Approfondimento

Calabria e San Giovanni in Fiore: Domenico Barberio intervista don Giacomo Panizza sul tema del suicidio

lunedì 23 giugno 2008.
 

“Va bene adesso sono libero, mi puoi fare le domande che vuoi” inizia così, con queste parole, la breve conversazione telefonica con don Giacomo Panizza. Lo chiamo al numero della “Comunità Progetto Sud” di Lamezia Terme di cui è presidente, comunità che si occupa di marginalità, di disabilità fisica e psichica,di tossicodipendenza ma anche di educazione, legalità, approfondimento dei vari temi sociali. Realtà articolata in cooperative, associazioni,comunità terapeutiche, centri studi.

Don Giacomo insegna anche all’Università di Cosenza, all’interno della Facoltà di Scienze Politiche, Scienze dei Servizi Sociali, prepara appunto i futuri assistenti sociali. A Lamezia è un sicuro punto di riferimento, umano e morale, per chi si oppone al potere dei clan. Mi dice che ha appena finito di parlare con alcuni commercianti “sai ieri hanno bruciato sei trattori e due macchine ad un concessionario della zona e allora bisogna organizzare qualcosa...”. Don Giacomo, secondo la retorica pubblica e civile, è uno di quei cosiddetti “preti di frontiera”: un uomo di chiesa che vive con coraggio e onestà il messaggio del vangelo,lontano dai clamori massmediatici di molti suoi “colleghi”, dalle fastidiose posizioni di potere della gerarchia cattolica. L’ho chiamato per tornare ad affrontare il tema del suicidio, anzi dei quattro suicidi di San Giovanni in Fiore, per sapere quali le sue valutazioni.

“Conosco San Giovanni in Fiore attraverso il mondo giovanile, i ragazzi che seguono il corso di Scienze dei Servizi Sociali a Cosenza e quelli che vengono a fare volontariato presso la nostra comunità e poi grazie anche al vostro missionario don Battista Cimino. Non ho quindi una conoscenza diretta ma mediata dai racconti, dalle esperienze di questi ragazzi soprattutto. Non ho in mano i dati di questa realtà però vedo che ci sono dei parallelismi, delle similitudini, molto forti con il resto della situazione calabrese.”

Generalmente il suicidio è il punto d’arrivo di travagliati percorsi esistenziali caratterizzati da droga o da disturbi psichiatrici. Ma se si guarda al mondo giovanile, alle sue particolarità e a quella che oggi appare la sua piatta normalità, ci sono altre letture, altre interpretazioni? Cioè la quotidianità, che sembra non nascondere nulla, può celare e magari creare le condizioni perché si arrivi ad un gesto così estremo, così assurdo?

Io credo che oggi esista una vulnerabilità al dolore da parte dei giovani, un’ incapacità a gestire, anche solo per poco tempo, il dolore. I giovani sono meno attrezzati a rispondere al dolore. Le reazioni possono essere diverse e certo non tutte portano al suicidio, ma sono chiari tentativi di far capire che qualcosa non va. Purtroppo non si riesce a cogliere, a capire il loro linguaggio. Esiste questa distanza tra adulti e giovani perché esistono codici diversi. Per esempio proprio dopo quest’episodio di intimidazione con questi trattori bruciati ci siamo chiesti, con quelli dell’antiracket, come portare i giovani in piazza a manifestare per ribadire la necessità della legalità soprattutto adesso che inizia l’estate, con quella atmosfera di rilassatezza e divertimento.

Che lettura si può dare del suicidio, e in particolare, in contesti come quello calabrese?

Io credo che il suicidio, sia molto legato al significato che viene attribuito alla vita, alle ragioni di vivere che non vengono più tematizzate . Accanto alle ragioni di vivere c’è purtroppo in mezzo la fragilità:il non saper reggere per più di tre ore ,magari tre giorni, a quello che si chiama il dolore. Che non è il dolore fisico si badi, ma il dolore delle relazioni . Ecco in Calabria i giovani sono tutti toccati da questo tipo di dolore, però, a differenza che altrove, hanno carenza di esperti per dialogare, per spiegarsi, per affrontare ad esempio i temi della morte. Certe volte i temi della morte come soluzione alla vita li hanno di più quei ragazzetti che vanno a mettersi nei clan che gli altri . Io conosco ormai da tempo questa realtà: magari pur non essendo figli di mafiosi, si prestano ad azioni criminali da una parte per quattro soldi, ma dall’altra, perché credono, facendo confusione evidentemente, che le loro azioni siano eroiche. Loro ,cioè, vedono queste azioni come eroiche e vi attribuiscono “un significato per la vita”, perché altri significati non riescono a recuperarli. In questo modo trovano una soluzione alla vita. In Calabria abbiamo pochi servizi di cura e di riabilitazione e peggio ancora, perché non entra nell’immaginario, pochi servizi di prevenzione e di promozione. Fare tante cose con i giovani e per i giovani non è purtroppo una priorità nell’agenda politica dei servizi socio-culturali.

Allora come interpretare i quattro suicidi di San Giovanni in Fiore?

Per quello che sono: un linguaggio. Evidenziano una difficoltà. Il fatto non è tanto il numero, se pochi o troppi, il punto è porsi seriamente di fronte a quello che è un fuggire alla vita,quel modo di risolvere un problema con l’abbandono della vita stessa.

Domenico Barberio


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