Attualità

Il giornalista Biagio Simonetta interviene sul disagio nelle terre meridionali colpite dalle mafie o dalla marginalità politica e culturale

lunedì 23 giugno 2008.
 

"Io vengo da un posto dove morte e vista so’ a stessa cosa...": i ragazzi cresciuti fra le vele di Scampia, che poi sono simili ai loro coetanei che ingrassano i clan della Sibaritide, o del Crotonese, non hanno paura della morte. E don Giacomo Panizza mi pare l’abbia capito bene. In Calabria, nel caso specifico a San Giovanni in Fiore (Cs), manca l’aggregazione sociale, manca lo scudo che possa proteggerti dal dolore quando si manifesta.

Chi si arruola nei clan non tenterà mai il suicidio: probabilmente una pallottola gli perforerà il cervello quando ancora non ha trent’anni, ma morirà con la convinzione di essere stato un eroe. La ’ndrangheta ti coccola. Ti regala la moto di grossa cilindrata anche se i tuoi coetanei, quelli che stanno nel tuo stesso quartiere, non possono permettersi manco la vespa.

Il clan ti permette di vestire firmato. A quindici anni se ne vanno in giro con le Golf dei grandi. Il territorio è loro. Il suicidio non gli appartiene. Il suicidio è roba da deboli, da falliti. E in Calabria fallire è più facile che altrove. Chi ci ascolta? A San Giovanni in Fiore in pochi mesi si sono consumati quattro tentativi di suicidio, ad opera di altrettanti giovani. Uno di loro è morto.

A Cosenza c’è almeno un tentativo di suicidio al mese, col famigerati ponte "Mancini" teatro delle tragedie. Chi ci ascolta? Non chiediamoci, poi, perché a Cosenza Casali i clan arruolano quindicenni, oppure perché a Cassano Jonio i pusher spesso non hanno diciotto anni. Chi li ascolta?

Così la società calabrese è sparente . Si emigra per non patire. Chi resta lotta per trovare un equilibrio fatto di tante rinunce. E noi? Non ci resta che scrivere con le nocche su queste tastiere umide di rabbia.

Biagio Simonetta

www.biagiosimonetta.it


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