Il paese delle spie in fuga dalla politica
Obiettivo: demolire l’alternanza
di Barbara Spinelli (La Stampa,29/10/2006)
KOMPROMATY si chiamano nella Russia di Putin quei documenti destinati a compromettere l’avversario e liquidarlo nel momento più conveniente: cosa che di solito si fa non coi concorrenti politici, ma con i nemici in guerra. Il Cremlino affida la fabbricazione dei kompromaty a organi segreti che il potere personalmente controlla, siano essi pubblici o privati. I dossier son fatti per seminare paura, e di paura si nutrono: servono a ricattare, infangare, bloccare qualsiasi alternativa al regime esistente. Sono ingredienti basilari d’ogni dittatura e d’ogni regime dove lo Stato vien confiscato da una persona, un partito o una lobby. La politica della paura che regna dall’11 settembre ha immensamente affinato le tecniche di questi poteri segreti, e la loro disinvoltura. Chi si presta a simili operazioni - politici, funzionari pubblici sleali, giornalisti - ha il più grande disprezzo dello Stato e di chi fedelmente lo serve. È abituato ai bassi servizi, non al servizio della cosa pubblica: la res publica è qualcosa che non riconosce e in cui non crede.
Gli scandali scoppiati ultimamente in Italia - le rivelazioni sullo spionaggio fiscale di un gran numero di personalità e soprattutto dell’attuale capo del governo Romano Prodi, cui si aggiunge un piano del Sismi che risale all’inizio del governo Berlusconi, inteso a «disarticolare, anche con mezzi traumatici», i nemici del centrodestra - somigliano come fratelli gemelli all’uso che Putin fa del kompromaty (gli italiani, più fumosi, parlano di dossieraggio). Sono operazioni che vengono condotte a fianco dello Stato, ignorando e aggirando i molti suoi servitori onesti. È un lavoro - meglio sarebbe dire un lavorio, perché l’azione è martellante, di lungo respiro - che viene affidato a un potere non visibile, non eletto e non controllato. È un potere che fugge non solo lo Stato, ma la politica stessa: ambedue infatti - Stato e politica - sono giudicati da chi fa questi servizi come disprezzabili, inesistenti, comunque aggirabili.
Per questo Carlo Federico Grosso ha dato a quest’ennesima criminalità di corpi dello Stato (elementi della Guardia di finanza e del Sismi, appaiati) il nome di eversione, ieri su questo giornale. Eversione è una destabilizzazione permanente, un’erosione sistematica della cosa pubblica. Il dizionario Battaglia ricorda come fin dal ’400, nelle parole di Leon Battista Alberti, significhi «sovvertimento radicale e rivoluzionario (letteralmente atterramento) degli ordini politici o della struttura della società, compiuto dall’interno». Nell’ultimo decennio i commentatori hanno discusso spesso attorno alla natura del potere berlusconiano: era un Regime o no? Qui basti rammentare che l’eversione è arma essenziale d’ogni regime autoritario, brandita per conquistare il potere e poi mantenerlo. I cittadini che assistono all’emersione di questi crimini sanno che la storia italiana incessantemente li riproduce: ogni volta con le loro oscurità, che diventano perenni; con i loro personaggi, di cui si dimenticano presto i reati. Ogni volta con i loro giudici, accusati di malafede e fallimento per il solo fatto che non sempre riescono a condannare, pur avendo accertato colpe non confutate (è il caso di Andreotti, assolto anche se giudicato reo di associazione con la mafia fino al 1980).
Ma i cittadini sanno anche che nell’ultimo decennio le azioni dei corpi dello Stato che agiscono nell’illegalità si son moltiplicate, bersagliando ripetutamente la persona di Romano Prodi. La magistratura dirà se queste operazioni, che hanno come protagonisti Guardia di finanza, Sismi e servizi privati, hanno risposto a ordini del centrodestra che ha governato nel ’94 e nel 2001-2006. Fin da ora sappiamo tuttavia che le manovre hanno colpito soprattutto l’opposizione a Berlusconi, e che hanno fatto di tutto per inquinare o svuotare contropoteri indispensabili in democrazia (stampa e magistratura). Colpisce il piano del Sismi, che risalirebbe all’inizio del governo Berlusconi del 2001 e che Guido Ruotolo ha portato alla luce su La Stampa di giovedì. Il dossier cui si fa riferimento è stato trovato il 5 luglio dagli uomini della Digos, nella sede distaccata del Sismi diretta da Pio Pompa, uomo molto legato a Pollari, e conferma l’esistenza di un’eversione circostanziata. Colpisce soprattutto a causa del linguaggio: i redattori del piano d’azione si propongono di «colpire e disarticolare una struttura nemica del centrodestra con azioni anche traumatiche», è scritto nel dossier.
Disarticolare, struttura nemica, azioni traumatiche: chi ricorda i comunicati delle Brigate Rosse ritrova qui un vocabolario immondamente familiare. Un vocabolario che rimanda al linguaggio terroristico di servizi come il Kgb, rinato dalle ceneri grazie a Putin. Paralleli storici di questo tipo sono stati evocati da personalità note per la loro circospezione, in Italia. Degno di menzione è il discorso tenuto a Torino dal procuratore capo Marcello Maddalena, in occasione della cerimonia di inaugurazione dell’Anno Giudiziario 2006. Il magistrato si riferiva a una legge ad hoc del governo Berlusconi, che aveva impedito a Gian Carlo Caselli di divenire procuratore nazionale antimafia, e disse così: «L’episodio mi ha fatto venire in mente un motto tristemente famoso: colpirne uno per educarne cento. Hanno sbagliato i conti: siamo in novemila (tanti quanti sono i magistrati, ndr)». Colpirne uno per educarne cento era un motto di Mao Tse-Tung, fatto proprio dalle Brigate Rosse. Chi disarticola con azioni traumatiche ha questo in mente: colpisce per educare, cioè per avvertire ricattando, impaurendo. Chi opera in tal maniera vuol educare chi ancora serve lo Stato, scoraggiando la sua fedeltà. Vuole educare i giudici abolendone l’autonomia, educare i cittadini abolendo la fiducia che vorrebbero avere nel proprio Stato. Vuol educare infine l’opposizione, ricordandole che l’alternanza è - in Italia - la più pericolosa, stravagante, sconveniente delle avventure.
Questo si è inteso e s’intende ferire e demolire, usando i corpi dello Stato per azioni illegali. Non è questione solo di Prodi, nei cui conti si è spiato 128 volte con la speranza di eliminarlo come candidato alla successione di Berlusconi. Berlusconi stesso pare sia stato spiato. Il senso generale di queste operazioni destabilizzanti, che dopo Mani Pulite e la fine dei vecchi partiti non sono diminuite ma si son dilatate e hanno attinto forza nell’anti-politica, è quello di demolire due cose congiuntamente: l’alternanza intesa come alternativa, e il bipolarismo che ne è la premessa. In uno Stato slabbrato e sistematicamente aggirato - Aldo Schiavone lo spiega bene, nel libro Italiani senza Italia - il bipolarismo non può funzionare, o funziona appunto così: sempre alle prese con azioni eversive, e con un potere che fugge il più lontano possibile dalla politica, sino a divenire totalmente opaco e a smaterializzarsi.
L’azione eversiva di corpi che formalmente appartengono allo Stato ma in realtà rendono servizi a chi se n’è impossessato ha come scopo quello di creare una situazione in cui cambiare le cose (il funzionamento dell’amministrazione pubblica, la forma più meno trasparente della politica, la giustizia) diventa impossibile. Più crescono le forze di chi vuol cambiare, più i poteri paralleli fuggono per irrobustire lo status quo e impedire riforme profonde d’ogni tipo. Una volta era il denaro a fuggire, destabilizzando l’Italia, quando si annunciavano cambiamenti politici sostanziosi. Oggi è il potere stesso a mettersi in fuga: fuga dalla politica, dalla giustizia, dalla buona amministrazione. Dalla P2 è sempre la stessa storia: è la storia di poteri che investono tutto sulla debolezza della cosa pubblica, rendendola sempre meno pubblica e sempre più privata. Berlusconi forse non è all’origine di tali manovre. Ma senz’altro è all’origine di questa confisca-privatizzazione della politica, del prevalere metodico dell’interesse particolare su quello generale, di una retorica che critica lo Stato per meglio estenderne le violenze arbitrarie. Il suo stesso ingresso in politica avvenne all’insegna di tale privatizzazione. Lui stesso spiegò a Enzo Biagi la molla che nel ’94 lo fece scendere in campo: «Caro Biagi, se non entro in politica mi fanno fallire».
Una delle cose più perturbanti in queste ore è la reazione intimorita, lenta, di molti politici: non son pochi, nell’opposizione e fuori, che proprio a causa di questi scandali sostengono la necessità di larghe intese, più che di vero risanamento. Proprio ora urgerebbe rinunciare a quel bipolarismo e a quelle chiare alternanze che i poteri paralleli intendono da decenni disarticolare, traumatizzare. Parlare in queste condizioni di larghe intese significa prender atto della disarticolazione, cedere alla sua pressione eversiva, farsi metter paura, scegliere non il compromesso ma la compromissione. Significa riconoscere che in Italia, a differenza dei Paesi dove la democrazia cammina, non sono praticabili alternanze autentiche perché non esiste una struttura dello Stato che sopravviva integra, con i suoi leali e neutrali servitori, ai mutamenti di maggioranza. Significa convincere gli italiani che tutti i politici si equivalgono, che nessuno servirà qualcosa di diverso dall’interesse privato.
Può darsi che un giorno l’Italia avrà bisogno di larghe intese (o non potrà far altro che questo, come ha dovuto Angela Merkel, senza volerlo, in Germania). Ma le larghe intese come risposta a quel che sta accadendo, è congedo dal bipolarismo e vittoria dell’eversione. Due sono infatti le conclusioni che si possono trarre dagli odierni avvenimenti. O il bipolarismo e l’alternanza sono improponibili in Italia, perché lo Stato non esiste, e allora le larghe intese sono la via, anche se la via dell’abdicazione. Ci sono pessimisti che condividono quest’opinione e parlano di alleanze tra volenterosi, senza mai chiarire cosa i volenterosi debbano volere. Oppure si riforma lo Stato non limitandosi a far cadere qualche testa, ben sapendo che minacciati - dunque da salvare - sono sia le alternanze sia il bipolarismo. Stare in bilico ed esitare è la terza via, tante volte imboccata e tante volte perdente. Quando scoppiano scandali di questo genere si sente sempre solo un’esclamazione: «È inaccettabile!». La parola è vana: andrebbe bandita dal dizionario dei politici rispettabili. Il politologo francese Raymond Aron diceva che nel momento stesso in cui prendi tempo per pronunciare l’aggettivo - inaccettabile - hai già accettato. Vuol dire che la minaccia oscura ha funzionato. Che cerchi un accomodamento con l’eternità dell’illegalità. Che hai rinunciato a combatterla, e non credi già più né nella politica, né nell’alternanza.
Rischio eversione
di Carlo Federico Grosso
(www.lastampa.it, 28/10/2006)
UNA nube inquietante è tornata a premere sulla politica italiana. Si è appreso che a partire dall’estate 2001, poco dopo l’insediamento del governo Berlusconi, una struttura legata al Sismi aveva raccolto informazioni su alcuni politici e magistrati con l’obbiettivo di «disarticolare» un loro asserito progetto antigovernativo. Subito dopo si è saputo che verso la fine della passata legislatura politici e non politici, ma soprattutto Prodi e sua moglie, sono stati spiati con ripetute intrusioni illegittime nei loro dati tributari.
Entrambe tali vicende appaiono gravissime. Qualunque sarà il loro specifico epilogo giudiziario, esse hanno l’odore pesante della slealtà istituzionale, dell’intimidazione, del ricatto, del fango. Lo stesso odore di molte altre inquietanti vicende che hanno intossicato la democrazia italiana nel corso degli anni. Per indicare soltanto le più recenti, ricordo le calunnie emerse durante l’attività della Commissione parlamentare su Telekom Serbia, i dossier illegali Telekom reperiti nell’ufficio di un agente dei servizi, il dossier Betulla sulle asserite coperture del sequestro di Abu Omar da parte del presidente della Commissione Europea dell’epoca.
E’ peculiare che tutte queste intossicazioni abbiano riguardato fra gli altri, ma soprattutto, la persona dell’attuale presidente del Consiglio. Può darsi che si sia trattato di una circostanza casuale. In ogni caso non si può che essere molto preoccupati. Se vi fosse stato un piano per distruggere l’immagine di chi nel 2005/2006 si apprestava a diventare il leader della coalizione elettorale di centrosinistra, ci troveremmo infatti di fronte ad una vera e propria operazione di natura eversiva dell’ordine democratico che si affiancherebbe alle numerose operazioni eversive che hanno contraddistinto, negli anni, il travagliato cammino della democrazia italiana.
Oggi non possediamo elementi ai quali affidare una risposta certa. Possiamo peraltro annotare i dati di cronaca.
Con riferimento alle intrusioni negli archivi tributari, abbiamo appreso che esse sono state particolarmente numerose nei confronti di Prodi e di sua moglie e che hanno avuto due picchi, rispettivamente individuati nell’ultima decade di novembre 2005 ed a cavallo tra marzo ed aprile 2006. I cronisti hanno rilevato che il primo picco corrisponde al periodo in cui è apparso su di un quotidiano un articolo sulla sanatoria fiscale ottenuta da una società partecipata dalla moglie dell’allora presidente Ue; che il secondo è a sua volta concomitante, oltre che con la vigilia dell’ultima campagna elettorale, con la pubblicazione della notizia secondo cui i coniugi Prodi avrebbero donato a fini fiscali un alloggio ai figli. Operazioni entrambe assolutamente legittime, che sono state tuttavia descritte analiticamente ed utilizzate per cercare di gettare discredito sul presumibile, se non già certo, candidato premier dell’Unione e per danneggiare la sua campagna elettorale. Sappiamo pure che Prodi non molto tempo prima era stato falsamente accusato di avere percepito tangenti concernenti la vendita di Telekom Serbia, che nei suoi confronti era stato confezionato un falso dossier che lo coinvolgeva nel sequestro di Abu Omar, che era stato più volte menzionato nei dossier Telekom.
Tale sequenza è molto inquietante, anche se, per ora, non vi è traccia di una regia: non è provato che ci sia un movente politico, non sono dimostrati collegamenti fra le diverse vicende menzionate, non si può escludere neppure che si sia trattato, come ha sostenuto qualcuno, di mera sciatteria nell’uso delle password o di pruriginosa curiosità per i dati personali di persone famose. Non si può, tuttavia, accettare che da coloro che erano al governo quando i fatti sono stati compiuti giungano reazioni infastidite, tentativi di minimizzare, accuse di strumentalizzazione nei confronti di chi registra con allarme la degenerazione della vita istituzionale e politica italiana.
Le vicende emerse sono, infatti, di estrema gravità. Si tratta ora di sapere se esse concretano episodi scomposti di ordinaria criminalità comune o politica o se si inseriscono in un ancora più pericoloso progetto di destabilizzazione e di eversione dell’ordine democratico.
Il plenum del Consiglio superiore della magistratura interviene sull’attività di spionaggio sui giudici
"Il Sismi ha svolto un’attività estranea ai compiti dei servizi fatta per intimidire e far perdere credibilità"
Toghe spiate, Csm contro il Sismi
"Fu il servizio e non settori deviati" *
ROMA - E’ stato il Sismi e non i "settori deviati" del servizio a svolgere l’attività di spionaggio nei confronti magistrati che è venuta alla luce con la scoperta dell’archivio di via Nazionale a Roma. A dirlo è una risoluzione approvata all’unanimità dal Plenum del Csm.
Secondo il Consiglio superiore della magistratura il Sismi ha svolto un’attività "estranea" ai suoi compiti con lo scopo "intimidire" e far "perdere credibilità " ai magistrati.
Il vicepresidente del Csm Nicola Mancino, prima dell’approvazione da parte del plenum di Palazzo dei marescialli aveva dichiarato che "c’è stato uno sviamento di poteri da parte del Sismi. L’attività del servizio è andata al di là delle proprie attribuzioni e competenze".
La risoluzione del Csm arriva dopo le dichiarazioni dell’ex funzionario Pio Pompa che aveva voluto sminuire l’importanza dell’archivio. "La quasi totalità del materiale sequestrato nei miei pc personali - aveva scritto nella dichiarazione spontanea consegnata ieri pomeriggio al pm Pietro Saviotti - proviene da fonti aperte (internet, organi di informazioni, etc.). Le informazioni contenute nei files attinenti a magistrati sono tutte, ribadisco tutte, di fonte pubblica, giornalistica o informatica".
* LA REPUBBLICA, 4 luglio 2007
Buonasera, inutile solo scrivere, scrivere cose inquietanti. Adesso bisogna fare. In che modo , qualcuno potrebbe dire ! giusto ? perfetto: Nel modo che avete " già compreso " prima di iniziare. Vi scrivo una frase per farvi sciogliere.
In principio era il " verbo " , il verbo era presso Dio, il verbo era Dio. Tutte le cose sono state fatte per mezzo di lui ( ..) < Niente è stato fatto se non per lui (..)> Può bastare ?? Si , dai. Ci legheremo quando avete compreso.
Uno degli "accessi" abusivi su Prodi è partito da una caserma nel Novarese. E a Torino uno degli indagati aveva pistole in casa: arrestato
Politica e spionaggio: un "filo" tra spie fiscali e Laziogate
Oggi a Milano sono in programma i primi interrogatori
di ORIANA LISO e FERRUCCIO SANSA (www.repubblica.it, 30.10.2006)
MILANO - I primi interrogatori degli indagati partiranno soltanto oggi. Ma nell’inchiesta sullo spionaggio fiscale che ha scoperchiato una storia di sistematiche intrusioni nelle banche dati riservate del nostro Paese - e che vede tra gli spiati il premier Romano Prodi - gli investigatori dello Scico stanno lavorando sui primi collegamenti più inquietanti di questa vicenda, in attesa di fare un punto su tutto il materiale raccolto durante le 250 perquisizioni e di iniziare a scremare le posizioni meno interessanti da quelle ritenute a rischio di mercanteggio delle informazioni raccolte con soggetti non ancora identificati.
Un collegamento, per primo, finisce sotto osservazione: uno dei tre accessi ritenuti più allarmanti sarebbe partito dalla tenenza della Guardia di Finanza di Borgomanero, vicina alla caserma di Novara. Qui, pochi mesi fa, furono arrestati due finanzieri per il "Laziogate".
Anche in quel caso una vicenda di spionaggio politico, anche allora un archivio informatico (quello dell’anagrafe del Comune di Roma) violato. Il candidato del centrodestra alla presidenza della Regione Lazio, Francesco Storace, finì sotto indagine. Gli obiettivi erano i suoi avversari Piero Marrazzo e Alessandra Mussolini. I due giovani finanzieri - nell’ordinanza del gip milanese Paola Belsito, nel marzo scorso - vengono identificati come quelli che lavoravano per Gaspare Gallo, socio di Pierpaolo Pasqua nell’agenzia investigativa al centro della spy story.
Il gip ipotizzava che i due, dietro compenso, facessero accessi abusivi non solo al registro informatico del ministero dell’Interno, ma anche a quello dell’Agenzia delle Entrate, "una banca dati ad accesso riservato, il che significa che i dati in essa raccolti rientrano tra quelli per cui vige il segreto d’ufficio", spiegava il gip.
Ora gli investigatori, coordinati dal pm Francesco Prete, stanno analizzando i legami tra i finanzieri del "Laziogate" e quello indagato (con nove colleghi) per aver interrogato il computer sulla posizione fiscale del premier. Un altro dei piemontesi coinvolti nell’indagine - un dipendente dell’Agenzia delle Entrate - è stato arrestato dalle Fiamme Gialle di Torino perché, durante la perquisizione in casa sua, giovedì scorso, sono state trovate due pistole detenute illegalmente e quaranta proiettili. Niente arresto ma una denuncia per detenzione abusiva per un suo collega che aveva in casa un fucile da caccia non denunciato. Stessa sorte per suo figlio, che aveva in camera un etto di marjuana. Arrivano anche le prime autodifese: "Mai fatto accertamenti su Prodi e la moglie - dice una dipendente delle Entrate di Ascoli Piceno - . Qualcun altro deve aver usato la mia password".
In attesa dei risultati dell’indagine della magistratura, la vicenda tiene banco nei palazzi della politica. Avviare un’indagine parlamentare per "verificare se l’impianto legislativo vigente presenta maglie di controllo ancora troppo larghe": a chiederlo è Pierluigi Castagnetti, vicepresidente della Camera: "La gravità dei reati di spionaggio fiscale per fini politici - attacca Castagnetti - chiama in causa il Parlamento". Risponde il leader di An Gianfranco Fini: "Bisogna perseguire eventuali responsabilità personali, non alzare polveroni, non gettare sospetti sulla Guardia di Finanza e anche sui nostri servizi di informazione".
Chiude il ministro della Giustizia Clemente Mastella: "Non c’è un Watergate all’italiana, ma grave è l’episodio che tocca Prodi: è un modo di fare campagna elettorale che non esiste neppure nelle condizioni tribali".
(30 ottobre 2006)
L’ANALISI
La grande rete del potere occulto, così lo spionaggio è diventato politico
DI GIUSEPPE D’AVANZO (www.repubblica.it, 27.10.2006)
SE SI SEPARA il grano dal loglio, e non ci si fa confondere dal rumore delle chiacchiere, la trama di questo nuovo capitolo dello spionaggio illegale - affare integralmente politico - non ha alcun mistero. E’ sufficiente saper leggere le impronte che i protagonisti "maggiori" dell’affaire hanno lasciato sulle cose. Bisogna chiedersi: quali informazioni abusivamente sottratte all’anagrafe tributaria sono state utilizzate in pubblico? Contro chi? A quale fine? E’ la prima necessaria scrematura. E’ vero, tra le vittime delle intrusioni ci sono anche, a quanto pare, calciatori e soubrette. Ma voi ne avete mai saputo qualcosa? No, perché quelle notizie fiscali non sono state agitate in pubblico contro di loro.
Dunque, tra i ficcanaso dell’amministrazione delle finanze ci sono degli scimuniti che, per curiosità invidia o vattelapesca, gettano un occhio sul reddito della gente che vede allo stadio o in televisione. Come è vero che, accanto agli scimuniti, appare un buon numero di pitocchi che, per un biglietto da venti euro, "vende" all’agenzia di investigazione privata il profilo finanziario e patrimoniale di un cittadino-contribuente. Magari molto utile alla moglie che, prossima al divorzio, vuol sapere quanto davvero guadagna il marito. Fin qui, siamo sempre nel territorio degli abusi e dell’infedeltà, ma non c’è nulla di politico. La politica - il fine politico - affiora quando si scopre che tra gli "spiati" ci sono Prodi, Napolitano e Berlusconi. Non tutti uguali, però. Perché gli "spioni" non riservano a tutti lo stesso destino.
Speculazioni con notizie riservate e abusive sulle finanze di Berlusconi, alla vigilia del voto di aprile, nessuno ne ha lette. Nessuno le ha sciorinate in pubblico. Un affondo, all’inizio dell’anno, contro il futuro capo dello Stato invece c’è stato. Pallido, sconveniente, non insistito. È soprattutto quel che accade a Prodi che ci fa comprendere qual è la macchina che si è messa in moto; chi sono i macchinisti; qual è l’obiettivo. Non sembra esserci alcun mistero.
Le tracce elettroniche, prova incontestabile dell’accesso clandestino, raccontano che la muffa aggredisce Prodi in tre ondate. Tra il 21 e il 24 novembre 2005; il 22 gennaio 2006; tra il 30 marzo e l’8 aprile. Non è un lavoro di curiosi. Non è fatica di chi apre il file "eccellente" e getta un occhio su una schermata, magari su due, e passa ad altro. È opera professionale che prende molto tempo, che richiede l’intrusione in più banche dati, che pretende uno screening esaustivo del Prodi contribuente: informazioni sul reddito, atti del registro tributario, partecipazioni societarie, atti di compravendita.
Di questo compito non si incarica un impiegato civile, ma - a quanto riferiscono autorevoli fonti - un militare, un sottufficiale della Guardia di Finanza. Che difficilmente si avventura in un’impresa temeraria di questo genere senza aver ricevuto un ordine superiore. Anzi, a sentire altre fonti vicine all’inchiesta, ci sarebbe già qualche "ammissione" su quegli "ordini venuti dall’alto".
Dov’è allora il mistero di questo ultimo affaire spionistico? Possono ancora essere un mistero inglorioso i passi storti consumati dentro la Guardia di Finanza? Abbiamo potuto vedere ingrassare la "politicizzazione della sicurezza nazionale" quasi mese dopo mese. Era sufficiente seguire le "strategie integrate" di influenti network all’interno della Guardia di Finanza e del Sismi.
Quasi ingranaggi di un unico ordigno. Al servizio segreto trasmigrano ottocento finanzieri e il patrimonio informativo dell’intelligence è alimentato dalle notizie raccolte nel territorio dalle sezioni "I" (Informazione, Intelligence) della Guardia di Finanza ed elaborate al centro dal II Reparto. Dal servizio segreto si trasmettono alla Guardia di Finanza richieste di informazioni, input, "obiettivi". I rapporti tra i vertici dei due apparati sono così stretti che, appena qualche mese fa, il direttore del Sismi Nicolò Pollari si lascia intercettare, nel corso delle indagini milanesi, mentre utilizza il telefono cellulare di Emilio Spaziante, capo di stato maggiore della Guardia di Finanza.
È quel "gioco grande" che, per cinque anni, ha alimentato l’ambizione di un inedito e nascente potere, sbocciato nel corso della legislatura appena chiusa, con l’integrazione tra lo spionaggio politico-militare del Sismi e l’intelligence economico-finanziaria della Guardia di Finanza. Un potere che, se capace di sopravvivere al cambio di regime, poteva diventare - può ancora diventare - un moloch con cui una politica debole e un capitalismo fragile dovrebbero fare i conti, stringere patti o subirne umori e voglie, come nel silenzio di una politica timorosa o intimidita ha scritto Repubblica, otto mesi fa. Nel silenzio assordante di leader politici di prima e seconda fila che oggi, finalmente desti, chiedono che si faccia qualcosa.
In quel silenzio, e gliene va dato oggi atto, soltanto Marco Minniti (adesso viceministro agli Interni) ebbe il coraggio di levare la voce e proporre all’opinione pubblica una radiografia che ora appare esatta forse più di quel che allora immaginava il suo autore. Disse Minniti a Repubblica, era il 12 marzo: "Questa maggioranza e questo governo hanno fatto una scelta disastrosa. Hanno politicizzato la nostra sicurezza nazionale, privatizzandone interi pezzi. In nome di un interesse politico di parte, hanno creato le condizioni perché si sviluppasse un agglomerato oscuro fatto di agenzie di investigazione e polizie private in combutta con infedeli servitori dello Stato, che a quell’interesse di parte rispondono e che in nome di quell’interesse di parte si muovono, in una logica di ricatto. È uno spettacolo spaventoso e per nulla antico. Al contrario è assai moderno e vi si colgono i tratti propri delle derive autoritarie anche di altre grandi democrazie moderne".
Dov’è allora il mistero? Da mesi è tutto sotto i nostri occhi. E il problema oggi non è soltanto che cosa accaduto e per responsabilità di chi. Le responsabilità politiche del governo Berlusconi sono evidenti, nonostante il polverone. La questione che sembra ancora non trovare il giusto rilievo nell’agenda politica del governo Prodi e della maggioranza che lo sostiene è "che fare", come farlo, quando farlo? Si odono litanie farfalline, sortite irrilevanti. Si immagina che l’oscurità che ha fatto di piombo la qualità della democrazia nei cinque anni passati sia lavoro di poche "mele marce" nel cesto mentre invece è della forma di cesto che ci si dovrebbe occupare. Si dice: la magistratura faccia il suo lavoro. Dimenticando che i tempi della giustizia sono lunghissimi, illuminano fatti penalmente rilevanti e puniscono - quando puniscono - soltanto responsabilità personali.
È una macchina che soltanto impropriamente e "per supplenza" affronta fenomeni e patologie. È la meno adatta a dare le risposte concrete e immediate che appaiono necessarie per diradare la nebbia spessa che sembra avvolgere la vita pubblica italiana. Si dice: il Parlamento avvii una commissione d’inchiesta che abbia i poteri d’indagine della magistratura.
E con quali tempi, ammesso che il lavoro di questa commissione sia più decente di quello di altre commissione del passato, si giungerebbe a un esito utile? Sei mesi? Un anno? Per intanto, il moloch se ne starà quieto ad attendere la sua fine o si difenderà come può e come purtroppo sa? La verità è che nessuno ieri, nel gran chiasso dichiaratorio, ha chiesto che il governo faccia subito la sua parte. Garantisca subito, con gli strumenti a sua disposizione, l’affidabilità, la correttezza e la trasparenza delle burocrazie della sicurezza infettate. Promuova il governo, subito, una commissione d’inchiesta amministrativa che possa restituire dignità a quelle istituzioni dello Stato e serenità a chi, come tutti noi, deve sentirsene protetto.
(27 ottobre 2006)
Sulla lunga cordata di interessi (con tutti i comportamenti connessi) - come si sa, il "particulare" ha segnato da sempre la vita della nostra società - che ha tenuto e vuole continuare (dal di dentro e dal di fuori) a tenere "per il collo" la nostra ITALIA, la Casa di tutti i cittadini e di tutte le cittadine, a livello generale, sul sito, si cfr. la breve ’vecchia’ lettera-annotazione:
http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=381
Tutte le strane coincidenze della notte dell’11 aprile
di Oreste Pivetta *
Hanno ucciso la democrazia? Probabilmente no, anche se si dovrebbe discutere a lungo sui limiti, sulla sostanza... La democrazia, magari in forme traballanti, è viva. Ma che muoia non si può escludere. Con le armi, con i botti, con i proclami radiofonici? No. Inquieta nel film di Beppe Cremagnani e di Enrico Deaglio, regia di Ruben Oliva, l’idea che possa accadere senza che nessuno ci avverta, nel pieno rispetto delle forme, silenziosamente, con grazia tecnologica. Uccidete la democrazia. Memorandum sulle elezioni di aprile (che non vedrete in tv, ma il dvd con il libro che l’ha ispirato, Il broglio di un anonimo Agente italiano lo troverete in edicola da venerdì 24 novembre) è la storia di una ipotesi che potrebbe essere realtà. Con un cadavere, l’arma del delitto, il movente. Nessuno però che si penta. Il cadavere sta appunto all’inizio del film, appena dopo le immagini di una corte di giustizia americana dove un cittadino qualunque, tal Clinton Curtis, programmatore elettronico della Florida, il 13 dicembre 2004, appena chiuse le presidenziali, racconta come un voto lo si possa manipolare. «Non se ne sarebbero mai accorti», confessa Curtis. Che aggiunge, rispondendo a un giudice circa l’eventualità di brogli: «Sì, quando gli exit polls differiscono in maniera sostanziale dal risultato finale, vuol che l’elezione è stata truccata..».
Chi guarda questa scena ripiomba tra gli incubi dell’11 aprile, quando, dopo aver ascoltato exit polls che offrivano garanzie di vittoria al centrosinistra, era stato costretto a subire l’onda di ritorno del centro destra, numeri su numeri che chiudevano la forbice delle ore 15 e allineavano sugli stessi destra e sinistra. Il film rende le emozioni di quelle ore, quasi scandite dalle mosse degli uomini del potere in corso: il via vai dei Cicchitto e dei Bondi, persino di Previti, il volo su Roma dell’uomo di Arcore, il battere dei tacchi anche di un ministro degli Interni che non sente il dovere di respingere la convocazione di Berlusconi a Palazzo Grazioli, invece di rimanere a sorvegliare il Viminale. Il controcanto è di una folla inquieta che si sente tradita. La prima domanda, il primo dubbio sono del conduttore di Popolare Network, Massimo Rebotti, quando Pisanu annuncia il calo delle schede bianche: «A questo punto il sospetto di brogli è legittimo».
La seconda parte del film è la spiegazione: la campagna elettorale e il nuovo sistema elettorale, l’informatizzazione del voto (grazie al figlio di Pisanu e a una società americanam, Accenture, che lavorava in Florida e che Clinton conosce bene), il comizio di Berlusconi a Roma, i guai giudiziari di Previti, quelli con la mafia di Dell’Utri, quelli futuri dell’azienda Mediaset, la "scena" che obbliga il capo della destra a cercar di vincere, ad ogni costo.
Il sospetto che qualcosa di strano sia accaduto viene dal crollo delle schede bianche: in 5 anni da un 1.600.000 a 445 mila, dal 4,2% all’1,1%. Crollo che conduce a un percentuale uniforme: la Calabria ad esempio da 157 mila a 53 mila. Le schede bianche che finiranno in una busta sigillata insieme con le schede nulle, che diventano, «fantasmi, numeri senza proprietari...».
Torna in scena il nostro programmatore americano, Curtis Clinton. Deaglio lo raggiunge. E lì davanti a un computer portatile imbastisce in pochi minuti un programmino che si mangia le schede bianche e le risputa colorate, esattamente come il "mandante" pretende. Da schede bianche a voti della coalizione tal dei tali. Possibile: basta risolvere qualche problemino di matematica, poi le macchine consentono tutto, basta un bravo programmatore e qualche aiuto, qualcuno che inserisca il programma nel sistema, al centro, e non è detto che debba conoscere il significato dell’operazione. Ma restano i voti sulle schede... Una volta che i voti li hai trasmessi non li vedi più. E le procedure si possono chiudere? In qualsiasi momento.
Il film si chiude con il solito Berlusconi che grida allo scandalo dei brogli e un vecchio proverbio... «La gallina che canta...». Però, perché Berlusconi non ha vinto? Perché Pisanu non lo ha seguito fino alla fine? Vecchio fiuto democristiano, spiega Gola profonda il bravissimo Elio De Capitani): Pisanu ha capito che il gatto s’agitava, ma era un gatto morto.
* www.unita.it, Pubblicato il: 17.11.06 Modificato il: 17.11.06 alle ore 8.53