[..] Sono dieci anni che Molinaro combatte contro la ’ndrangheta. E da dieci anni non riesce a ottenere giustizia. I procedimenti penali aperti contro le persone che ha denunciato vengono puntualmente derubricati. Il motivo è semplice: non si tratta di estorsione «classica», entro nel tuo negozio e ti chiedo il pizzo. «In Calabria funziona in un altro modo - spiega Molinaro - si presentano dei presunti clienti, che vantano la loro appartenenza a organizzazioni mafiose. Ordinano della merce, nel mio caso materiali edili. Poi non la pagano. Se stai zitto, è tutto a posto. Se ti ribelli e pretendi il pagamento, cominciano le minacce di morte e gli attentati all’azienda».
A lui è successo di tutto: minacce personali, inseguimenti in macchina con persone armate, e l’11 settembre 2003 otto colpi di lupara calibro 12 contro il suo negozio [...]
Calabria, la battaglia di un imprenditore di Lamezia contro la ’ndrangheta
«Il mio outing sul pizzo»
Roberto Molinaro ha fotografato gli aguzzini e li ha denunciati per ben tre volte con tanto di nomi. Ma senza alcun esito
di Cinzia Gubbini (il manifesto, 13.10.2006)
Una denuncia eclatante, che lo espone a rischio di vita: «Ma era l’unico modo per farmi sentire, e per quanto riguarda la mia incolumità personale, sono preoccupato, certo. Ma sono anche cosciente di non essere più a rischio di prima». Roberto Molinaro, 42 anni, è un imprenditore di Lamezia Terme. L’altro ieri sera ha esposto un cartello di due metri e mezzo per due davanti alla vetrina del suo negozio di articoli sanitari, nel centro della città, a corso Nicotera. Sopra c’è scritto: «Toglierò questo cartello solo dopo che avrò ricevuto, come parte offesa, avviso di conclusioni di indagini in relazione alle denunce per estorsione (complete di nomi, cognomi, date di nascita e foto) effettuate in Lamezia Terme in data 2 febbraio, 7 aprile, 21 aprile e 14 settembre 2006».
Sono dieci anni che Molinaro combatte contro la ’ndrangheta. E da dieci anni non riesce a ottenere giustizia. I procedimenti penali aperti contro le persone che ha denunciato vengono puntualmente derubricati. Il motivo è semplice: non si tratta di estorsione «classica», entro nel tuo negozio e ti chiedo il pizzo. «In Calabria funziona in un altro modo - spiega Molinaro - si presentano dei presunti clienti, che vantano la loro appartenenza a organizzazioni mafiose. Ordinano della merce, nel mio caso materiali edili. Poi non la pagano. Se stai zitto, è tutto a posto. Se ti ribelli e pretendi il pagamento, cominciano le minacce di morte e gli attentati all’azienda».
A lui è successo di tutto: minacce personali, inseguimenti in macchina con persone armate, e l’11 settembre 2003 otto colpi di lupara calibro 12 contro il suo negozio. Oggi quel procedimento penale va sotto il nome di «danneggiamento», il che ha impedito all’autorità giudiziaria di concedere le intercettazioni ambientali richieste dai carabinieri. «L’udienza è fissata per il 3 novembre. Ma posso già dire come andrà a finire: assolti. Perché dentro quel fascicolo non c’è niente - spiega Molinaro - anche perché i testimoni, i miei parenti, hanno ritrattato. Bella situazione in Calabria, no? Lo hanno fatto per il mio bene, lo so. Ma io non ci sto, non mi piego. E l’azienda ormai è in fallimento, il mio fatturato è calato di due terzi». Proprio oggi si svolgerà una riunione di famiglia per decidere se chiudere il negozio.
Dopo l’attentato di tre anni fa, le minacce sono continuate. Ci sono stati altri episodi di richiesta di merce, per 80 mila euro. E poi danneggiamenti, la porta del negozio sigillata con l’attak, tentativi di scasso. Tutti episodi puntualmente denunciati, con fotografie, video che riprendono i mafiosi in azione, ma anche documenti messi pazientemente insieme dall’imprenditore. In tutto 650 pagine. «Ho indicato le generalità complete, la situazione di famiglia, allegando il certificato anagrafico, bilanci, documentazioni patrimoniali. Ho perfino elaborato quadri sinottici che indicano tutte le truffe compiute da queste persone».
E’ meticoloso Molinaro, e soprattutto un appassionato di diritto. Si era iscritto alla facoltà di Giurisprudenza quando a 18 anni ha perso il padre e si è fatto carico dell’azienda di famiglia, la Socedil. «Ma ho continuato a studiare, per passione - spiega - Le mie sono denunce circostanziate, solo leggendo i documenti si possono spiccare almeno sette arresti». Invece non arriva neanche l’avviso di conclusione dell’indagine, «e allora quel cartello resterà lì».
Ieri Molinaro è stato ricevuto dai carabinieri: «Ho avuto molti attestati di solidarietà, dal Comune, da tutte le organizzazioni imprenditoriali. Ma è il sistema che non funziona. La ’ndrangheta fa bene il suo mestiere, è lo Stato che non lo fa. Singolarmente sono tutte bravissime persone - dice - ma prima di tutto si procede lentamente e poi c’è l’incapacità di capire come funzionano le cose. Continuano a rubricare reati di estorsione come appropriazione indebita, truffa, e producono disastri».
I mafiosi fanno tanto bene il loro mestiere da avere una doppia faccia: pistole di notte, di giorno abili conoscitori degli strumenti legali. «Quando ho denunciato alcuni di questi soggetti - racconta Molinaro - sono spuntate fatture e documenti falsi per tentare di mettermi in cattiva luce». Una delle persone denunciate lo ha anche querelato per calunnia. «Ha fatto benissimo - dice oggi l’imprenditore - io non pretendo di avere ragione. Ho presentato i documenti. Si concludano le indagini». O il cartello continuerà ad «abbellire» il corso di Lamezia Terme.
Lamezia Terme, elezioni sotto minaccia
di Claudia Fusani *
Una campagna elettorale nel terrore. Incendi, attentati, intimidazioni. Noi non ce la facciamo, non abbiamo le forze per indagare su tutto. La società civile, la parte sana che è ancora una parte importante della piana lametina, è rassegnata e umiliata. E in questo clima domenica e lunedì si va a votare».
Procuratore Vitello, il suo è un atto d’accusa durissimo. «È esattamente per questo che lo faccio». Salvatore Vitello è stato uno dei sostituti più agguerriti della procura della Repubblica di Roma. Refrattario a telecamere e taccuini, ha sempre lavorato nel silenzio, grandi inchieste sui reati contro la pubblica amministrazione e finanziari (ha coordinato l’inchiesta su Stefano Ricucci e la scalata a Rcs) e sul riciclaggio della ‘ndrangheta nella capitale (ha firmato il sequestro di un noto ristorante in piazza di Spagna). Un anno fa, a 51 anni, ha deciso che poteva e doveva andare a combattere in prima linea. A giugno 2009 ha preso possesso dell’ufficio di procuratore a Lamezia Terme, la terza procura in Calabria, senza capo da oltre un anno, sostituti in fuga, un territorio quasi fuori controllo. Vitello stringe nelle mani un foglio, la fotografia di una Caporetto della legalità.
Perchè? «Restiamo al mese di marzo. Il 4 marzo resta inesplosa una bomba lanciata contro l’abitazione di Salvatore Vescio, ex Pdl, ora candidato sindaco in una lista civica. L’8 marzo si sono messi a fare il tiro a segno contro i manifesti elettorali di Raffaele Mazzei candidato al consiglio comunale in quota Pdl. Il 15 marzo qualcuno ha assalito e danneggiato la sede elettorale di Ida D’Ippolito, candidata sindaco di una lista civica. Vado avanti?»
Prego... «... il 18 marzo tre proiettili calibro 7.65 sono stati spediti a Giulia Serrao, candidata alle regionali per conto del Mpa. Il 20 marzo ancora colpi di pistola contro l’abitazione di Salvatore De Biase segretario provinciale del Pdl e padre di Francesco De Biase, consigliere comunale del Pdl. Due giorni fa, infine, altri due episodi quasi in contemporanea: è stata bruciata l’auto di Salvatore Vescio parcheggiata all’interno del garage di casa ed è stata bruciata l’auto del fattore di Giulia Serrao».
Sette attentati in venti giorni. Guerriglia a bassa intensità? «È un clima generale di intimidazione e di terrore. È una sensazione molto sgradevole e avvilente. Difficile da spiegare, bisognerebbe viverla. Non sono neppure gli attentati in sè, tutti per fortuna senza vittime nè feriti. In realtà è in atto da settimane una continua e quotidiana attività di minacce, ricatti, prepotenze che sembra avere la forza dell’impunità e il privilegio di una sorta di immunità territoriale».
Sembrano attentati trasversali, che colpiscono la persona piuttosto che la formazione politica. Le indagini che dicono? «È questo il punto. La procura di Lamezia copre un territorio di circa 150mila abitanti e oltre 40 comuni. La pianta organica prevede sei persone, in realtà siamo quattro, tre sostituti e il procuratore, cioè io. Ognuno di noi ha un flusso di lavoro di circa 2.500 fascicoli. A questo va aggiunto che manca proprio la forza investigativa, polizia, carabinieri, finanza, non ci sono uomini, non ce ne sono per fare le indagini. Ha denunciato questo problema nelle sedi opportune? «Certo, in continuazione. Anm e Csm hanno preso posizione. Ai colleghi magistrati chiedo uno sforzo: su novemila quanti siamo qualcuno, già di esperienza, venga giù volontario per coprire la pianta organica. Il resto dipende dal governo».
Il territorio lametino è in mano alle cosche? «Sono almeno quattro i clan leader, Giampà, Torcasio, Iannazzo, Gualtieri. Da un anno non abbiamo omicidi ma attività di riciclaggio ed estorsiva. Appena arrivato abbiamo cominciato a demolire sei costruzioni abusive nella piana lametina con l’aiuto dell’esercito. Una era del clan Giampà. Sto sequestando depuratori e collettori. Ci sono intere famiglie di zingari arruolate per fare i cavalli di ritorno (auto rubate e riconsegnate dietro pagamento di riscatti) ma indaghiamo anche sull’ospedale di Lamezia che non ha la Tac ma paga la manutenzione».
I clan appoggiano alcune liste? «Non sta a me a dirlo. Sottolineo però il caso del comune di Gizzeria dove la lista di opposizione (Pd) ha rinunciato. Perchè la Commissione Antimafia non se ne occupa?»
Minacce anche a lei, un proiettile e un avvertimento “Anche tu qui a rompere i coglioni. Attento che fai boom”. A chi altro, ancora? «Al vescovo. Al Presidente della sezione penale del Tribunale. Il modo di relazionarsi in questo paese conosce solo l’intimidazione».
Quale alternativa? «Una mobilitazione sociale per risvegliare le coscienze. Per combattere non solo il male ma soprattutto la zona grigia che sopporta in silenzio lo stato delle cose».
* l’Unità, 27 marzo 2010
Il ritrovamento della cimice è l’ultimo di una serie di episodi
in una Regione che lo Stato sembra aver dimenticato
La democrazia presa in ostaggio
nel palazzo dei veleni e dei misteri
di GIUSEPPE D’AVANZO *
Non accade tutti i giorni che si spii un pubblico ministero nel suo ufficio. Che si seguano da vicino le sue mosse investigative. Che si anticipino le sue iniziative. Che magari le si vanifichi con accorte fughe di notizie utili a mettere sul chi vive i potenziali indagati, fino a quel momento molto loquaci nelle conversazioni telefoniche intercettate.
Non accade tutti i giorni che - più o meno, esplicitamente - si sospetti che lo "spione" sia un magistrato della stessa procura della Repubblica, legato - evidentemente - agli interessi storti che quell’ufficio dovrebbe scovare e punire e non alla Costituzione. Eppure, nonostante la singolarità della circostanza, si fa fatica a stupirsene. Prima o poi doveva accadere che venissero in superficie i velenosi miasmi che attossicano la Calabria e Reggio. Non sorprende che siano affiorati proprio nel luogo - il palazzo di giustizia - che dovrebbe sovrintendere alla legalità di un angolo d’Italia dove gli interessi della ’ndrangheta sono intrecciati ai poteri più visibili e formalizzati della politica, dell’economia, delle istituzioni. Fino ad assumere quasi funzioni di ordine pubblico.
Perché la ’ndrangheta - oggi più di Cosa Nostra, più della Camorra - garantisce ogni tipo di transazioni; preleva tributi; offre occasioni impensate di profitto e di reddito, che altrimenti in quei territori dimenticati dall’agenda dei governi non ci sarebbero. E’ un protagonismo che le consente di governare come intermediario decisivo i flussi di risorse e spese pubbliche, addirittura di condizionare la democrazia rappresentativa con il controllo delle assemblee elettive.
Della pervasività del potere mafioso delle ’ndrine - al contrario di Cosa Nostra e Camorra - non si parla mai. Come si ignorano, nel discorso pubblico nazionale, le arretratezze e le opacità delle istituzioni calabresi. Nel buio di una regione dimenticata, l’autorità, l’influenza, la forza della ’ndrangheta hanno potuto così crescere inosservate e senza fastidi facendo, di quell’organizzazione, il cartello criminale di gran lunga più pericoloso, più internazionale, più invasivo del nostro Paese, orientato a un lavoro transnazionale, soprattutto nel traffico di droga dove - sostiene la direzione nazionale antimafia - ha assunto "quasi una posizione monopolistica resa possibile dagli stretti collegamenti con i paesi produttori e con il controllo delle principali rotte di transito degli stupefacenti".
Oggi la ’ndrangheta è una multinazionale del crimine capace di essere, al tempo stesso, "locale" ("vero e proprio presidio territoriale, idoneo ad assicurare il controllo del territorio, nella sua accezione più ampia, comprensiva dunque di economia, società civile, organi amministrativi territoriali") e "globale", rete criminale connessa al mondo attraverso il narcotraffico e il traffico internazionale di armi. Sostiene la direzione antimafia: "Risulta ormai dimostrata l’elevata capacità della ’ndrangheta di rapportarsi con le principali organizzazioni criminali straniere, in particolare con i cartelli colombiani ed anche con almeno una struttura paramilitare colombiana che risulta coinvolta in attività di produzione e fornitura di cocaina. Sono consolidati e stabili i rapporti con i gruppi - sud-americani e mediorientali - fornitori di stupefacenti tanto da far divenire la ’ndrangheta, nello specifico settore, un punto di riferimento anche per altre organizzazioni criminali endogene".
Per sciogliere un nodo così serrato, come fu chiaro dopo l’assassinio in un seggio elettorale di Francesco Fortugno o la strage di Duisburg, sarebbe stata necessaria una battaglia nutrita di un alimento etico-politico; un adeguato sostegno dello spirito pubblico; il coinvolgimento di individui e gruppi, élite e popolo su obiettivi comprensibili e condivisi capaci di rendere concreta la convenienza della legalità e assai fallimentare la scelta della illegalità. Una "politica" che riuscisse a ridimensionare un potere militare, economico e politico che non accetta di essere messo in discussione nemmeno negli aspetti più marginali. Come testimonia il clima di intimidazione continuo che ogni istituzione o rappresentante delle istituzioni deve subire. Minacce. Attentanti con bombe. Fucilate alle porte di casa. Incendi di auto e di abitazioni. Ne sono stati vittima, nel corso del tempo, i sindaci di Reggio Calabria, San Giovanni, Seminara, Sinopoli, Melito Porto Salvo, Casignana, il vice sindaco di Palmi. Uno scenario che, come forse si ricorderà, convinse lo sconsolato presidente della Confindustria calabrese, Filippo Callipo, ad appellarsi al capo dello Stato per invocare la presenza nella regione dell’esercito.
La verità è che non è mai riuscita a diventare una priorità né dei pubblici poteri né dell’opinione pubblica la distruzione di un’organizzazione criminale capace di controllare un terzo del traffico di cocaina del mondo con profitti per decine di miliardi di euro né un’urgenza il riscatto di una regione dove operano 112 cosche, c’è un’intensità criminale del 27 per cento (pari a una persona su quattro), con un epicentro nel Reggino di 4/5 mila affiliati su una popolazione di 576mila abitanti. L’affare è precipitato, come sempre accade in casa nostra, sulle spalle della magistratura. Affar suo, soltanto suo. Gioco facile, per le ’ndrine, inquinare anche quelle acque nell’indifferenza dei governi e della consorteria togata.
Pochi mesi fa, della magistratura calabrese, fece un quadro esauriente e drammatico un giudice civile, Emilio Sirianni. Raccontò che cosa può accadere nelle aule di giustizia di quella regione. Nel novembre del 2006, a Vibo Valentia, fu arrestato il presidente di sezione del Tribunale civile insieme a pericolosi mafiosi locali. Sia prima che dopo l’arresto, c’è stato il silenzio intimidito o complice dei magistrati di quel Tribunale. La Procura di Locri è stata lasciata a lungo nelle mani di un giovanissimo magistrato e, solo quando andò via, si accertò l’esistenza di 4.200 procedimenti con termini scaduti da anni, su un totale di 5000 e di circa 9000 procedimenti "fantasma" (risultavano nel registro, erano inesistenti in ufficio).
Capita, in Calabria, di vedere entrare un avvocato in camera di consiglio e trattenersi a colloquio con i giudici durante la deliberazione. In Calabria può accadere che un giudice decida che un notaio, imputato di "falso ideologico", non sia considerato un pubblico ufficiale. Reato derubricato in "falso in scrittura privata", tempi di prescrizione ancora più brevi. Notaio prosciolto. Il pubblico ministero non propone l’appello. La disorganizzazione dell’ufficio lascia scadere i termini.
O il caso di quel bancarottiere? Dichiara di aver utilizzato i soldi distratti all’impresa per curare il fratello malato di cancro. Il giudice riconosce lo "stato di necessità" e, senza chiedergli prova della malattia del fratello e del suo stato di indigenza, lo proscioglie. Sulla parola. "Conformismo, tendenza al quieto vivere, fuga dai processi scottanti, pigrizia" sono per Sirianni i codici di lavoro della magistratura in Calabria, "una magistratura che - per indifferenza, paura, connivenza, conformismo, furbizia - gira la testa dall’altra parte, strizza l’occhio ad alcuni imputati, non vigila e non fa domande sulle anomalie dell’ufficio".
Stupirsi allora per una microspia? Meravigliarsi delle fughe di notizie pilotate che "salvano" gli indagati e soffocano le inchieste? Sbalordire se le trattative per un allentamento delle severe regole del carcere per i mafiosi siano protette con una "soffiata"?
* la Repubblica, 27 aprile 2008.
Criminalità, vertice antimafia a Lamezia Terme *
«Siamo venuti qui per riaffermare una presenza forte dello Stato in una realtà così esposta come Lamezia». A parlare è il vice-ministro dell’Interno Marco Minniti, al vertice sulla sicurezza pubblica che si è svolto a Lamezia Terme, in provincia di Catanzaro. Accanto a lui il procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso.
A Lamezia, dall’inizio dell’anno, si sono contati ben 8 omicidi e 87 atti intimidatori ai danni di esercizi commerciali, una situazione decisamente allarmante che testimonia di una recrudescenza della criminalità organizzata contro la quale dieci giorni fa sono scese in piazza cinquemila persone, in gran parte giovani.
Una cittadina blindata ha accolto i partecipanti al vertice sull’ordine e la sicurezza pubblica: tra loro anche il sottosegretario all’interno Ettore Rosato, il capo della polizia, Gianni De Gennaro, i prefetti di Catanzaro e Reggio Calabria, magistrati, vertici locali delle forze di polizia ed un rappresentante dell’ufficio legislativo del ministero della giustizia. Oltre, naturalmente, agli amministratori locali e al presidente della giunta regionale Agazio Loiero.
Il vice-ministro Minniti ha ricordato che nei giorni scorsi il presidente del consiglio, Romano Prodi, ha varato una «cabina di regia» sulle questioni economico-sociali e della sicurezza calabresi, una sorta di comitato interministeriale, dal premier stesso presieduto. «Non si può affrontare il problema sicurezza - ha dichiarato il procuratore Grasso - senza valutare il problema giustizia, deve essere un tutto armonico ed equilibrato se vogliamo dare una risposta efficace per risolvere il problema dei cittadini». «Sappiamo come sicurezza e giustizia devono camminare con lo stesso passo - ha detto Minniti -. Noi abbiamo intenzione di costruire con la regione un rapporto speciale, di lanciare un progetto per una "Calabria sicura", che possa vedere la partecipazione tra gli enti locali, la Regione e il governo nazionale, scegliendo alcune priorità».
«Non si può affrontare il problema sicurezza senza valutare il problema giustizia - ha detto Pietro Grasso -, deve essere un tutto armonico ed equilibrato se vogliano dare una risposta efficace per risolvere il problema dei cittadini». «Oggi siamo qui - ha detto Grasso - per affrontare i problemi di questa città, poi i problemi più generali della Calabria e di tutto il sud. Al momento - ha aggiunto il procuratore antimafia rispondendo alle domande dei giornalisti sul terremoto giudiziario di Vibo che ha visto inquisito un magistrato - non è una cosa che debba essere affrontata in questo momento».
* www.unita.it, Pubblicato il: 13.11.06 Modificato il: 13.11.06 alle ore 16.20