Attualità

Calabria: San Giovanni in Fiore raccontata dal giornalista Ilario Lombardo. Storie di miseria politica, clientelismo e immobilità

martedì 21 ottobre 2008.
 

In questo articolo, Ilario Lombardo descrive San Giovanni in Fiore e le sue logiche, il suo dramma, i suoi problemi, l’irresponsabilità della classe politica.

Qui il link per leggerlo sul sito originario .

Il pezzo è stato pubblicato su Il Diario del 1 aprile.

La sala consigliare è già piena quando Rina, 45 anni, arrabbiata come poche, alza il piede per far vedere il taglio: «’U vidi! Chistu mu facii tirand ’nu cauciu allu vitru da Regiune, quannu ’amo ’iuti». Dal tono delle urla sembra lei la capopopolo di un’orda venuta a reclamare il pane. La folla riempie tutto lo spazio al di là delle inferriate che la dividono da assessori, consiglieri e sindacati disposti a ferro di cavallo. Il sindaco Antonio Nicoletti, primo mandato, giunta di sinistra, ha convocato un consiglio straordinario per discutere del problema che è all’ordine del giorno ormai da troppi anni: l’assistenza sociale, croce e delizia di un grande e spopolato centro della Sila cosentina, San Giovanni in Fiore. Sono in quattrocento. Pretendono ancora i 480 euro stanziati per un corso di formazione per operai idraulico-forestali mai iniziato e finanziati con vari fondi regionali e ministeriali per cui, al tempo, era intervenuto personalmente l’allora Ministro dell’Agricoltura Gianni Alemanno. Una faccenda delicata che nessuna parte politica vuole lasciare al migliore imbonitore dell’altra, anche perché il 13 aprile incombe e, come ogni anno, e per ogni elezione, la questione si rinnova e il calcolo elettorale in cui da queste parti sono maestri non può prescindere dai «favori» fatti a quelli che qui si preferisce chiamare disoccupati assistiti.

In consiglio ogni partito recita il proprio rituale rosario politico. Dall’altra parte dell’inferriata, invece, Rina è scatenata, e dietro di lei comincia il tumulto di urla, imprecazioni, insulti: «’A stess canzun da diec ann». La maggioranza di centrosinistra - divisa - accenna addirittura a discorsi di politica nazionale, ma, ci risiamo: «nun c’ne futta i Veltron o Berluscon». Sembra la presa della Bastiglia. «Questo non è niente, c’è stato di molto peggio», assicura uno dei due carabinieri fissi vicino al banco del sindaco, mentre il presidente del consiglio decide di sospendere e rinviare la seduta. Alla fine l’avrà vinta la folla, altri fondi stanziati per il 2008, circa nove milioni di euro da consumare entro il 31 dicembre. Poi si ricomincerà daccapo e sempre a ridosso di nuove elezioni: che siano europee, nazionali, regionali o comunali non ha importanza.

Tra abbrutimenti edilizi, San Giovanni in Fiore - il paese sopra i 1.000 metri più popoloso d’Europa, amano dire - è raccolto, arroccato tra le montagne della Sila, come in una spirale attorno all’Abbazia Florense, fondata nel 1189 dal «calavrese abate Gioacchino di spirito profetico dotato» di dantesca memoria: da lì partì il suo messaggio millenarista in attesa di quella terza Età, dello Spirito Santo, che avrebbe riempito di grazia l’umanità. I grandi viadotti da Cosenza a Crotone immergono lo sguardo in un manto di pini larici, color vinaccia e maculato di chiazze verde scuro. Più si sale più i colori diventano vividi e uniformi, e il freddo si fa pungente. La primavera qui non arriva prima della fine di aprile, come testimonia la neve superstite dai giorni precedenti. Fuori, tra gli alberi, fiancheggiano la strada le piccole rotaie della ferrovia, un tempo l’unico modo per arrivare nei boschi della Sila, mentre fermo e immortale lo scheletro arrugginito di un vagone sembra uscito dai western ambientati nelle fredde regioni delle Montagne Rocciose. Abbandonato in una stramba solitudine annuncia un tempo che fu: prima delle macchine, dell’asfalto, dei turisti accampati, della pesca delle trote a pagamento.

A San Giovanni in Fiore i sussidi e l’assistenza sono una cultura, parte di un’antropologia sociale della miseria e di una radicata mentalità che sembra non riuscire a farne a meno, tanto che, già quattro anni fa, un famoso giornale della sera aveva scritto di come una rivolta, un assedio e il conseguente sfascio del comune avessero portato ad assunzioni in massa e all’iscrizione nei registri di altri elenchi di mantenuti. Ogni volta la stessa storia: si promette, si promette, si promette. E poi però si deve mantenere e assicurare così il posto che ti aveva assicurato il voto. Tutto qui il teorema calabrese. Assistenzialismo+clientelarismo+mafia. I disoccupati diventano allora l’arma da ricatto di una strategia politica soffocata dalla mancanza di imprenditoria e di progetti di produttività, mortificata da ricorsi storici e da automatismi amministrativi deviati e conniventi con la criminalità. Un tessuto sociale sconnesso preda degli interessi famelici dei politici, pronti al momento giusto a tirare la giacchetta a chi muore di fame.

San Giovanni in Fiore è il paese con più assistiti d’Italia (prima, dal 1998, il Reddito minimo d’inserimento per 1.278 persone in una città di 18.242 abitanti, poi, il cosiddetto ex Fondo sollievo dalla disoccupazione per più di 634, seimila circa gli iscritti nelle liste di disoccupazione all’Ufficio di collocamento, centinaia i lavoratori socialmente utili e più di quattromila i pensionati). È anche

uno dei paesi con il più alto tasso di emigrazione. Ma, soprattutto, è un bacino di voti fondamentale per il territorio cosentino e per la Calabria: è, infatti, una delle roccaforti della sinistra, con vittorie che raccontano anche di un 80 per cento di consensi. Il Pci, il Pds, i Diesse e ora il Pd, senza dimenticare i socialisti, sempre forti a Cosenza. Nelle tavole di queste case arrampicate le une alle altre, davanti al vino pastoso del luogo, si sono decisi gli equilibri di potere degli ultimi venti anni. Si sono fatti e disfatti politici e onorevoli, come Franco Laratta, ex Popolari della Margherita, ex assessore della Sanità nella giunta comunale, eletto alla Camera nel 2006, e quarto della lista del Pd calabrese per le prossime elezioni, o Agostino Acri, ex sindaco sangiovannese e ex presidente, di certo amato, della Provincia cosentina, coinvolto nell’inchiesta «Why not» per presunte tangenti che pare si facesse allungare da alcuni suoi collaboratori. E poi c’è lui, Gerardo Mario Oliverio, detto ‘u lupu: il padrone incontrastato di San Giovanni in Fiore, dove ogni sera torna da Cosenza. È l’attuale presidente della Provincia, già deputato per quattro legislature e, naturalmente, ex sindaco della cittadina. C’è chi racconta di come una delle prime decisioni prese appena eletto fu riconvertire una piscina del paese mai completata in un palazzetto dello sport, operazione da 1, 6 milioni di euro. L’aggiudicazione della gara d’appalto fu rapidissima: andò alla Ls Costruzioni di Casal di Principe, Campania, la città del clan dei Casalesi, che poi subappaltò il tutto a un’impresa edile di San Giovanni in Fiore, che, tra l’altro, si chiama Oliverio. La società campana, però, ha un capitale sociale di soli diecimila euro.

Non si muove cosa intorno all’Abbazia che Oliverio non voglia, come avrà capito anche Dario Franceschini, salito a metà marzo quassù, proprio nel paese natio di ‘u lupu per ricucire i rapporti - si dice - non più così buoni per i troppi politici calabresi coinvolti dalla magistratura. Tutti sanno infatti del veto che il leader del Pd Walter Veltroni ha messo, da una parte, sulla nomenklatura cosentina, in particolare sul tandem Mario Oliverio-Nicola Adamo e, dall’altra, su tutta la schiera di allegri trasformisti che sono il codazzo di Agazio Loiero e del suo Partito democratico meridionale (Pdm) : Mario Pirillo, Beniamino Donnici... Il presidente della Regione Loiero, nato qui vicino, a Santa Severina, piccolo borgo innevato dove Mario Camerini girò Il brigante Musolino e Renato Castellano Il brigante, aveva provato addirittura a presentarsi da solo con il suo personalissimo e potente cartello Pdm alle politiche, capolista Salvatore Audia, anche lui di San Giovanni in Fiore: un tentativo, fallito, di ricattare i democratici e convincerli a inserire nelle liste un suo uomo, Pirillo, assessore regionale all’agricoltura e forestazione, coinvolto in «Why not».

Sul caminetto, in vista, una cartolina de La società sparente è vicino a un santino di Gesù benedicente. Al ristorante Da Saverio, vicino l’Abbazia, c’è un’atmosfera di casa. «Il nostro paese è un punto di osservazione su quello che è stata ed è diventata la Calabria, di un sistema che ha le sue regole, i suoi processi e i suoi rituali». Emiliano Morrone, 32 anni, giornalista, cerca di raccontare tutto, con una memoria che ha dell’incredibile e con un’intensità che sembra dettata da un’urgenza che non ha più tempo. È uno degli autori, assieme a Francesco Saverio Alessio, de La società sparente (Neftasia editore, 2007), accurata indagine sul binomio politica-’ndrangheta. «La ‘Ndrangheta, con la n maiuscola, si pensa sia solo quella delle stragi, come la mafia quella mitica dei corleonesi che mette le bombe. Qui, invece, ogni cosa è permeata di mafia: è il potere che ha scollato i cittadini dallo Stato. La mafia è nella politica, in Calabria: nella compravendita dei voti, nel silenzio imposto, negli appalti scriteriati, nello sfruttamento personalistico dei fondi europei. È qui, in questo paese, in queste montagne. È nella sanità, dove ci sono i parenti dei boss, è nelle liste presentate per le elezioni politiche dove ci sono persone indagate o rinviate a giudizio per favoreggiamento e associazione mafiosa». I capelli come Caparezza raccolti sulla fronte da una fascia, un fare antico e una gentilezza di altri tempi, Morrone, come Alessio, ha ricevuto delle minacce per quello che è stato scritto.

Il libro è solo l’ultima tappa di un lavoro critico incessante, un impegno che da queste parti assume sempre i contorni di una missione. È lui che convince Gianni Vattimo, giunto in Sila per un convegno su Gioacchino, a presentarsi alle elezioni comunali del 2005, in uno degli episodi più originali delle ultime ammorbate campagne elettorali italiane. Il filosofo torinese di origine calabra, come si sa, non vinse, indicò provocatoriamente di votare Forza Italia al secondo turno, fece il consigliere per qualche mese della lista «Vattimo per la città» e poi si dimise, con tanti saluti alle montagne e a quei preti che dal pulpito puntavano l’indice contro l’incarnazione di Satana venuta dal plumbeo nord.

Ciò che fece innamorare il teorico del pensiero debole di questa avventura fu, tra l’altro, la vivacità intellettuale di Morrone e degli amici e quella capacità di cogliere la potenzialità rivoluzionaria che internet poteva avere in una regione del silenzio come la Calabria. Basta digitare su Google parole come ‘ndrangheta, sanità calabrese, why not, De Magistris, Agazio Loiero, Nicola Adamo, Mario Oliverio: i primi risultati sono i siti dei bloggers calabresi, La Voce di fiore di Morrone, Ammazzateci tutti di Aldo Pecora e dei ragazzi di Locri e Emigrati.it di Alessio. Da loro è partita la rete di protesta che è diventata la cintura mediatica delle famose inchieste che assieme alla strage di Duisburg e agli strascichi dell’omicidio di Francesco Fortugno hanno puntato l’attenzione sulla regione.

Morrone sa che i rapporti tra politica e ‘ndrangheta non si possono capire se non si vive qui ogni giorno, nelle pieghe nascoste di quella che non è più una società civile. Affari, risentimenti locali, voto clientelare. Appalti favoriti, amicizie non proprio raccomandabili, debiti da estinguere. In ognidove calabrese questa è la normalità, anche ostentata nel silenzio di chi non può che aspettare il suo turno. Per conformarsi o per partire.

L’emigrazione rimane l’altra emergenza a cui l’abitudine deve rassegnarsi. D’inverno, dei diciottomila abitanti rimangono a San Giovanni in Fiore in meno di novemila mentre settemila sono gli iscritti nel registro dei residenti all’estero. «Da noi l’emigrazione è tutto. È una necessità, è strumento politico e di organizzazione urbanistica: è ingegneria sociale e insieme un viatico per la devastante speculazione edilizia.» Alessio ha studiato architettura, fino a quando ha scoperto la potenza del web e, convinto sostenitore del binomio connettività-collettività formulato dal sociologo dei media Derrick De Kerckhove, ha messo su uno dei siti più importanti degli emigrati italiani.

Nell’altopiano silano l’ovale del volto delle poche donne che si incontrano per strada è tracciato da rughe fossili: ognuna ha un passo deciso, la busta della spesa tra le mani e una piccola borsetta stretta all’altro braccio. Ci sono i bambini e i ragazzi che escono dai licei e dagli istituti tecnici lontani, costruiti in un nulla di roccia con alle spalle il verde silano. La cosa che colpisce di più è l’assenza di uomini e donne tra i venti e i quarant’anni, una generazione scomparsa, fuggita. Gli unici sono immigrati polacchi e marocchini, venuti a trovare speranza proprio dove chi la cerca fugge.

E qui sta l’idea forte de La società sparente: «all’emigrazione fa seguito lo sviluppo organizzativo ed economico della criminalità». Morrone ne è sicuro: «La droga è aumentata, come gli omicidi e le sparizioni. Ci vogliono far credere che da noi non c’è ‘ndrangheta, ma come si fanno a spiegare i cadaveri trovati con una pallottola in testa e carbonizzati dentro le macchine». Quello di Antonio Silletta, arrestato qualche anno fa in un’operazione antidroga come intermediario, è stato ritrovato nel 2006, dopo lunghe ricerche e contatti con Chi l’ha visto?.

«A San Giovanni in Fiore ci sono undici carabinieri per un territorio complessivo di 279 chilometriquadrati (quasi un sesto, per intenderci, dell’area metropolitana milanese). Tutta la Sila è poco monitorata: ottima per mantenere delle zone franche controllate dai clan, per fare scalo nei traffici internazionali di cocaina e per il riciclaggio di denaro sporco. Solo dentro il paesiello ci sono più di venti autosaloni, soprattutto di macchine tedesche. E anche qui qualche dubbio...»

E ancora: nella montagna di Gimmella vicino San Giovanni in Fiore prima dell’arresto è stato nascosto a lungo, e ben protetto secondo Morrone, il boss crotonese Guerino Iona, parente stretto dello Iona, Francesco, che il Pdl ha inserito ultimo nella lista del Senato.

San Giovanni in Fiore è sempre stato generoso con la politica e non solo con la classe dirigente italiana: da qui partirono i nonni di Joe Manchin, l’attuale governatore democratico del West Virginia, che ha firmato un patto di gemellaggio con la Calabria. Ma è stato anche un paese dannato. Nella piazza vuota davanti l’Abbazia la leggenda vuole che la mamma dei fratelli Bandiera, traditi e catturati proprio qui nel 1844, abbia maledetto, con il latte del seno come veleno, tutti gli abitanti. E proprio sangiovannesi erano la maggior parte dei 956 morti nella più grande tragedia mineraria degli Stati Uniti, a Monongah nel 1907.

In Calabria onorevoli si rimane per tutta la vita. Gli equilibri si decidono sulla base della spartizione dei fondi europei, 7 miliardi in arrivo per il 2007-2013, degni di un trasversalismo politico che coinvolge tutti. Qui il voto di scambio è così naturale che è diventato anche il nome di un talkshow politico dell’emittente locale TelespazioTv.

«La grande scommessa di Veltroni è riuscire ad allontanare a poco a poco gli impresentabili come Adamo, Loiero e compagnia bella. Questo è un rischio, perché potremo perdere il mare di voti che quei politici si portano dietro: spostano così tanti voti da stabilire chi vince». Antonio Candalise è l’assessore del Pd alla Sanità e alle Politiche sociali di San Giovanni in Fiore, ha preso il posto di Franco Laratta, partito per Montecitorio. Sembra la faccia pulita della tipica disillusione calabrese. «Per noi la cosa positiva di questa legge elettorale è che, paradossalmente, essendo le liste bloccate e fatte a Roma, si evitano le infiltrazioni di gente compromessa. È una sfida, perché abbiamo messo uomini e donne che, soprattutto nel cosentino, non portano voti di clientela, anzi». Alla Camera, per esempio, capolista è il potente Domenico Minniti detto Marco, braccio destro di D’Alema, seguito da Rosa Villecco Calipari e Maria Grazia Laganà Fortugno: «Ecco una cosa che non mi è piaciuta in tipico stile Walter, il voler fare la lista delle vedove».

Una cosa però sembra certa, il clan dei diesse cosentini, l’altra metà del potere in Calabria, non è mai stato così maltrattato come nella formazione delle ultime liste. «Hanno forzato troppo la mano, hanno arraffato tutto con un’avidità incredibile»: è ai fedelissimi di Loiero che si riferisce Candalise, soprattutto a Nicola Adamo, l’ex segretario regionale Ds, l’ex vicepresidente della Regione, il più votato a sinistra. Adamo è il politico che, assieme alla moglie Vincenza Bruno Bossio, ha la maggiore collezione di avvisi di garanzia per truffa sul flusso di sovvenzioni europee: a settembre 2006, abuso d’ufficio e associazione a delinquere per ipotetici finanziamenti pilotati a favore delle molte aziende amministrate dalla moglie, con cui si sono accaparrati il settore dello sviluppo tecnologico e telematico. Poi nel giugno 2007 il nome compare in «Why Not»: una teste parla di mazzette e di conti correnti cointestati con i suoi collaboratori. E per non farsi mancare nulla, è anche tra gli indagati dal tribunale di Paola per alcuni affari relativi allo sfruttamento dell’energia eolica. Adamo è anche l’autore di un maxiemendamento del maggio 2007 con il quale le aziende sanitarie locali (Asl) sono state ridotte da undici a cinque e trasformate in Aziende sanitarie provinciali (Asp). Ha soppresso inoltre le agenzie Arssa e Afor, le cui competenze nella gestione del personale per lo sviluppo agricolo e per la forestazione sono passate alla Provincia. Questo significa che Cosenza, già provincia con il territorio più grande d’Italia, ma senza aeroporto, assume più poteri nella sanità (con quello che comporta in termini di nomine, di dirigenza, di assunzioni) e nel lavoro: quindi nella compravendita dei voti.

Il presidente Oliverio lo sa bene: viene da San Giovanni in Fiore, ‘u lupu, là dove i disoccupati in attesa di promesse sono la merce di scambio in ogni elezione. «Lui qui comanda tutto. Ed è qui che la sinistra ha sempre vinto, roccaforte per tanti anni, assieme all’Alto Jonio, di Adamo e di Oliverio». Candalise guarda fuori tra i pini che nel vento mescolano l’odore di cenere al rumore come di un mare tempesta: «Un terremoto. Come in Basilicata. Ci vorrebbe un terremoto, per ripartire daccapo».

Ilario Lombardo


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