Le tecniche per conservare le testimonianze della nostra storia ai posteri. Dai messaggi in bottiglia all’Arca di Noè norvegese con 3 milioni di semi vegetali.
"Ricordatevi di noi nell’anno 8113" la storia è nella capsula del tempo
di ANNA MARIA SELINI *
Il messaggio in bottiglia? Acqua passata. Le fotografie e i ricordi nella scatola? Deteriorabili. Suoni ed immagini in dvd? Antiquariato. Se volete che i posteri, terrestri e non, si ricordino di voi e sappiano davvero come, dove e quando siete passati da queste parti, è giunto il momento di preparare una capsula del tempo: un qualsiasi contenitore cioè, da un barattolo, a una sonda spaziale fino a un sito internet, creato per conservare informazioni o materiale da ritrovare nel futuro.
E se per ora non ve la sentite di spedire ricordi nello spazio, potete sempre lasciare tracce della vostra presenza sul web o affidare alle pagine di un diario, rigorosamente virtuale, il racconto del vostro passaggio sulla Terra. In attesa che qualcuno nel lontano 8113, ad esempio, lo possa ritrovare e soprattutto decifrare.
Racconti e tracce sul web. Da sempre gli uomini sentono il bisogno di lasciare testimonianze per essere ricordati o ricordare il tempo e il mondo in cui hanno vissuto. Ma se una volta a parlar di noi erano le opere architettoniche, gli scritti, o gli oggetti del passato, oggi i messaggi per i posteri finiscono sul web o si raccolgono in un blog. L’ultimo nato, già ribattezzato il "diario più grande del mondo", è "One day in history", il progetto culturale inglese che consente a chiunque di raccontare come ha trascorso un’intera giornata (la data prescelta è il 17 ottobre).
Le cronache verranno poi conservate negli archivi della British Library e saranno così accessibili ai futuri studiosi del XXI secolo. Migliaia i post già raccolti, così come quelli che sta accumulando Yahoo! nella sua "capsula del tempo" digitale, che l’8 novembre prossimo verrà proiettata nello spazio con un raggio laser. Si tratta di un gigantesco mosaico dove ognuno può lasciare una testimonianza destinata alle generazioni future, in forma di scritti, foto, video, suoni o disegni, dedicati ad argomenti predefiniti.
I contributi digitalizzati e divisi per tipologia, sesso, età, paese e regione, finiranno nella capsula, che verrà sigillata e riaperta nel 2020 nella sede di Yahoo! in California, in occasione del 25esimo anniversario della società.
In principio furono le scatole. All’inizio del 1900, un gruppo di studentesse americane del Mount Holyoke college, in Massachusetts, sigillò una scatola di metallo destinata alle colleghe del lontano anno 2000. Una volta aperta, 100 anni e 20 minuti dopo (i minuti necessari ai fabbri per scardinarla), all’interno sono stati trovati un berretto universitario, programmi teatrali, una foto della classe 1900, alcune monete, un libretto d’esami e soprattutto un messaggio. "Se la scienza vi ha insegnato quello che molti credono sarà uno degli elementi più diffusi delle vostre conoscenze, ovvero il potere di comunicare con il mondo invisibile dal quale saremo osservando il vostro destino - recitava il testo - vi preghiamo di rispondere a questo messaggio".
Nel 1938 anche Albert Einstein e Thomas Mann inserirono i loro messaggi per i posteri in una capsula del tempo (un cilindro di lega di rame), presentata dalla compagnia elettrica Westinghouse alla fiera mondiale di New York del ’39. "La nostra epoca è ricca di menti fertili - scriveva Einstein - purtroppo però i popoli che vivono in paesi diversi si uccidono a vicenda a intervalli di tempo imprevedibili e quindi chiunque pensi al futuro deve vivere nella paura. Mi auguro che i posteri leggeranno quanto sopra con un senso di orgogliosa superiorità".
La società internazionale delle ’capsule’. Quella di un contenitore ad hoc, dove conservare oggetti o informazioni e destinato ad essere ritrovato in un’epoca futura, è un’idea che vanta numerosi "adepti" in tutto il mondo. Tanto che nel 1990 ad Atlanta, in Georgia, è nata l’International Time Capsule Society (ITCS), società con il compito di studiare e catalogare le capsule del tempo sepolte in giro per il mondo, con relativo contenuto, posizione e date di chiusura e presunta apertura. Secondo l’ITCS sarebbero oltre 10 mila quelle sparse in tutto il mondo - incluse quelle lanciate dalle sonde spaziali - e molte di loro sarebbero andate perse, raggiungendo nel tempo un valore inestimabile, oltre che un alone quasi mitico.
Tra le più ricercate, ad esempio, c’è la capsula del tempo che il presidente degli Stati Uniti, George Washington, avrebbe inserito nel 1793 all’interno della prima pietra del Campidoglio. Ma nonostante i diversi interventi subiti dall’edificio negli anni, non è mai stata ritrovata e ancora oggi si ignora se veramente sia esistita e se contenesse o meno qualcosa. E proprio presso l’Università di Oglethorpe, ad Atlanta, dove ha sede l’International Time Capsule Society, si conserva la "Cripta della civiltà": una stanza sotterranea sigillata nel 1940 - contenente più di 640mila pagine su microfilm, libri, oggetti, documenti audio e video, un pupazzo di Paperino e molto altro materiale d’epoca - che dovrà essere aperta solo nell’anno 8113.
L’arca di Noè norvegese. Il giugno scorso, sull’isola di Sptizberg, in Norvegia, è stata posata la prima pietra dell’"Arca di Noè vegetale", come l’ha definita il governo di Oslo, o "Cassaforte del giorno del Giudizio", come l’hanno chiamata invece i suoi inventori. Si tratta di una sorta di gigantesco freezer capace di proteggere e conservare i semi dei tre milioni di specie vegetali presenti sulla Terra, anche da esplosioni nucleari, disastri naturali o semplici errori umani.
A difendere i semi saranno la temperatura costante di 20 gradi sotto zero, una caverna rinforzata da un guscio di calcestruzzo spesso un metro e porte blindate d’acciaio dello stesso spessore e soprattutto il naturale clima artico, con una temperatura massima di -3°C.
Il progetto, patrocinato dal Global Crop Diversity Trust (Gcdt), il fondo fiduciario mondiale per la varietà globale delle colture e finanziato per 2,5 milioni di euro dal governo norvegese, mira soprattutto a fornire i mezzi pratici per rimpiantare le colture distrutte in caso di catastrofe. Oltre che a lasciare una mappa vegetale del nostro pianeta ai posteri. Terrestri o extraterrestri che siano.
Arrivederci nell’anno 52007. Tra le capsule del tempo vi sono anche quelle destinate a potenziali creature aliene, inviate nello spazio a bordo di razzi o satelliti, al fine di rendere nota la nostra esistenza. Le sonde Voyager 1 e Voyager 2, lanciate dalla NASA nel 1977, ad esempio, contenevano un disco d’oro sul quale erano stati memorizzati suoni ed immagini della Terra, con spiegazioni per ascoltarlo e localizzare il nostro pianeta.
Ma la più importante capsula del tempo per i posteri, almeno nelle intenzioni, sarà quella contenuta da Keo, il satellite spaziale che dovrebbe essere lanciato tra il 2007 e 2008 e tornare sulla Terra dopo 50 mila anni. Il progetto, supportato tra gli altri dall’Unesco e dall’Agenzia Spaziale Europea (ESA), prevede la raccolta di diverso materiale da tramandare ai posteri: da ritratti dei diversi gruppi etnici a una sequenza del DNA umano, a campioni di acqua, aria, terra e sangue e molto altro. Ma Keo avrà soprattutto il compito di trasportare i messaggi che gli uomini e le donne del 21esimo secolo avranno voluto mandare ai chi verrà dopo di loro. Ognuno di noi, infatti, senza censure, e nella propria lingua, può inviare gratuitamente un contributo al sito del progetto (www.keo.org) o via posta, entro il 31 dicembre 2006.
I messaggi, che verranno inseriti nel database digitale a bordo della capsula, dovranno rappresentare - secondo gli ideatori - "le diverse culture del mondo, nella speranza che la Terra possa diventare più responsabile, equa, giusta e meno violenta". Ai posteri, dunque, l’ardua sentenza. (3 novembre 2006)
* www.repubblica.it, 03.11.2006
Ansa» 2008-02-26 18:51
NEI GHIACCI ARTICI L’ARCA DI NOE’ DEI SEMI
ROMA - E’ sepolta nei ghiacci l’arca di Noé dei semi. Il deposito destinato a conservare e proteggere la biodiversità delle colture alimentari di tutto il mondo si trova immerso nei ghiacci dell’Artico, nel cuore di una montagna dell’arcipelago norvegese delle Svalbard. E’ destinato a contenere 100 milioni di semi provenienti da 100 Paesi, assicurandone la conservazione, per migliaia di anni.
"Insieme ai movimenti internazionali per salvare le specie in via d’estinzione o preservare la foresta pluviale del pianeta, è altrettanto importante per tutti noi conservare la diversità delle colture nel mondo per le generazioni future", ha detto il Nobel Wangari Maathai, che ha depositato i primi semi. Ha partecipato alla cerimonia di inaugurazione con il primo ministro norvegese Jens Stoltenberg, il presidente della Commissione Europea José Manuel Barroso ed esperti di agricoltura di tutto il mondo.
Questa cassaforte della biodiversità, secondo gli esperti, potrebbe dimostrarsi indispensabile per far ripartire la produzione agricola a livello regionale o mondiale in seguito a un disastro naturale o provocato dall’uomo. Anche nel peggiore scenario provocato dal riscaldamento globale, le stanze del deposito rimarranno congelate per almeno 200 anni. Per il direttore esecutivo del Fondo Mondiale per la Diversità delle Colture, Cary Fowler, "l’apertura del deposito di sementi segna una svolta storica nella protezione della diversità delle colture mondiali, ma il 50% della diversità unica conservata nelle banche di sementi rimane in pericolo. Stiamo cercando di salvare queste varietà".
Finanziato e costituito dalla Norvegia, il deposito è stato realizzato con il supporto operativo del Fondo Mondiale per la Diversità delle Colture mentre la gestione della struttura è affidata al Centro nordico per le risorse genetiche (NordGen), che renderà disponibile on line una banca dati dei campioni di semi. Vicino al villaggio di Longyearbyen, nell’isola di Spitsbergen, i semi sono conservati in tre stanze ad alta sicurezza, scavate nel durissimo strato di terreno ghiacciato (permafrost), alle quali si accede alla fine di un tunnel lungo 125 metri. Per accedere al deposito bisogna superare quattro porte di acciaio chiuse ermeticamente, le cui chiavi hanno codici diversi. All’esterno il deposito è circondato da una rete di sensori di movimento.
E’ il freddo, con una temperatura di 18 gradi sotto zero, ad assicurare la conservazione dei semi, chiusi in contenitori di alluminio sigillati. Freddo e umidità sono tali da conservare i semi vitali molto a lungo. Si calcola ad esempio che quelli di orzo possono durare 2.000 anni, il grano 1.700, e il sorgo quasi 20.000 anni.
E’ questa la struttura destinata a contenere i semi dei più importanti alimenti africani e asiatici come mais, riso, grano, fagioli e sorgo, ma anche varietà europee e latino americane, con melanzana, lattuga, orzo, e patata. Inizialmente i campioni destinati al deposito sono 268.000, ognuno dei quali può contenere centinaia di semi. In totale, i carichi di sementi finora messi al sicuro nel deposito ammontano a circa dieci tonnellate, custodite in 676 scatole.
Nairobi, si è aperto il vertice sul clima Danni incalcolabili se non si tagliano le emissioni del 50% entro il 2050
NAIROBI. Si è aperta oggi a Nairobi la dodicesima Conferenza mondiale sui cambiamenti climatici. Nonostante ancora si sia lontani dalla piena applicazione del protocollo con cui a Kyoto nel 1992 si tentò di bloccare l’effetto-serra, i delegati riuniti in Kenya sotto l’egida delle Nazioni Unite sono chiamati ad avviare già una riflessione su cosa accadrà dopo il 2012, quanto scadrà il trattato. Per undici giorni, fino all’11 novembre, seimila delegati esamineranno le più recenti scoperte scientifiche e si confronteranno sulle possibili nuove strategie da adottare per ridurre le emissioni di inquinanti nell’atmosfera. Non solo. Cercheranno anche di suggerire a paesi in rapida industrializzazione, quali Cina e India, come ridurre al minimo l’impatto ambientale del loro sviluppo.
«Il cambiamento climatico si sta rapidamente manifestando come una delle più gravi minacce che l’umanità abbia mai dovuto affrontare», ha dichiarato il vicepresidente del Kenya, Moody Awori, nell’aprire la conferenza. «Abbiamo una grande compito da affrontare», ha aggiunto Awori, particolarmente preoccupato degli effetti dell’aumento delle temperature nei paesi dell’Africa Sub-sahariana. Le economie di questi paesi «sono le più colpite», ha sottolineato, «oltre il 70 per cento della nostra popolazione vive in aree rurali».
* La Stampa, 6/11/2006
I padroni del cibo
Sono dieci i signori dell’industria alimentare che controllano da soli più del 70 per cento dei piatti del pianeta
di Paolo Griseri (la Repubblica, 19.12.2014)
Sono dieci i signori dell’industria alimentare che controllano da soli più del 70 per cento dei piatti del pianeta. Queste multinazionali gestiscono 500 marchi che entrano nelle nostre case quotidianamente Così pasta, biscotti e caffè diventano globali, anche in Italia. E le grandi questioni, come l’uso di oli e grassi nei prodotti, vengono decise a tavolino
STANNO seduti intorno alla tavola del mondo e controllano da soli più del 70 per cento dei piatti del pianeta. Sono i 10 signori dell’industria alimentare: 450 miliardi di dollari di fatturato annuo e 7.000 miliardi di capitalizzazione, l’equivalente della somma del pil dei paesi più poveri della Terra. Non sempre sono nomi noti in Italia. Da un secolo la Coca Cola è il sinonimo della multinazionale ma solo gli addetti ai lavori conoscono la Mondelez. Un po’ più numerosi sono gli italiani che ricordano la Kraft, vecchio nome proprio della Mondelez. Quasi tutti invece hanno incontrato al supermercato marchi come Toblerone, Milka e Philadelphia. «I 500 marchi riconducibili ai dieci signori della tavola - spiega Roberto Barbieri, direttore generale di Oxfam Italia - sono spesso vissuti dai consumatori come aziende a sé stanti. In realtà fanno parte di multinazionali in grado di condizionare non solo le politiche alimentari dell’Occidente ma anche le politiche sociali dei paesi più poveri».
A rendere chiaro il quadro (rappresentato dal grafico della Oxfam pubblicato in queste pagine) c’è il paradosso del ricco Epulone, il protagonista della parabola evangelica. Mentre sono 900 milioni le persone che soffrono la fame (dati Onu settembre 2014) e che vivono sotto la tavola del banchetto sperando nelle briciole, sono 1,4 miliardi gli uomini e le donne che nel mondo hanno il problema del sovrappeso. «Sono due prodotti dello stesso sistema - osserva Barbieri - perché l’80 per cento di coloro che non riescono a sfamarsi vivono nelle campagne e lavorano per produrre cibo». Oxfam è un’organizzazione che si propone di aiutare le popolazioni povere del mondo cercando di redere virtuosi, con campagne e raccolte di firme, i comportamenti delle multinazionali del cibo. Il sistema è quello di fare pressione sull’immagine dei gruppi alimentari in Occidente per spingerli a migliorare le politiche sociali nei paesi produttori. È accaduto con Nestlé, Mondelez e Mars per quel che riguarda i diritti delle donne che lavorano nelle piantagioni di cacao. Si chiede che accada con Coca Cola e Pepsi per evitare il fenomeno del land grabbing, l’esproprio forzoso delle terre dove si coltiva la canna da zucchero. «Già oggi - spiega Oxfam - sono coltivati a zucchero 31 milioni di ettari di terra, l’equivalente della superficie dell’Italia».
La tendenza alla concentrazione dei marchi è in atto da tempo e riguarda praticamente tutti i settori alimentari. Ci sono eccezioni quasi inevitabili come il latte e il vino. Stiamo naturalmente parlando di grandi multinazionali. Ma se nel settore vinicolo il blocco alla creazione di grandi gruppi è dovuto a un legame strettissimo con il territorio (ogni collina è una diversa cantina sociale), nella birra non è più così da tempo: i tre principali marchi mondiali, i belgi in In Bev (Artois, Beck’s e la brasiliana Anctartica), i sudafricani di SAB Miller e gli olandesi di Heineken controllano da soli il 60 per cento del fatturato mondiale e raccolgono l’80 per cento degli utili. Analoga concentrazione sta per avvenire nel settore del caffè. «L’esempio della birra - spiega Antonio Baravalle, ad di Lavazza - dimostra che nei settori dell’alimentare la concentrazione delle proprietà fa aumentare i profitti». Dunque c’è da immaginare che nei prossimi anni i dieci signori che governano le tavole del mondo si ridurranno ancora? «Penso che ci sia un limite. Fondersi ancora di più non sarà facile. Mi sembra più probabile che ciascuno di quei dieci gruppi assorba nel tempo altri gruppi minori ».
Anche se, a ben guardare la composizione della tavolata, non tutti i signori del cibo hanno la stessa consistenza. Provando a metterli in fila per fatturato, la Nestlé è di gran lunga più grande (90,3 miliardi) della seconda classificata, la Pepsicola (66,5 miliardi). Nonostante il suo valore iconico, come si dice oggi, la Coca Cola è ben distaccata dalla storica rivale ed è ferma a 44 miliardi di fatturato, scavalcata da Unilever (60) e Mondelez (55). A fondo classifica la Kellogg’s con 13 miliardi di dollari di ricavi annui.
Con queste marcate differenze tra i dieci primi in classifica c’è, in teoria, ancora spazio, per i matrimoni. «Ma può anche accadere - spiega Baravalle - che uno dei grandi gruppi decida di liberarsi di un marchio perché non lo considera abbastanza globale». È quel che è successo, ad esempio, con la scelta di Mondelez di cedere i suoi marchi del caffè. Ed è quel che è accaduto negli anni scorsi a Findus, un tempo di Nestlé e Unilever e oggi in maggioranza detenuta da un fondo di investimento. Findus continua ad essere un ottimo marchio ma il suo difetto, secondo le valutazioni delle multinazionali, è quello di essere forte solo su alcuni mercati.
Un’altra tendenza è quella di rilevare un marchio alimentare locale perché faccia da veicolo alla penetrazione di un grande gruppo in un mercato. Se Unilever, per esempio, deciderà un giorno di acquistare un marchio locale in un paese asiatico, lo farà soprattutto per mettere piede in quel mercato e poterlo affiancare dopo poco tempo con uno dei suoi brand globali.
Dopo altri decenni di fusioni e concentrazioni, ci troveremo un giorno a consegnare ad un unico grande fratello le chiavi della dispensa del mondo? Quello di un pianeta in cui una sola grande multinazionale controllerà tutti i marchi alimentari è certamente uno scenario da incubo. Ma come tutti i processi di concentrazione, anche quello del cibo crea inevitabilmente i suoi anticorpi.
Succede in politica, dove contemporaneamente alle unioni tra stati nascono i movimenti separatisti e territoriali; accade, in modo assai più virtuoso, nell’alimentare con il sorgere dei prodotti chilometro zero, i presidi territoriali, i sistemi di produzione artigianale. Chi decide di resistere alla tentazione di vendere l’azienda alle multinazionali è inevitabilmente portato a valorizzare il suo brand mettendo in evidenza il legame con il territorio.
L’Italia è certamente uno dei Paesi del mondo dove il rischio della concentrazione dei produttori di alimenti è meno forte. Un po’ per il particolarismo che caratterizza la nostra economia asfittica. Un paese dominato dal modello per molti aspetti negativo della piccola e media impresa, che nel settore del cibo potrebbe trasformare il difetto in virtù. Lo dimostra uno studio condotto dall’agenzia Next con un questionario rivolto alle aziende alimentari italiane. L’elenco di quelle principali dice che siamo ben al di sotto del livello dei colossi mondiali. L’unica che si avvicina per fatturato è la Ferrero, con 8,1 miliardi di euro di ricavi annui, circa 10 miliardi di dollari, poco meno dei 13 miliardi della Kellogg’s. Le altre sono molto più indietro. La Barilla fattura 3,5 miliardi di euro ed è limitata dal fatto di avere come business un prodotto molto connotato localmente come la pasta. Si contano sulle dita di una mano le altre italiane sopra il miliardo di fatturato: il gruppo Cremonini (3,5) Parmalat (1,4), Amadori (1,3) Lavazza (1), Conserve Italia (1). Immediatamente sotto il livello del miliardo ci sono Acqua San Benedetto, Galbani e Granarolo.
È evidente che gli 11 signori del cibo italiano sono molto meno potenti dei commensali della tavolata mondiale. Ci si chiede se i re dell’alimentare, in Italia e nel mondo, hanno politiche comuni, accordi segreti, si mettono d’accordo per decidere che cosa mangeremo nei prossimi trent’anni. L’idea di una Trilateral del cibo, di un supergoverno occulto delle nostre cucine, è forse fantasiosa: «Credo anch’io che messa così possa essere un esercizio di fantasia premette Baravalle - ma sarei un ingenuo ad escludere che sulle grandi questioni di politica alimentare i grandi gruppi non esercitino, com’è legittimo, le loro pressioni sui politici ».
Certo, la discussione delle normative comunitarie sulla etichettatura risente ed ha inevitabilmente risentito dei desiderata dei signori del cibo. Ogni particolare in più o in meno da aggiungere sul foglio informativo per i consumatori si porta dietro miliardi di investimenti. Il caso più clamoroso è scoppiato di recente e riguarda gli oli utilizzati: finora è sufficiente scrivere che si tratta genericamente di “oli vegetali”. Ma se domani i produttori fossero costretti a specificare quali sono quegli oli, quanti avrebbero il coraggio di scrivere che utilizzano l’olio di palma, decisamente più scadente di quello di oliva? Ogni tanto sedersi intorno a un tavolo e decidere strategie comuni può essere utile. Anche per i signori del cibo.