagli stessi attori della questione che hanno rilasciato dichiarazioni e diffuso notizie inesatte o evidentemente errate.
Vorremmo anche denunciare una campagna di discredito dell’azione della Magistratura; alla Magistratura di Taranto, al suo attento e scrupoloso operato vanno la nostra solidarietà e il nostro rispetto; vorremmo manifestare, come persone, la nostra vicinanza alla gente di Taranto, in particolare a chi ha perso una persona cara, a chi è malato, a chi teme per il suo posto di lavoro come per la vita dei suoi figli.
Chiediamo al Governo di riflettere sugli eventi in corso e di lavorare, nel più breve tempo possibile, per una soluzione che abbia come priorità la difesa della salute, il diritto a un lavoro degno e non pericoloso, la qualità della vita urbana, il rispetto e la cura dell’ambiente.
Primi firmatari:
Olivier Turquet, Italia, caporedattore di Pressenza, www.pressenza.com
Pia Figueroa, Cile, Direttrice di Pressenza, www.pressenza.com
Mao Valpiana, Italia, Direttore di "Azione nonviolenta"
Silvia Cattori, Svizzera, giornalista indipendente, www.silviacattori.net
Biagio De Marzo, Italia, presidente dell’associazione "ALTAMAREA contro l’inquinamento - Coordinamento di cittadini, associazioni e comitati di volontariato sanitario, ecologista, civico e sociale della provincia di Taranto".
Laura Tussi, Italia, giornalista e docente, PeaceLink
Fabrizio Cracolici, Italia, PeaceLink
Gruppo Comunicazione di Per Una Lista Civica Nazionale www.perunalistacivicanazionale.it
Dario Lo Scalzo, Italia, giornalista e scrittore
Gianni Principi, Italia, Lista Civica Voce alla Città
Fabio Pimpinato, Italia, Direttore Unimondo www.unimondo.org
* Il Dialogo, Venerdì 17 Agosto,2012
Metti a Taranto Erin Brockovich
di Nadia Urbinati (la Repubblica, 18.08.2012)
ERIN Brockovich, l’eroina della class action immortalata da Julia Roberts, era una segretaria precaria (e madre sola di tre bambini) di un piccolo studio legale quando cominciò a indagare sulla Pacific Gas and Electric Company, il colosso americano produttore di energia che da anni contaminava le falde acquifere di un paesino californiano provocando tumori e gravissime malattie ai residenti, infine inquinando prove e cercando, trovandole, sponde solide tra funzionari pubblici compiacenti. L’azione legale di gruppo che quell’indagine produsse fu memorabile.
Per la prima volta l’accusa di malgoverno di un’azienda privata comportò il riconoscimento di responsabilità con un indennizzo miliardario alle vittime (circa settecento persone). Un esito che fece giustizia senza provocare la chiusura dell’impianto, come la direzione aveva paventato. La mole di documenti portati dalla Brockovich davanti al giudice non riuscirono a provare con certezza scientifica l’esistenza di una relazione causale diretta tra inquinamento e malattie. Ma la ricorrenza dei tumori e la sola vista di quel villaggio insalubre (dove i dirigenti della PG&E dissero che non avrebbero mai voluto vivere) furono sufficienti agli occhi del giudice per decretare la responsabilità della compagnia.
Senza aver studiato né filosofia né diritto, Erin Brockovich ebbe subito ben chiaro il quadro, ovvero che due sono gli ostacoli maggiori alla giustizia in questi casi: le connivenze e le coperture colpevoli di cui i potenti godono, e l’ideologia che l’opinione pubblica fa passare secondo cui in questi casi ci si trova di fronte a un conflitto irrisolvibile tra valori fondamentali come la vita e il lavoro, similmente a una tragedia greca dove nessuno è responsabile se non l’umanità stessa, per la sua fallibilità e l’incapacità di vivere in armonia con le leggi della natura. Brockovich era riuscita a smascherare le connivenze e a confutare questa filosofia cercando di dare un senso alla massima secondo la quale «la legge è uguale per tutti». Corruzione e incuria erano stati per anni la pratica perpetrata da parte di coloro che avevano la possibilità e il dovere di intervenire.
L’Ilva non è la Pacific Gas and Electric Company, e il gip di Taranto Patrizia Todisco non è una nostrana Erin Brockovich. L’oggetto del contendere del resto non è il rimborso per i danneggiati dal malambiente dell’Ilva, ma il risanamento dello stabilimento. Tuttavia la dinamica dell’inquinamento, dell’occultamento delle prove, della manipolazione dei dati e del ricatto sul lavoro è pressoché la stessa. I casi di inquinamento sono casi di corruzione e di illegalità a tutti gli effetti. Ora sappiamo che l’inquinamento c’è all’Ilva e c’è stato per anni, fin da quando l’azienda era di proprietà dello Stato. E più i giorni passano più ci avvediamo delle colpevoli responsabilità che coinvolgono l’intera filiera decisionale, a partire dai proprietari dell’azienda fino ai tecnici che dovevano accertare e raccogliere dati veritieri e ai funzionari pubblici. Fumi e fanghi, dentro e fuori l’Ilva.
E poi, incidenti per anni, fino al più recente. Porta la data del febbraio del 2012. Un grosso incendio si sviluppò in un’area dello stabilimento producendo una colonna di fumo visibile a chilometri di distanza e diversi intossicati. Il Sindaco di Taranto, sulla scorta della perizia svolta dagli esperti incaricati dal Giudice Patrizia Todisco, ordinò all’Ilva di eseguire entro trenta giorni lavori volti alla riduzione dell’immissione di fumi e polveri, comminando, in caso di mancato adempimento, la sospensione totale degli impianti. In quell’occasione il Comitato Donne per Taranto diramò il seguente appello: «Se doveste avere problemi respiratori, vomito, bruciori alle mucose, tosse recatevi subito al pronto soccorso.. Il consiglio è tenere finestre e porte ben chiuse e sigillate».
Un lungo ciclo di incurie alla fine del quale è giunta la magistratura. Di fronte al rischio di chiusura della produzione si ricorre, prevedibilmente, al ricatto del lavoro. E si getta un’ombra inquietante sull’intervento della magistratura. Ma non è l’intervento della legge all’origine del conflitto tra lavoro e salute. L’intervento della legge mette semmai a nudo svelandolo all’opinione nazionale uno stato di incuria colpevole che dura da anni. La carenza di cura per l’ambiente di lavoro, per la città, per la natura, ha generato questa situazione d’emergenza. Incuria ed emergenza sono fenomeni tra loro concomitanti, una sequenza alla quale il nostro Paese sembra abituato, non solo nel settore industriale, e che lascia strascichi drammatici e polemiche inutili e dannose (spingendo l’opinione pubblica a schierarsi addirittura pro o contro la legge) invece di favorire soluzioni giuste (che non vuol dire facili e indolori) e in tempi rapidi.
Lasciare che le cose procedano fino al punto in cui la legge non può più tacere - questa è la responsabilità immane che porta ad emergenze come questa. Chi non ha preso le decisioni che doveva prendere, o le ha prese malamente, ha lasciato la patata bollente alla magistratura. Salvo poi accusarla di aver applicato la legge. La quale, come ha giustamente scritto Luciano Gallino su questo giornale, ha tra le sue funzioni essenziali quella di “impedire che il più forte abbia la meglio sul più debole», chi può danneggiare su chi può solo essere danneggiato. E il più forte è in questo caso chi ha lasciato che le cose procedessero così, con il minor dispendio possibile di risorse. Accusare la legge di generare conflitti insolubili è un assurdo e quanto di più sbagliato si possa fare perché essa interviene proprio perché il conflitto è giunto a un punto tale da non consentire più accomodamentiper vie ordinarie.
L’intervento del magistrato è giunto dopo che le scelte ambientali hanno fallito o sono state lasche o colpevoli. Porta alla luce un problema di incuria che è reale e che gli interessi di chi è più forte cercano di smorzare, magari servendosi del penoso argomento della crisi economica e del rischio all’occupazione, infine del conflitto tragico tra lavoro e vita - come se chi lavora sia per necessità votato a rischiare la vita. Ma se conflitto c’è questo è un conflitto di interessi che ha per protagonisti cittadini molto ineguali in potere e che la legge cerca di riequilibrare nel dovere di non arrecare danno o di riparare ai danni fatti. E come scrive Gallino, niente è più irrazionale che insistere con il ricatto del lavoro anche perché recuperare e ristrutturare l’impianto tarantino è esso stesso un lavoro che può essere meglio svolto da coloro che dall’interno conoscono quell’impianto. Anche perché, c’è da aggiungere, è irrazionale e non nell’interesse nazionale pensare di conquistare le commesse straniere facendo credere al mondo che da noi si può danneggiare ambiente e salute.
Inchiesta Ilva, intercettazioni choc
"Dobbiamo pagare tutta la stampa"
L’Ilva di Taranto
I pm : così l’azienda ha tentato
di alterare i dati
dell’inquinamento ambientale
di GUIDO RUOTOLO (La Stampa, 04/08/2012)
TARANTO. Un dirigente dice a un altro: «La stampa dobbiamo pagarla tutta». I pm si presentano con un faldone di intercettazioni. Che compromettono pesantemente le posizioni degli indagati, lo staff dell’Ilva di patron Emilio Riva. Che dimostrano l’inquinamento probatorio, e cioè il tentativo di alterazione dei dati sulla emissione dei veleni prodotti dallo stabilimento. Ci sono intercettazioni in cui l’Ilva chiede conto al direttore dell’Arpa, Giorgio Assennato, dei risultati di una campagna di rilevamenti.
Questo avviene nel giorno in cui l’Ilva si presenta al Riesame (con il suo nuovo presidente Bruno Ferrante) perché vuole contestare le conclusioni a cui è giunta l’accusa. L’udienza fiume iniziata alle 9 del mattino in un clima surreale, con il Tribunale completamente isolato dalle forze dell’ordine, e un corteo “solidale” con gli imputati bloccato dallo stesso presidente Ferrante che non intende più «manovrare» i suoi dipendenti, e si è conclusa alle 9 di sera. I giudici hanno tempo fino al 9 agosto prima di decidere sulla scarcerazione degli indagati e sul dissequestro degli impianti.
Udienza drammatica di un’inchiesta giudiziaria dagli esiti imprevedibili, perché il Riesame potrebbe confermare il sequestro degli impianti e far accelerare le procedure di spegnimento degli impianti, rompendo così quell’«armonia» costruita tra Bari e Roma di attiva convergenza tra governo, regione, azienda ed enti locali.Nel giorno in cui Palazzo Chigi nomina un commissario per bonificare Taranto, l’acciaieria più grande d’Europa rischia la chiusura se la proprietà non rispetterà le prescrizioni stabilite dal gip Todisco.
«Non ci dormo la notte al pensiero che 20.000 persone rischiano di non lavorare più». Francesco Sebastio, procuratore di Taranto, in una pausa del Riesame, risponde alle domande dei giornalisti. Mentre un legale degli imputati commenta amaro: «Dopo sei ore di discussione, le posizioni sono cristallizzate. Non si fanno passi avanti».
I legali dell’Ilva si presentano con le memorie e controperizie da depositare: «Lo stabilimento Ilva di Taranto esercisce nel pieno e indiscusso rispetto di una legittima Autorizzazione integrata ambientale, emessa dalla competente pubblica amministrazione nell’agosto 2011. Anche le contestazioni elevate in passato non hanno mai individuato presunti sfondamenti dei limiti di emissione. Dal 1998 al 2011 lo Stabilimento Ilva di Taranto ha investito, solo in tecnologie finalizzate alla tutela dell’ambiente e della salute, circa un miliardo e centouno milioni e 299 mila euro, pari al 24% degli investimenti totali. Le polveri? I livelli di Taranto sono considerevolmente inferiori a quelli medi annui registrati nelle aree urbane del Nord Italia, e anche a Firenze o Roma».
Insomma, una radicale contrapposizione rispetto ai dati emersi dall’incidente probatorio, i cui esiti, dice il procuratore Sebastio, sono ormai «una prova del processo». Naturalmente il «processo» avviene nell’aula del Tribunale del Riesame. E le affermazioni di accusa e difesa raccolte nei corridoi del Tribunale ne sono una fedele rappresentazione. Sebastio sostiene che la ricostruzione della memoria dell’accusa fatta ai giudici dal pm Buccoliero è molto netta: «L’Ilva sostiene di aver rispettato i parametri indicati dall’Aia, dall’Autorizzazione integrata ambientale. In realtà l’Aia fa riferimento alle emissioni convogliate, cioè quelle che escono dal camino E 312. Ma noi invece abbiamo dimostrato che il problema è rappresentato dalle emissioni diffuse (parchi minerari) e fuggitive. In un anno i controlli effettuati sono stati soltanto tre e preavvisati. Occorrono campionamenti continui. Dove sono stati scaricati i sacchi di diossina presi e caricati a spalle?».
In mattinata il procuratore aggiunto Pietro Argentino aveva presentato un’istanza per spostare a metà settembre la decisione sul sequestro dello stabilimento. Istanza respinta dal Riesame per gli evidenti «rilevanti interessi socio economici» che impongono una decisione immediata. L’accusa si è rivolta ai giudici del Riesame con un quesito: «A Genova è sorto lo stesso problema di Taranto. Tra il 2002 e il 2005 l’area a caldo è stata sequestrata (ottenendo le conferme del Riesame e della Cassazione) ed è stata trasformata in area a freddo. Perché non si può fare la stessa cosa a Taranto?».
La nuova Ilva di Bruno Ferrante è ottimista. Anche se quelle intercettazioni telefoniche depositate ieri mattina sono compromettenti, l’importante è guardare al futuro, voltare pagina. Che ha deciso di ritirarsi da tutti i contenziosi sollevati, e con la presenza del suo presidente Ferrante nell’aula del Riesame conferma la volontà di difendersi «nel processo e non dal processo».
Inquinamento ideologico
di Loris Campetti (il manifesto, 03.08.2012)
Il problema può essere di principio, ma può anche non esserlo perché l’analisi marxista della realtà non è obbligatoria. Dire che la colpa è sempre del padrone a qualcuno, magari anche tra i nostri lettori, potrebbe apparire come un pregiudizio ideologico. Allora mettiamola così: ovunque arrivi il padrone dell’Ilva esplode la zizzania tra i lavoratori e, soprattutto, tra i lavoratori e la popolazione vittima dei fumi di Emilio Riva. Ieri è successo a Genova, oggi si ripete a Taranto. Sentire, al termine di una grandissima e difficile manifestazione che tentava di unire i diritti al lavoro e alla salute, i leader di Cisl e Uil che per difendere il diritto al lavoro si schierano al fianco del padrone, oppure ascoltare il capo dell’Ilva che "difende" i lavoratori in sciopero dalle contestazioni, dà il segno di un inquinamento ideologico che si somma a quello, devastante, ambientale.
L’Ilva avvelena chi lavora e chi vive intorno al suo insediamento innanzitutto perché il profitto è stato e resta l’unico parametro di riferimento. Il profitto a tutti i costi, al massimo risparmio, è all’origine del disastro ambientale di Taranto come lo è stato precedentemente di altre città. Se si risparmia sulla sicurezza, sul risanamento dei guasti provocati al territorio nel corso di decenni, se si rinviano le ristruttuzioni del ciclo lavorativo per renderlo compatibile con l’aria che si respira, le cozze che si mangiano, l’erba di cui si nutrono le pecore, perché stupirsi della strage perpetrata dentro e fuori dalle lavorazioni a caldo di Emilio Riva?
Quei sindacati che solidarizzano con Riva e se la prendono con la magistratura, così come coloro che ieri contestando la manifestazione di Taranto scaricavano tutte le colpe sui sindacati, hanno perso di vista il responsabile principale della tragedia.
La magistratura arriva per coprire i buchi lasciati aperti dalla politica e dalle istituzioni, che rappresentano il secondo responsabile della crisi di Taranto.
Esistono, certo, anche responsabilità sindacali per aver concesso troppo al padrone, per aver subito il ricatto di una scelta insensata tra diritto al lavoro e diritto alla salute, per aver accettato scambi inaccettabili con la controparte naturale. Non tutti: i delegati Fiom venivano licenziati per gli scioperi organizzati in difesa della salute e per il miglioramento del ciclo produttivo. Se una colpa esiste, ed esiste, di una parte del sindacato, è di aver rinunciato alla sua autonomia. Accusare la Fiom, come fanno Cisl e Uil, per i disordini di ieri che hanno impedito alla Fiom stessa e alla Cgil di parlare, non è un errore ma il prodotto di un imbarbarimento culturale.
Difendere il lavoro e l’ambiente è possibile se si ha un progetto di riqualificazione e di riconversione della produzione, reso ancora più urgente dalla crisi. L’obiettivo sarebbe più vicino se la politica, la sinistra, si occupassero di questi problemi e se il governo si assumesse le sue responsabilità, invece di ripetere come un mantra che gli imprenditori hanno il diritto di decidere da soli come, cosa e dove produrre per fare più utili.
La qualità della vita non è un’opinione
di Sarantis Thanopulos (il manifesto,04.08.2012)
La rivolta degli operai dell’Ilva di Taranto contro la chiusura del loro stabilimento, che danneggia gravemente la loro salute e quella dei loro concittadini, ha un significato sinistro per l’avvenire di tutti. Non perché fa balenare la prospettiva di un’alleanza tra imprenditori e lavoratori che metta la difesa dell’occupazione in contrasto con la difesa dell’ambiente. Questa prospettiva è stata indicata da Asor Rosa ed è tutt’altro che irrealistica. A voler essere precisi non si tratta di una prospettiva nuova ma di una contraddizione antica mai effettivamente risolta che ritorna con una brutalità imprevista a distruggere le illusioni di uno sviluppo ecosostenibile, che sono state il frutto più dell’ottimismo di una volontá "politicamente corretta" che della ragione (che avrebbe diversi motivi per essere pessimista).
La globalizzazione ha reso evidente che il futuro del mondo non si giochi nei pochi paesi dell’Europa in cui la difesa dell’ecosistema ha fatto passi incoraggianti e innegabili. La crisi economica sta rimescolando le carte in modo tale che la regressione verso politiche di sviluppo devastanti per l’ambiente e per i diritti dei lavoratori (e, per estensione automatica, di tutti i cittadini) non appare un’ipotesi ardita. Scaricare sulle spalle dei lavoratori la responsabilità di eventi che mettono loro con le spalle al muro, minando perfino, a lungo andare, la loro salute, è la tentazione che può prevalere in tanti, seppure in modo non del tutto consapevole. In una società in cui i sindacati sono impediti nella loro funzione di agenti dell’interesse generale e spinti inesorabilmente verso una prassi di difesa dei posti di lavoro di breve respiro la responsabilità è del governo e delle forze politiche.
Perché la cosa che diventa sempre più evidente è l’irrazionalità del sistema capitalistico che lasciato privo di contrasto, di antagonismo e di controllo produce disperazione e disordine. La vicenda di Taranto è emblematica non per il tradimento possibile dell’interesse collettivo da parte della classe operaia ma perché evidenzia, nel modo più drammatico, il suicidio della qualità della nostra vita a cui ci costringe un sistema di produzione basato su parametri quantitativi sempre più astratti dai nostri desideri e sempre più avversi al loro appagamento. Dobbiamo prima di tutto mangiare affermano alcuni operai a Taranto e non molto diversamente da loro direbbero le popolazioni affamate dei paesi della periferia del sistema capitalistico.
Qualsiasi compromesso di fronte alla propria sopravvivenza fisica non potrebbe che essere lecito sul piano individuale ma sul piano della coscienza collettiva produce smarrimento l’accumulo di una ricchezza di risorse materiali mai vista prima che tende ad affamare più che a sfamare l’umanità. Il vero contrasto non è tra operai (interesse corporativo) e magistrati (interesse collettivo) o tra bisogni materiali elementari e bisogni materiali più evoluti (meglio morire di cancro tra molti anni che morire di fame oggi ha detto un operaio). La gestione puramente quantitativa dell’interesse collettivo, la sua completa sottomissione alla logica dei numeri, è in rotta di collisione con la razionalità della nostra esistenza, produce povertá materiale per i molti e infelicitá affettiva per tutti. La qualità della vita non è una scienza esatta ma non è un’opinione.
Il grande ricatto tra lavoro e salute
di Guglielmo Ragozzino (il manifesto, 27.07.2012)
Cosa avrà deciso ieri pomeriggio il gip Patrizia Todisco? Avrà davvero firmato «il provvedimento di sequestro (senza facoltà d’uso) degli impianti dell’area a caldo dell’Ilva di Taranto, oppure avrà accolto i miti, unanimi consigli di governo, padronato, sindacato metalmeccanico, ricamati sul giornale della Confindustria? Si sarà fidata dei mediatori della Regione? Per una volta, il giornale non aveva rampogne, ma comprensione e sostegno ai lavoratori che bloccavano le strade nazionali e il centro della Città, si addensavano intorno alle sedi della giustizia e della politica, per difendere il proprio lavoro e insieme l’azienda e i proprietari Riva. Dal canto loro, i verdi - il presidente Bonelli è consigliere comunale a Taranto - descrivono una città divisa tra gli operai e chi non vuole morire di cancro.
Se i sindacati vogliono «fare presto», è per prendere la guida delle manifestazioni ed evitare che la situazione degeneri e diventi ingovernabile: in effetti si aspettano che la decisione del gip sarà contro di loro. I lavoratori sanno che il fermo dell’area a caldo bloccherà l’intera acciaieria e quindi porterà in un breve futuro al loro licenziamento; altre prospettive di lavoro - a Taranto! - non riescono a immaginarne. Tanto meno riescono a immaginare una città o forse un civiltà prive del loro prodotto, del loro orgoglioso lavoro: fare acciaio, base di tutto il resto che esiste al mondo. Riva è un pessimo padrone, dicono i metalmeccanici; ma spetta a noi dirlo, a nessun altro. Per competente che sia, un giudice non può condannare Riva e costringerlo a chiudere la fabbrica. La fabbrica è anche nostra che lavoriamo, che viviamo lì dentro. «Noi non meritiamo condanne».
D’altra parte la fabbrica di Riva è pericolosa da sempre e sono gli operai i primi a morirne. Nell’udienza preliminare di maggio per 30 dirigenti dell’Italsider, vecchio nome, poi mutato in quello ancora più vecchio di Ilva, risuona l’accusa di aver provocato la morte di 15 operai facendoli lavorare senza protezione in ambienti di gas tossici e amianto.
La risposta, a nome di tutti difensori della «fabbrica siderurgica più grande d’Europa», la fornisce in un’intervista lo stesso ministro dell’ambiente Clini che una volta di più parla all’incontrario su Il Sole 24 Ore: non si può condannare uno per vicende passate. «L’Ilva di Taranto non va fermata. Il giudizio sui rischi connessi ai processi industriali dello stabilimento va attualizzato». Qualche mese prima, in gennaio, dalla perizia veniva anche un’accusa un po’ diversa. Emergeva «la quantità rilevante di polveri rilasciata dagli impianti, anche dopo gli interventi di adeguamento».
Uno Stato padrone di sé avrebbe imposto un ciclo di riconversione degli impianti, con molti lavori in cui impiegare lavoratori competenti per tutto il tempo necessario. Il nostro Stato è pezzente e incatenato; quel poco che aveva lo ha ceduto all’Europa che lo costringe a non fare niente e poi lo rimprovera per non avere fatto niente. Possiamo sperare che un giudice più potente rovesci la decisione di Patrizia Todisco e si dia così, secondo il modello consueto, «tempo al tempo»?
ILVA: i corni del dilemma
di Rossana Rossanda (il manifesto, 31.07.2012)
«Purché le due cose - difesa dell’occupazione e difesa dell’ambiente - vengano fatte insieme». Così scrive Alberto Asor Rosa, in occasione del dilemma fra chiudere l’Ilva smettendo di contaminare la zona o lasciarla aperta contaminandola. E ricorda che un dilemma simile si era verificato in val di Chiana, sul riuso di uno stabile dismesso, proposto da un’impresa che si occupava di biomasse e che aveva visto gli ambientalisti chianini disturbati da una invasione di disoccupati che volevano lavoro.
Giusto dunque operare insieme per lavoro e natura. Ma a chi si parla? Mi si permetta di protestare quando ci si rivolge, in ugual modo, alla proprietà e agli operai e ai loro sindacati. È un pezzo che anche questi sono accusati di essere stati "sviluppisti", e quindi avvelenatori del pianeta, anche da parte di noti padri della patria. Come se fossero loro a decidere se aprire o chiudere una fabbrica, e a determinarne le linee e l’organizzazione della produzione, nonché la distribuzione. Ma non sono loro affatto! Non essendo in condizioni di investire, può investire e decidere su che cosa produrre sempre e solo la proprietà del capitale. Agli operai non resta che afferrare un salario, se se ne presenta la possibilità, vendendo la propria forza di lavoro; salario con il quale vivono, non avendo altri redditi, e del quale quindi non possono fare a meno. La fabbrica inquina o, peggio, infetta? Non sono loro né a infettare né a smettere di infettare, non hanno scelta se non combattere, come hanno fatto al Petrolchimico di Marghera.
Ma è difficile chiedere loro di cambiare l’azienda, da cui traggono quel misero salario in cambio di niente. Ed è perfettamente ipocrita chiedere loro di produrre pulito, produrre ecologico. Essi non hanno scelta, e se sono messi davanti a quella di perdere il lavoro o rischiare di avvelenarsi, rischieranno prima di avvelenarsi, salvo battersi poi per rischiare di meno. Non possono fare altrimenti.
Per questo non parlerei di alleanza fra operai e capitale. Nella difesa di una produzione sporca, gli operai non sono "alleati" con la proprietà sono "ricattati" dalla proprietà. Quando Viale o altri dicono: si produca meno o si passi a una produzione ecologicamente sana, si cessi di inquinare il pianeta, a chi parlano? Seriamente? Seriamente possono parlare soltanto alla proprietà, privata o pubblica, diretta o per azioni, nazionale o multinazionale, e solo ad essa, i salariati non potendo decidere né che cosa né come né dove produrre. Sì, qualche volta hanno cercato di farlo, come nel ’69, ma sono stati sconfitti dai padroni, dal governo, dalla stampa, in nome della democrazia, e la loro lotta è stata subito dopo resa sempre meno possibile dai licenziamenti in massa che sono seguiti. Chi si ricorda che la Fiat aveva allora 129.000 dipendenti? Ora, ci informa Gabriele Polo, ne ha circa 15.000. L’operaio è meno di un uomo libero, lo è meno di un altro cittadino.
Da un mese a questa parte, dopo la vittoria dei socialisti in Francia - socialisti, non bolscevichi, anzi un po’ meno di socialdemocratici delle origini - il padronato dichiara in difficoltà una dozzina di grandi imprese. E ristruttura. Licenziando. Esempio: la Psa automobili (Peugeot +Citroen) ha annunciato ottomila "esuberi", tra l’altro chiudendo del tutto il sito di Aulnay, alla periferia di Parigi, del quale ha occupato più di metà della superficie. Poiché per un occupato nell’automobile licenziato si calcolano altre quattro perdite di posti di lavoro (dal panettiere, macellaio, fruttivendolo del sito, all’indotto vero e proprio) la Psa decide dunque di aumentare i disoccupati di circa 35.000 persone. Il governo protesta, e si dichiara disposto a una serie di aiuti soltanto a condizione che la Psa imposti la produzione in vetture elettriche, riducendo il noto inquinamento della benzina o diesel. Zac, il presidente del consiglio d’Europa, Rompuy, assieme all’altra testa fina che dirige la Commissione, Manuel Barroso, aprono un’inchiesta se ha diritto di farlo o no, per le conseguenze che questa condizione potrebbe avere sul mercato. L’altra grande azienda automobilistica, la Renault, che ha probabilmente commesso meno errori nella produzione, ha fatto in questi giorni un contratto con la Corea per le batterie che le servono per la medesima, il governo si dice d’accordo, ma a condizione che la proprietà coreana produca in Francia. Apriti cielo, protezionismo!
Nessuno osa dire in questo luglio fatale: menomale che meno automobili escono dalla fabbrica. Fanno troppo spavento le facce stravolte di chi ha lavorato dieci o venti anni per Peugeot o Citroen e si sente dire di colpo che sarà licenziato, e sa che di lavoro difficilmente può trovarne un altro. Ma nessuno neanche dice che i responsabili di questo disastro umano, e del peso che ne deriverà per i conti pubblici, sono i signori del Cac 40, le proprietà quotate in borsa. I "mercati" sembrano incorporei, quanto per il Vaticano lo spirito santo, che come loro spira dove vuole.
Si deve essere ecologisti. Ma quindi anticapitalisti. O, come minimo, sostenitori di una primazia del pubblico sull’economico, in modo da determinarne l’indirizzo e la non dannosità per l’ambiente. Perché non si dice anche questo? Perché dal 1989 in poi non si ha più coraggio di dire nuda e cruda la verità sul meccanismo dell’impresa del capitale, nonché sulla rinuncia della sfera politica, continentale o nazionale, a controllarle.
Per l’Ilva, come qualche anno fa per la val di Chiana, non c’è dilemma fra lavoro e ambiente, c’è un sistema di proprietà, accettato dalle ex sinistre, che distrugge l’uno o l’altro, o tutti e due.
Così tramonta un simbolo dell’industria italiana
di Luciano Gallino *
L’acciaio è un materiale composto soprattutto di ferro, nonché di carbonio in misura inferiore al 2 per cento, più una dozzina di altri elementi presenti in una misura che varia da una frazione millesimale (il molibdeno) a oltre il 10 per cento (il cromo). Ha molte caratteristiche positive. Se si varia il tenore dell’uno o dell’altro elemento, si ottengono migliaia di tipi di acciaio dalle prestazioni diversissime quanto a elasticità, capacità di sopportare carichi oppure urti, resistenza alla corrosione, modalità di lavorazione. Grazie alla sua natura proteiforme, l’acciaio è presente ovunque, dalle mollette dei cellulari alle arcate dei viadotti ferroviari e stradali, dalle carrozzerie di auto ed elettrodomestici allo scafo delle navi, dagli strumenti chirurgici alle ruote dei treni. Possiede inoltre la virtù di essere riciclabile senza fine. Presenta però anche, l’acciaio, una caratteristica negativa: la sua produzione è altamente inquinante. Gli impianti siderurgici sono capaci di diffondere sia al proprio interno sia per chilometri quadrati attorno a sé grandi quantità di polveri a grana grossa oppure sottili, più ogni sorta di fumi visibili e di veleni invisibili, dal benzopirene alla diossina. Il maggior problema per l’abbattimento del grado di inquinamento deriva dal fatto che in pratica ciascuno dei tanti pezzi di un impianto contribuisce per conto suo all’inquinamento. In misura variabile diffondono polveri, fumi e veleni le cokerie quanto gli altiforni, la laminazione a caldo quanto quella a freddo, le fornaci elettriche quanto i convertitori.
Al fine di ridurre l’inquinamento sono state seguite nel mondo tre strade. La prima consiste nello sviluppare tecnologie specifiche per abbattere l’inquinamento nel punto preciso dell’impianto in cui si genera. È una strada piuttosto costosa. Un’altra strada è consistita nel costruire impianti più piccoli, le cosiddette mini-acciaierie, che di per sé inquinano meno e costano meno in tema di prevenzione. Esse presentano tuttavia il difetto di non poter produrre molti tipi di acciaio che invece riescono bene nei grandi impianti integrati. Ampiamente
praticata è poi la terza strada, in specie nei paesi emergenti, ma non soltanto in essi. In questo caso la proprietà, spesso con l’assenso del governo nazionale o locale, trasmette per vie dirette o indirette un messaggio: se volete posti di lavoro e reddito, dovete sopportare senza fare storie quel po’ di inquinamento che il nostro impianto genera.
A fronte di queste premesse, dal caso dell’acciaieria di Taranto si possono trarre varie lezioni. Una è locale. Che lo stabilimento sorto a ridosso della città fosse molto inquinante lo si sapeva da quarant’anni, cioè dal momento in cui la Italsider che lo aveva creato ne realizzò il raddoppio. Sarà vero che i successivi proprietari - l’Ilva che fa capo al gruppo Riva - hanno effettuato investimenti notevoli al fine di ridurre l’inquinamento, ma pare evidente che essi non sono bastati.
L’elenco dei tipi di inquinanti e delle loro quantità diffusi negli ultimi anni dall’impianto in questione, messo insieme da varie fonti dalla magistratura di Taranto, è agghiacciante. Ci si dovrebbe
spiegare come mai la Regione, il ministero dell’Industria ovvero dello Sviluppo, i governi che si sono succeduti nello stesso periodo non abbiano saputo intervenire con mezzi efficaci per rimuovere la cappa di veleni che grava sulla città.
La seconda questione è nazionale. Nel 2011 l’Italia ha prodotto 29 milioni di tonnellate d’acciaio. Assai meno della Germania, ma quasi il doppio di quante non ne abbiano prodotte, a testa, Francia e Spagna, e tre volte la produzione del Regno Unito. Più o meno la metà dell’acciaio italiano proviene da Taranto. Si tratta in pratica di una delle ultime produzioni industriali su larga scala che esistano in Italia. Non si può fermarla in gran parte per un periodo indefinito, al fine di consentire alla proprietà di procedere da sola, se e quando ne avrà voglia, per introdurre le tecnologie necessarie ad abbattere sul serio l’inquinamento. Occorre procedere al più presto, d’intesa con la proprietà, a interventi radicali attuati con il massimo e il meglio dei mezzi che si possono mobilitare sul piano interno e internazionale. Senza farsi illusioni. L’impianto di Taranto, che ha il pregio ma anche il difetto di essere il più grande d’Europa, non può materialmente venire convertito in una mezza dozzina di mini-acciaierie. Né si può pensare di fargli produrre in breve acciai di varia e superiore qualità, perché ogni tipo di acciaio richiede macchinari ad hoc, che comporterebbero grossi investimenti addizionali oltre a quelli anti-inquinamento.
Infine c’è la questione globale. Molti settori dell’industria, del commercio e della finanza si sono sviluppati per decenni, creando al proprio interno posti di lavoro ma infliggendo anche a gran numero di persone elevatissimi costi esterni in termini di rischio, inquinamento, distruzione dell’ambiente, condizioni di vita. Taranto è stato tristemente esemplare da questo punto di vista. È arrivato il momento di porre fine a tale scambio perverso. Per diverse vie, con diversi mezzi, i costi esterni dello sviluppo, le cosiddette esternalità, dovrebbero essere drasticamente ridotti o riportati all’interno delle imprese che li generano.
Due diritti da difendere
di Stefano Rodotà *
È possibile che entrino duramente in conflitto la salute, diritto fondamentale della persona (art. 32 della Costituzione), e il lavoro, fondamento della Repubblica (art. 1)? Sì, è possibile. E non è la prima volta che, nelle piazze italiane, si pronunciano le terribili parole “meglio morti di cancro che morti di fame”. Quando si è obbligati ad associare il lavoro con la morte, si tratti di produzioni nocive o di infortuni, davvero siamo di fronte a inammissibili violazioni dell’umanità delle persone. Il lavoro si trasforma in condanna quotidiana, che non arriva però da una maledizione biblica, ma dal modo in cui è concretamente organizzato il mondo della produzione.
Da dove cominciare per cercare di comprendere queste vicende? Ancora una volta ci aiuta la Costituzione con il suo articolo 41. Qui si dice che l’iniziativa economica privata, dunque l’attività d’impresa, «non può svolgersi in contrasto con la sicurezza, la libertà e la dignità umana». Vale la pena di sottolineare la lungimiranza dei costituenti, che posero la sicurezza prima ancora di libertà e dignità. E la sicurezza riguarda il lavoro, ma è pure sicurezza per i cittadini nell’ambiente e per i prodotti che consumano. Quelle parole nella Costituzione piacciono sempre di meno e si cerca di cancellarle,
in nome della legge “naturale” del mercato. In un decreto recente, salvato acrobaticamente dalla Corte Costituzionale, si è messo abusivamente al primo posto il principio di concorrenza, nel tentativo di ridimensionare la portata complessiva di quell’articolo. Lungo è il catalogo dei fatti di cronaca che rendono evidente la mortificazione del lavoro attraverso il sacrificio della salute del lavoratore. Taranto è il nome di un luogo che si aggiunge a Marghera, Casale Monferrato, Val di Chiana, per citare solo i casi più noti. Quando l’attività d’impresa viene organizzata prescindendo dal fatto che la sicurezza dei lavoratori è un obbligo giuridico e un dovere collettivo, sono sempre devastanti le conseguenze umane e sociali.
La soluzione non poteva venire dalla tecnica molte volte usata di monetizzazione del rischio - denaro in cambio di salute. Bruno Trentin sottolineava la necessità di andare oltre l’ottica puramente retributiva e di tutelare nella sua integralità la persona del lavoratore. Né può venire dalla pretesa di un silenzio della magistratura di fronte a violazioni gravi e ripetute di un diritto fondamentale e di specifiche norme di legge.
Sempre più spesso i lavoratori sono vittime di ricatti. Occupazione a qualsiasi prezzo, anche della vita. Occupazione con sacrificio della libertà, come è accaduto con il referendum di Mirafiori sovrastato dalla minaccia della chiusura della Fiat. Questa è la spirale da spezzare. Soluzioni provvisorie possono essere ricercate, ma ad una sola condizione: la restaurazione integrale dei diritti dei lavoratori, che diventa anche la via per tutelare i diritti di tutti, come quello all’ambiente.
Sono tempi duri per i diritti fondamentali, per quelli sociali in specie. In nome dell’emergenza, siamo ormai di fronte a vere e proprie sospensioni di garanzie costituzionali. Si è dimenticato che l’articolo 36 della Costituzione prevede che la retribuzione debba garantire al lavoratore e alla sua famiglia «un’esistenza libera e dignitosa». Non essere il prezzo della perdita d’ogni diritto.
* la Repubblica, 02.08.2012
L’INCHIESTA
Taranto, i periti del tribunale
"Inquinamento, è colpa dell’Ilva"
Per la prima volta, nero su bianco, la correlazione tra i veleni record della città e l’insediamento siderurgico. Nell’inchiesta sono indagati i vertici del colosso, accusati tra l’altro di disastro colposo e avvelenamento. L’azienda: "Emissioni nei limiti"
di GIOVANNI DI MEO e GIULIANO FOSCHINI *
TARANTO - Oltre 500 pagine per mettere nero su bianco che dall’Ilva di Taranto vengono emesse in atmosfera sostanze come diossine e Pcb, pericolose per i lavoratori e la popolazione. E’ la prima verità sull’inquinamento a Taranto, dove è stata depositata la relazione dei periti chimici che costituisce la prima parte della maxi perizia sull’Ilva, disposta nell’ambito di un incidente probatorio, che dovrà accertare se le emissioni di fumi e polveri dallo stabilimento siderurgico siano nocive alla salute umana nell’inchiesta al maxi colosso. I documenti sono ora al vaglio del gip Patrizia Todisco, che nominato gli esperti e disposto l’accertamento peritale durato oltre un anno. Ad essere indagati sono Emilio Riva, presidente dell’Ilva spa sino al 19 maggio 2010, Nicola Riva presidente dell’Ilva dal 20 maggio 2010, Luigi Capogrosso, direttore dello stabilimento Ilva, Ivan Di Maggio, dirigente capo area del reparto cokerie, Angelo Cavallo, capo area del reparto Agglomerato. Le accuse sono disastro colposo e doloso, avvelenamento di sostanze alimentari, omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, danneggiamento aggravato di beni pubblici, getto e sversamento di sostanze pericolose, inquinamento atmosferico.
DOCUMENTI LE CONCLUSIONI DELLA PERIZIA DEI CHIMICI (.pdf)
La perizia dove stabilire se le emissioni di fumi e polveri dallo stabilimento siderurgico siano nocive alla salute sia degli operai che lavorano nel siderurgico sia dei cittadini di Taranto e dei comuni limitrofi, e se all’interno della fabbrica siano rispettate le misure di sicurezza per evitare la dispersione di diossina, Pcb e benzoapirene. Nelle risposte dei periti le prime verità. Nel documento si legge nero su bianco per la prima volta le risposte a queste domande.
Per quanto riguarda il primo quesito concernente “se dallo stabilimento si diffondano gas, vapori, sostanze aeriformi e sostanze solide (polveri ecc.), contenenti sostanze pericolose per la salute dei lavoratori operanti all’interno degli impianti e per la popolazione del vicino centro abitato di Taranto e, eventualmente, di altri viciniori, con particolare, ma non esclusivo, riguardo a Benzo(a)pirene, Ipa di varia natura e composizione nonché diossine, Pcb, polveri di minerali ed altro la risposta è affermativa”, scrive nelle conclusione della propria perizia il pool di periti chimici chiamato ad analizzare l’aria di Taranto, ed i veleni che respirano i tarantini.
Per quanto riguarda il secondo quesito concernente “se i livelli di diossina e Pcb rinvenuti negli animali abbattuti, appartenenti alle persone offese indicate nell’ordinanza ammissiva dell’incidente probatorio del 27.10.2010, e se i livelli di diossina e Pcb accertati nei terreni circostanti l’area industriale di Taranto, siano riconducibili alle emissioni di fumi e polveri dello stabilimento Ilva la risposta è affermativa” rimarcano gli uomini del pool. E ancora, rispondendo agli altri “quesiti” del gip: per quanto riguarda il terzo quesito concernente “se all’interno dello stabilimento Ilva di Taranto siano osservate tutte le misure idonee ad evitare la dispersione incontrollata di fumi e polveri nocive alla salute dei lavoratori e di terzi la risposta è negativa”.
Ma non solo. I periti spiegano cosa andrebbe fatto, da subito, per l’aria di Taranto: “Per quanto riguarda il fenomeno dello slopping si ritiene necessario, al fine di ridurne l’entità, che si proceda rapidamente da parte di Ilva nell’implementazione del sistema esperto di regolazione del processo di soffiaggio dell’ossigeno e dell’altezza della lancia nel convertitore, così da svincolare, per quanto possibile, il controllo dell’operazione dall’intervento dell’operatore. Solo attraverso la registrazione di tutti gli eventi occorsi si potrà verificare l’efficacia delle procedure adottate per pervenire, se non all’eliminazione, almeno alla riduzione del fenomeno”. “Altro adeguamento necessario” è la chiosa degli esperti “è rappresentato dall’adozione dei sistemi di monitoraggio in continuo dei parametri inquinanti alle emissioni derivanti da impianti in cui sono trattati termicamente rifiuti, in cui i medesimi dovevano essere installati a partire dal 17 agosto 1999”.
"Non posso esprimere giudizi troppo articolati, la perizia è di molte pagine e ho potuto leggere solo le sintesi finali dei sei quesiti - commenta l’ingegner Aldolfo Buffo, rappresentante della Direzione per la qualità, l’ambiente e la sicurezza dell’Ilva - ma mi pare di poter dire che vi sia una constataione inequivocabile sul fatto che i livelli emissivi dell’Ilva sono tutti nei limiti di legge, incluse le diossine. Oggi si è consumato solo il primo atto, la perizia del gip, ci saranno altri passaggi, tra cui le risposte dei nostri consulenti. Non vi sono evidenze certe, ma solo ipotesi che saranno oggetto di ulteriori approfondimenti. Aspettiamo la fine del confronto per esprimere giudizi definitivi".
Sulla questione è in corso infatti anche una perizia medico-legale da parte di tre consulenti: il professore Annibale Biggeri, docente ordinario all’università di Firenze e direttore del Centro per lo studio e la prevenzione oncologica; Maria Triassi, direttrice di struttura complessa dell’area funzionale di igiene e sicurezza degli ambienti di lavoro ed epidemiologia dell’azienda ospedaliera universitaria ’Federico II’ di Napoli, e il dottor Francesco Forastiere, direttore del Dipartimento di Epidemiologia dell’Asl di Roma.
* la repubblica, 27 gennaio 2012
http://bari.repubblica.it/cronaca/2012/01/27/news/ilva-28885863/
Il magistrato responsabile dell’inchiesta: dai primi accertamenti emerge "un errore macroscopico" nella realizzazione dell’impianto
"Indagini su tutte e 8 le morti sospette"
I Nas chiederanno il sequestro di 70 impianti
Domani gli ispettori del ministero della Salute all’ospedale di Castellaneta e nella sede di Ossitalia *
ROMA - Riguarda tutt’e otto le morti sospette avvenute nel reparto Utic dell’ospedale di Castellaneta, l’inchiesta aperta dalla procura della Repubblica presso il tribunale di Taranto. Lo ha rivelato il procuratore Aldo Petrucci, confermando però che, per il momento, l’autopsia sarà compiuta solo sulle due ultime vittime. I cui corpi sono ancora nell’obitorio dell’ospedale.
Sul merito, poi, il magistrato ha riferito che dai primi accertamenti sembrerebbe si tratti di "un errore macroscopico nella realizzazione dell’impianto". "Se le indagini lo dovessero confermare, come sembra dai primi accertamenti - ha aggiunto - sarebbe la prima volta, nella mia lunga esperienza in magistratura, che mi trovo di fronte ad un caso del genere". Il reato ipotizzato, ha confermato, è quello di omicidio colposo plurimo.
Si allarga anche la verifica sul funzionamento degli impianti di distribuzione di gas medicali montati dall’azienda Ossitalia di Bitonto in altre strutture sanitarie. I Nas infatti chiederanno domani mattina al magistrato di Taranto il seguestro conservativo di settanta impianti dell’impresa pugliese. A renderlo noto è stato il comandate del corpo, il generale Saverio Cotticelli. Gli impianti una volta eseguito il provvedimento giudiziario verranno affidati alla custodia dei direttori sanitari che, in attesa della disposizione dei controlli, saranno tenuti a una immediata verifica degli impianti. I carabinieri del Nas svolgeranno accertamenti anche presso l’ospedale cardiologico Lancisi di Ancona dove in passato sono stati installati impianti di Ossitalia.
Intanto per la commissione d’inchiesta istituita dalla Regione "lo scambio dei gas è quasi completamente certo." A dirlo nel primo pomeriggio di oggi in un incontro con la stampa è stato Tommaso Fiore, il coordinatore della commissione, dopo il sopralluogo svolto questa mattina nel reparto dell’ospedale. "Ovviamente la certezza - ha aggiunto Fiore -si può ottenere soltanto attraverso una indagine sull’impianto che non può essere fatta da noi. Qui l’impianto è sigillato e saranno i periti della procura della Repubblica a farla".
Domani arriveranno all’ospedale di Castellaneta, e nella sede dell’azienda Ossitalia, gli ispettori del ministro della Salute Livia Turco. Sono esperti del dipartimento farmaci e dispositivi medici e con loro ci sarà un esperto dell’Istituto Superiore di Sanità, che si occuperà esclusivamente delle verifiche dell’impianto, e un cardiologo.
Quanto ai prossimi passi del procuratore, "domani - ha detto Petrucci, che dirige l’inchiesta insieme col sostituto procuratore, Mario Barruffa - ci vedremo col medico legale Luigi Strada per fissare le autopsie, che penso saranno affidate e avverranno martedì". L’esame sarà esuguito su Pasquale Mazzone, di 82 anni (morto il 2 maggio), e Cosima Ancona, di 73, morta il 4 maggio.
Prima di allora in quel reparto, inaugurato il 20 aprile scorso, sono morte in una decina di giorni (dal 20 al 30 aprile, appunto) altre sei persone, ma non si sa se a causa del protossido di azoto. Il 20 aprile sono morti in due: Vincenzo Tortorella, di 75 anni, e Antonio Naselli, di 76; il 24 aprile Leonardo Grieco, di 85 anni; il 25 aprile: Angelo Carmignano, di 67 anni, e Pasquale Caragnano, di 84; il 30 aprile Michelina Santoro, 80 anni.
E sempre domani, ha rivelato ancora il procuratore, "i carabinieri dovrebbero consegnarci l’elenco delle persone potenzialmente destinatarie di un informazione di garanzia". "L’elenco - ha aggiunto - comprenderà diverse persone, perchè dobbiamo dare a tutti il diritto di esporre le loro ragioni".
* la Repubblica, 6 maggio 2007
è una vergogna!!!!!!! tutto questo avviene perchè nessuno alla fin fine paga per quello ha fatto. Si cominciasse a far pagare con il carcere, esproprio dei beni personali e quelli acquistati durante il mandato, con indagini appropriate si arriverebbe anche ai beni intestati a terzi.Non si può dichiarare che l’unico errore è di non avere vigilato sui propri dipendenti, chi ha eletto la Di Bello non ha scisso i suoi doveri e le sue responsabilità, non ha vigilato peggio per lei! “dovrebbe pagare” .
Albano Rosa