Il boss mafioso Michele Greco, detto "il papa", è morto oggi in una clinica di Roma dove era ricoverato da alcune settimane. Il capomafia era detenuto a Rebibbia dove stava scontando alcuni ergastoli definitivi. Greco è una figura storica di Cosa nostra ed è ritenuto tra i mandanti di diversi delitti eccellenti.
Michele Greco aveva 84 anni ed era malato da tempo. Soprannominato il "papa", per la sua abilità nel mediare le dispute tra le diverse famiglie, è fratello di Salvatore Greco, detto "il senatore", che aveva rapporti con politici e banchieri. Greco fu arrestato il 20 febbraio dell’86 dopo quattro anni di latitanza in un casolare nelle campagne di Caccamo, a una cinquantina di Km da Palermo, dove si nascondeva sotto falso nome. Dopo la morte del padre Giuseppe, detto "Piddu u tinenti", Michele Greco prese il comando del mandamento di Croceverde-Giardini.
Il suo nome fu associato a Cosa Nostra per la prima volta dal cosiddetto rapporto dei "162", elaborato nel 1982 dal vice capo della mobile Ninni Cassarà e poi diventato parte integrante del primo maxiprocesso. Nominato nel 1978 capo della commissione di Cosa Nostra, dopo l’espulsione di Tano Badalamenti, non ostacolò l’avanzata dei corleonesi di Totò Riina e Bernardo Provenzano, dei quali divenne anzi alleato.
Insieme al fratello Salvatore, fu il mandante dell’omicidio del consigliere istruttore Rocco Chinnici. Nel marzo del 1991, in attesa dell’appello del maxiprocesso, Greco e altri imputati furono scarcerati per decorrenza dei termini di carcerazione preventiva da un provvedimento della Corte di cassazione. Un decreto del governo, ispirato da Giovanni Falcone, divenuto nel frattempo direttore degli Affari penali del ministero di Grazia e giustizia, ripristinò la detenzione per i boss scarcerati, tra cui anche il vecchio "papa".
Il figlio di Michele Greco, Giuseppe (condannato a quattro anni per associazione a delinquere) è noto nell’ambiente del cinema, con lo pseudonimo di Giorgio Castellani, per alcuni film come "Pane, cioccolato e paprika". Per girare una scena del film - con Franco Franchi, Ciccio Ingrassia e Barbara Bouchet - la famiglia Greco si fece prestare dall’esattore di Salemi Nino Salvo una lussuosa ’Mercedes 500’, l’unico esemplare che esisteva in Sicilia.
Durante l’ ultima udienza del maxiprocesso istruito da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino nell’aula bunker dell’Ucciardone, con decine di imputati accusati di mafia dietro le sbarre, Michele Greco prese la parola, e rivolgendosi al presidente della Corte Alfonso Giordano disse: "Auguro a tutti voi la pace, perché la pace è la tranquillità dello spirito e della coscienza, perché per il compito che vi aspetta la serenità è la base per giudicare. Non sono parole mie, ma le parole che nostro signore disse a Mosé, le auguro ancora che questa pace vi accompagni per il resto della vostra vita". Alla fine del maxiprocesso, Michele Greco, fu condannato all’ergastolo.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
MAFIA: L’ITALIA, LA CHIESA E L’URLO DI PAPA WOJTYLA!!!!
L’Urlo del Cardinale Pappalardo e di Papa Wojtyla...
MAFIA: "MATRIA" E "PATRIA". Un’intervista a Renate Siebert
Se il prete è un Assassino
di Maurizio Chierici (l’Unità, 11/02/200) *
C’È un prete assassino condannato all’ergastolo che per la Chiesa è ancora prete. La gerarchia tace e aspetta, ma cosa? Quando un sacerdote tradisce le regole che guidano la missione, la Chiesa lo isola dai fedeli: sospeso a divinis. Ancora nessuna sospensione per il sacerdote Christian Von Wermich chiuso nel carcere penale di Buenos Aires: testimoni e documenti hanno provato la sua responsabilità in 7 omicidi, 42 arresti illegali, 31 casi di tortura. Anni della dittatura militare. «Non odiate chi vi sta torturando. Volontà di Dio» erano le sue parole di conforto distribuite dal padre consacrato nelle quattro prigioni segrete attorno a Buenos Aires.
I militari lo invitavano a spiare e Von Wernich usava la confessione per far parlare quei prigionieri che non si arrendevano alla tortura. Per dire cosa, poi? Nomi di compagni di scuola scandalizzati dalla violenza dei generali P2; chiacchiere tra studenti. Von Wermich confessava con la doppia morale di un malandrino. Li sollecitava ad abbandonarsi al perdono di Dio, e se l’abbandono interessava la polizia, riferiva, e altre persone sparivano. Quattro mesi fa guardavo Von Wernich nel maxischermo che ne allargava il volto davanti tribunale di La Plata. Indifferente mentre i giudici leggevano la condanna. Appena un sorriso di scherno, come per dire «in qualche modo ne uscirò». Negli appunti ritrovo pagine che il silenzio della Chiesa obbliga a ricordare per far capire cosa non sta succedendo.
Hector Timerman, console generale dell’Argentina a New York, riferisce ciò che il padre - Jacobo Timerman, direttore di un giornale indipendente - ha raccontato e scritto a proposito del sacerdote. «Era presente ai miei interrogatori e quando la benda che fasciava gli occhi si abbassava per effetto delle scariche elettriche, vedevo Von Wermich seduto accanto al capo della polizia di Buenos Aires, Ramon Camps. Mi guardavano come si guarda un cane che sta morendo». Nei verbali del tribunale la commozione di Maria Mercedes Molina Galarza: è nata in una prigione segreta, Von Wermich l’ha battezzata promettendo a Maria Mercedes e ad altri sei ragazzi, tranquilli, vi accompagnerò al confine. La vostra pena sarà l’esilio. Von Wermich ha consegnato la bambina ai nonni: molto devoti, gli si erano rivolti per sapere qualcosa della figlia scomparsa. «Si farà viva lei, forse fra un anno, forse da un altro paese. Non posso dire di più». Con la piccola fra le braccia, il cuore dei nonni si è aperto. Hanno preparato una valigia, vestiti, qualche soldo. «Ne avrà bisogno. Gliela consegno personalmente. Mi raccomando, silenzio...». Ma il viaggio della ragazza madre (Liliana Galarza) e dei suoi compagni, è stato un viaggio breve. Julio Emilio Emmended, poliziotto condannato per sette delitti, racconta come è finito. «Padre Christian Von Wernich benedice i sovversivi ammanettati e mi raggiunge nell’automobile dove aspettavo assieme a Jorge Bergés, medico della polizia segreta. ’Adesso sono vostri’. Allora scendo con la pistola in mano e quando i sovversivi vedono la pistola cercano di disarmarmi ma hanno le mani legate. Colpisco col calcio dell’arma, li stordisco. Interviene il medico: due iniezioni per uno, sempre nel cuore. Il liquido è rosso, veleno. Sconvolto, li vedo morire ma padre Von Wermich mi rincuora. ’L’hai fatto perché la patria. Dio sa che hai agito per il bene del paese’. Avevo le mani sporche di sangue. E del sangue dei ragazzi era macchiato l’abito del padre ...».
Le voci sono tante, i documenti precisi. Crolla la dittatura e Von Wernich sparisce. Passa dal Brasile, lo ritrovano in Cile: un settimanale di Santiago lo fotografa mentre distribuisce la comunione non lontano dalla capitale. Il nome era falso, nessuno poteva sospettare. Possibile che la Chiesa cilena avesse affidato la cura di una parrocchia ad un sacerdote argentino senza voler sapere da Buenos Aires ’come mai è qui?’. Mistero che si perde nella rete dei cappellani militari.
Cinque minuti dopo la condanna, il comunicato della Commissione Episcopale argentina. Perché cinque minuti dopo e non quattro anni prima quando i delitti di Von Wermich erano da anni documentati? Martin de Elizaide, vescovo della diocesi della quale Von Wermich era sacerdote chiede che il religioso «venga assistito affinché riesca a comprendere e riparare il danno arrecato con scelte personali che non coinvolgono le istituzioni». Lascia capire che la procedura necessaria alla Chiesa per prendere una decisione sarà lunga: non ne fissa il tempo. In fondo, è solo uno dei tanti sacerdoti che hanno abbracciato gli ideali fascisti della dittatura. Le trame del piano Condor allargano le complicità ai cappellani militari delle squadre della morte: America Centrale, Brasile, Cile, Uruguay, Paraguay. Con quale abbandono si sono rivolti a Dio mentre davano una mano agli assassini?
Quattro mesi fa la sentenza e la Chiesa non ha più parlato. Bisogna dire che i rapporti diplomatici tra Vaticano e Argentina sono congelati dal braccio di ferro che divide l’ex presidente Kirchner e la nuova presidente- moglie, dalla burocrazia diplomatica di Roma. Tre anni fa Kirchner nomina ambasciatore in Vaticano un ex ministro: Alberto Juan Bautista Iridarne, signore squisito ma divorziato e risposato come quattro milioni e mezzo di argentini.
Come Berlusconi, Fini e Casini considerato dal monsignor Ruini «esempio di cattolico in politica». Il Vaticano non accetta chi ha infranto il sacramento del matrimonio e un paese borghese e devoto viene rappresentato nel grigiore della routine di un incaricato d’affari. Comunicazione non interrotta, ma evanescente proprio nel momento in cui il congresso di Buenos Aires decide la dissoluzione del vescovado castrense, pastore guida dei cappellani militari.
Il passato continua ad impaurire il presente. I cappellani in divisa hanno accompagnato il golpe obbedendo ai vescovi che appoggiavano la dittatura dei generali.Von Wernich è il primo caso risolto dal tribunale, ma i nomi sono tanti, si annunciano altri processi. L’essere divorziato e l’essersi risposato non viene messo sullo stesso piano delle colpa di chi si è servito della confessione per far sparire ragazzi senza colpa, ma la soluzione è fulminea: no e subito all’ambasciatore; vediamo cosa fare per il prete assassino. Il clero argentino è diviso. Vescovi rigidi contro il governo e vescovi alla ricerca della soluzione.
Monsignor Casaretto, segretario della commissione episcopale, genovese di nonni e presidente della Caritas che ha sfamato milioni di affamati nei mesi bui della crisi economica non smette di dialogare. Intanto, nell’istituto penale dove è rinchiuso Von Wernich sono stati trasferiti militari e poliziotti arrestati dopo che il presidente Krichner ha annullato le due leggi (Punto Final e Obbedienza Dovuta) imposte dalle forze armate per consentire «la pacificazione nazionale». Molti di loro avevano atteso il processo in prigioni soffici come grandi alberghi. Camere con Tv, aria condizionata, palestre per tenersi in forma. Una certa libertà. Adesso si sono ritrovati dove dovevano essere dal primo giorno. Von Wernich li raccoglie in angoli non frequentati con l’aria di un confessore. Celebra la messa della sera e riceve la considerazione che è abitudine verso i religiosi nelle carceri argentine. Il silenzio della Chiesa continua. Forse i vescovi credono all’intrigo al quale Von Wernich si aggrappa dichiarandosi vittima di complotti senza prove mentre le prove e i racconti dei sopravissuti gli passavano sotto gli occhi in tribunale.
A Buenos Aires e in Vaticano la gerarchia cattolica è impegnata a difendere il diritto alla vita dal concepimento alla morte naturale. Questo diritto alla vita prevede la condanna di chi brucia la vita con torture e delitti? Passa il tempo e si aggrava il profilo morale di un assassino che ostenta dignità di sacerdote mentre la gerarchia medita dubbiosa sull’orrore delle colpe certificate dalla giustizia civile. La sopravvivenza sacerdotale di Von Wernich è lo sbalordimento che avvilisce non solo i credenti. E il mistero dei vescovi senza parole insinua nella fede dei cattolici il sospetto di uno scandalo istituzionale.
Solo qualche vescovo ha chiesto perdono alle vittime. Ma non basta mentre la memoria di un passato doloroso scuote ogni comunità: dal ricordo dell’Olocausto, alla Spagna impegnata a rileggere i crimini della guerra civile. Impossibile immaginare per Von Wermich la dolcezza di una esclusione senza sospensione a divinis che ha accompagnato la fine di Marcial Maciel, fondatore dei Legionari di Cristo. «Ussari di una Chiesa combattente alla conquista mondo». È morto negli Stati Uniti quattro giorni fa, l’Osservatore Romano ne ha rimpicciolito la memoria. Sarà sepolto nel suo Messico dove i Legionari si mescolano alla politica del governo conservatore. Nel 1968 è stato accusato da 30 seminaristi; li aveva insidiati facendo pesare l’autorità di un generale intoccabile.
Il quotidiano messicano La Jornada ne ha ricostruito i peccati con una precisione che è valsa il premio nazionale di giornalismo. Ma Roma non se ne è accorta e il Vaticano non gli è mancato di rispetto accogliendo le raccomandazioni del nunzio apostolico in Messico, monsignor Girolamo Prigione, dell’arcivescovo Norberto Rivera e dei vescovi Onesimo Cepeda ed Emilio Berlié, estremisti della destra religiosa in America Latina.
Nel dogma di un integralismo esasperato, Marcial Maciel ha aperto a Roma l’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum. I Legionari controllano 150 collegi, dispongono di una serie di piccoli seminari, da Monterrey a San Paolo Brasile, attorno ai campus degli Stati Uniti, si aprono scuole nell’ex impero sovietico: 550 sacerdoti, 2500 novizi, 60 mila laici raccolti in una specie di terz’ordine, il Regno di Cristo.
Dopo aver ignorato per dieci anni le accuse largamente provate, nel 2004, il cardinale Ratzinger finalmente prende in esame il caso, e nel 2006 Marcial Marcel viene comandato a lasciare la guida dell’ordine per dedicarsi ad una vita di preghiera e penitenza. Nessun processo canonico per «l’età avanzata», solo la proibizione di dire messa e parlare in pubblico. Punizione veniale per i semplici credenti, ma terribile per il padre dei Legionari: sperava d’essere beatificato con la velocità del Balaguer fondatore Opus Dei. Vanità rinviata all’eternità e senza un santo protettore nel suo ordine si allungano le ombre. Marcial Marcel aveva 87 anni, Von Wermich 69. I fedeli argentini non hanno voglia aspettare diciotto anni per sapere se la Chiesa ha deciso di allontanarsi da un prete così.
mchierici2@libero.it
Pubblicato su l’Unità http://www.unita.it
A sorpresa nel cimitero di Palermo i funerali del ’papa’ della mafia - Foto
Le esequie di Michele Greco nella cappella di famiglia così come ordinato dal questore del capoluogo siciliano. La salma del capomafia è arrivata al porto, poi il corteo funebre di SALVO PALAZZOLO
Chi era Michele Greco, il boss morto oggi a Roma
Nella sua storia dai delitti politici e complici eccellenti
Ascesa, omicidi e sconfitte
tutti i segreti del "Papa"
di SALVO PALAZZOLO *
Aveva la mania di consegnare memoriali ai giudici che lo processavano. Michele Greco raccontava sempre la stessa storia, quella di una Sicilia antica, in cui lui era uno stimato proprietario terriero: "Nella mia tenuta, alla Favarella, ricevevo ufficiali dei carabinieri, politici, magistrati, e pure alti prelati". L’ultima volta che lo ribadì, con la sua solita grafia molto ordinata, fu al processo per i delitti politici di Palermo. Michele Greco continuava a scrivere molto, ma a dire poco. Lanciava segnali, ma è morto portandosi dietro i suoi segreti, quelli sugli anni Ottanta che furono segnati da una lunga scia di sangue e da una misteriosa catena di complicità.
Era stato nominato capo della commissione provinciale nel 1978, dopo la deposizione di Gaetano Badalamenti. Già allora lo chiamavano il "papa", per la sua capacità di mediare. Ma quando i corleonesi di Totò Riina e Bernardo Provenzano scatenarono la guerra di mafia, lui non provò neanche a capire cosa stava accadendo. Michele Greco si schierò presto dalla parte dei vincenti. E conservò, almeno formalmente, il suo ruolo di vertice nella commissione, fino al giorno in cui fu arrestato, il 26 febbraio 1986, dopo quattro anni di latitanza. Il suo ruolo era stato ormai delineato dal pool di Falcone e Borsellino. Così, il "papa" fece ingresso nel bunker dell’Ucciardone, dove iniziava il primo maxi processo alle cosche.
Sono ormai celebri le sue dichiarazioni in aula. "Signor presidente, io auguro alla corte pace e serenità per potermi giudicare...". Faceva di tutto per apparire come un timorato uomo di Dio, gran lettore della Bibbia e assiduo frequentatore di messe. Ma non bastò ad evitargli l’ergastolo, come mandante per quattro omicidi. Lui non si rassegnò. Attraverso il suo legale, fece sapere: "Le uniche cupole che conosco sono quelle delle chiese, il personaggio sanguinario che mi hanno disegnato su misura è falso".
L’unica volta che Greco è rimasto in silenzio è stato il giorno in cui ha deposto Nino Giuffrè. Con lui aveva vissuto durante la latitanza, nelle campagne di Caccamo. All’epoca, Giuffrè era il più promettente dei picciotti del mandamento gestito da Francesco Intile, qualche anno dopo sarebbe diventato lui il padrino e per di più uno dei collaboratori di Bernardo Provenzano. "Michele Greco mi parlava di tante cose - spiegò Giuffrè quando decise di collaborare con i magistrati di Palermo, nella primavera del 2002". Gli raccontò di come un uomo d’onore, Vittorio Mangano, era diventato stalliere nella villa di Arcore di Silvio Berlusconi: "L’imprenditore milanese aveva paura dei sequestri di persona che in quel periodo imperversavano a Milano".
Michele Greco raccontò ancora a Giuffrè di quando aveva incaricato l’esattore Nino Salvo di andare a Roma, per parlare con Andreotti. "Bisognava alleggerire la pressione di magistrati e investigatori". Grazie alle confidenze del "papa", Giuffrè è diventato testimone d’eccezione nei processi che hanno portato alla condanna di Marcello Dell’Utri e a una dichiarazione di prescrizione per Giulio Andreotti. Greco non ha mai più replicato. E’ rimasto chiuso in isolamento.
Dall’84, era uscito una sola volta dal carcere, nel ’91, per una questione di decorrenza dei termini di custodia cautelare, decretata dalla Cassazione in base a una cervellotica interpretazione delle leggi e del codice di procedura penale. "Ma cos’è questa mafia? Ma chi ha mafiato mai?", disse ai giornalisti che l’andarono a trovare nella sua villa di Croceverde Giardini, alla periferia orientale di Palermo. "La mafia? Non so niente". E tornò ad insistere sulla sua religiosità. Quella volta, restò davvero poco in libertà. Le porte del carcere si riaprirono con un decreto d’urgenza del ministro della Giustizia, Claudio Martelli, su input dell’allora direttore degli Affari penali, Giovanni Falcone, e con l’avallo del governo, presieduto da Giulio Andreotti.
E’ stato il cavallo di battaglia dell’ex presidente del consiglio al suo processo per mafia. Ma Giuffrè è rimasto per i giudici "attendibile". Adesso che Michele Greco è morto, l’ex picciotto di Caccamo è davvero l’unico depositario dei segreti del "papa".
* la Repubblica, 13 febbraio 2008.