Rosso malpelo: un progetto e un film per i bimbi boliviani
di Paola Zanca *
«Era avvezzo a tutto lui, agli scapaccioni, alle pedate, ai colpi di manico di badile, o di cinghia da basto, a vedersi ingiuriato e beffato da tutti, a dormire sui sassi colle braccia e la schiena rotta da quattordici ore di lavoro; anche a digiunare era avvezzo, allorché il padrone lo puniva levandogli il pane o la minestra». Giovanni Verga, nel 1880, raccontava così di Rosso Malpelo, il ragazzino costretto a lavorare nelle miniere siciliane. Più di un secolo dopo, questa storia di sfruttamento non ha perso l’attualità di un tempo. A raccontarla, ora, è il regista Pasquale Scimeca - già autore, tra le altre cose, di Placido Rizzotto - che in collaborazione con Arci, Cgil e Cisl, Libera, AgiScuola e Mlal-Progetto Mondo, ha realizzato un lungometraggio che dalla Sicilia arriverà fino in Bolivia.
Sì, perchè il progetto Rosso Malpelo, non è solo un film. È un viaggio andata e ritorno: tutti i proventi ricavati dalle sale cinematografiche in cui verrà proiettato saranno destinati a due paesini della Bolivia, Atocha e Cotagaita. Due piccoli centri della regione del Potosì, una delle più povere della nazione sudamericana, dove molti bambini sono costretti a lavorare in miniera, e dove il tasso di scolarizzazione dei giovani tra i 5 e i 24 anni arriva solo al 40%. L’obiettivo è quello di raccogliere 500mila euro che potranno radicalmente cambiare le condizioni di vita di almeno mille bambini boliviani: con questa cifra, si stima che per tre anni si potrebbe garantire un pasto quotidiano di qualità, anche grazie alla collaborazione con i contadini locali, si riuscirebbero a finanziare alcuni progetti di imprenditoria femminile, sarebbe possibile potenziare e mantenere un ospedale pubblico e finalmente l’acqua potabile potrebbe raggiungere anche questi due paesini situati a oltre 4000 metri di altezza.
Un bel colpo contro l’invisibilità, come la chiama don Luigi Ciotti, uno dei garanti dell’iniziativa, di cui sono vittima 50 milioni di bambini nel mondo: bambini che non vengono nemmeno registrati all’anagrafe e che sfuggono ogni garanzia e tutela sociale, dalla scuola alla salute. Un lavoro che può dare dei risultati, se, come precisa don Ciotti «le iniziative e i progetti realizzati in questi ultimi anni contro il lavoro minorile, hanno fatto scendere dell’11% il numero dei bambini sfruttati».
Ma l’obiettivo di Rosso Malpelo, non si ferma qui. Il film, a partire dal 9 marzo, inizierà un tour in moltissimi istituti italiani: «riaprire i circuiti delle scuole», come ha sottolineato il segretario della Cgil Guglielmo Epifani, è un passo importante per far conoscere ai ragazzi quello che accade non lontano dalle loro finestre: è il caso dei minori stranieri che arrivano nel nostro paese non accompagnati e che si ritrovano costretti a percorsi di vita obbligati, dove il lavoro diventa non solo una costrizione ma anche una necessità. O è il caso, come ricorda don Ciotti, dei piccoli italiani sfruttati dalla malavita perchè impunibili: proprio martedì, aggiunge il fondatore di Libera, a Napoli verrà ricordata la storia di Giancarlo Siani, il giornalista ucciso vent’anni fa dalla camorra perchè aveva osato denunciare il caso di una nonna che mandava il nipote a vendere eroina nei vicoli della città.
* l’Unità, Pubblicato il: 05.03.07, Modificato il: 05.03.07 alle ore 19.18
"AVREMMO BISOGNO DI DIECI FRANCESCO DI ASSISI". LA RIVOLUZIONE EVANGELICA, LA RIVOLUZIONE RUSSA, E L’ "AVVENIRE" DELL’UNIONE SOVIETICA E DELLA CHIESA CATTOLICA. Le ultime riflessioni di Lenin raccolte da Viktor Bede
La provocazione del leader indio un regalo di Stato “comunista”
di Vittorio Zucconi (la Repubblica, 10.07.2015)
WASHINGTON SAREBBE piaciuto più a Karol Wojtyla che a Jorge Bergoglio, nella ovvia contraddizione simbolica, quel Cristo crocifisso alla falce e martello dalla quale il Papa polacco lottò con successo per schiodarlo nell’Est dell’Europa. Ma il regalo del presidente boliviano Evo Morales a Papa Francesco raggiunge comunque il podio dei doni più bizzarri scambiati fra capi di Stato e leader politici.
Non è ancora dato sapere in quale degli infiniti forzieri e archivi e cripte e nicchie di tesori in Vaticano sarà riposto l’oggetto donato da un uomo politico che inaugurò il proprio trionfale mandato secolarizzando la Bolivia, accusando la Chiesa di collaborazionismo nello sfruttamento, ridimensionando il potere dei vescovi e cacciando proprio crocifisso e Vangelo dall’uffico, come già il Cristo con i mercanti dal Tempio. Tra Deposizioni, martiri torturati del potere temporale del momento, Madonne e Bambini, Pietà, crocifissioni canoniche, il reclutamento del Figlio di Maria di Nazareth nella lotta di classe e nella ideologia del Materialismo Dialettico marxiano potrebbe risultare azzardata.
Ma nel nome della battaglia comune contro la miseria e lo sfruttamento, evocata costantemente anche dal Capo della Chiesa pur senza arrivare ai Soviet, all’elettrificazione e ai Piani Quinquennali, anche la provocatoria e greve allegoria in legno massiccio dell’ “Indio”, ossia di Morales, non è più bizzarra di altri omaggi di Stato che negli anni leader e governanti si sono scambiati. Dalla sella incrostata di pietre preziose e duunque intulizzabili senza acuti dolori in parte delicate che il presidente algerino Chadil Benjedid regalò a Reagan, alle Cadillac che segretamente la Casa Bianca spediva a Breznev per arricchire la sua collezione di supercar, i depositi e gli archivi della nazioni traboccano di paccottiglia più o meno sontuosa da tempo dimenticata. Cose che al momento parevano astute allusioni ideologiche, come il Cristomarxiano di Morales o semplici scherzi, come le due enormi patate dell’Idaho portate a Vladimir Putin dal Segretario di Stato John Kerry, perdono il loro significato nel tempo, si accastano impolverandosi.
Evo Morales, campione delle 36 diverse popolazioni che hanno sofferto, e soffrono, la sottomissione al potere coloniale e alle vere caste che spremono da secoli gli Indio, doveva trovare una forma di sintesi mistica alla dialettica fra la propria vocazione tardocomunista e la nuova teologia della liberazione portata a San Pietro dal vescovo argentino. Un gesuita, che appartiene allo stesso ordine di padre Luis Espinal, «ucciso da coloro che non potevano sopportare il messaggio evangelico che lui diffondeva», come ha detto Francesco.
L’ha trovata in un encomiabile sforzo di immaginazione lignea, forse non riuscitissimo esteticamente e destinato a un ruolo marginale fra opere di Michelangelo o di Bernini, dove la metafora del Cristo martirizzato sulla falce e martello si presta a contraddittorie letture, ma sicuramente meno crudele del cammello che il governo del Mali offrì al presidente Hollande per ringraziarlo dell’aiuto nella lotta all’islamismo violento. Gesto che finì malissimo per il povero animale rispedito, dopo numerose prove di incompatibilità con il palazzo dell’Eliseo, a una famiglia maliana che procedette, non avendo altra sistemazione e probabilmente avendo invece molta fame, a trasformarlo in un succulento stufato.
Lo sguardo allibito, ma garbato, del Papa che si richiama a San Francesco davanti a un artefatto che agli italiani meno giovani avrà ricordato Don Camillo e Peppone e ai più giovani gli stereotipi sul cattocomunismo, ha segnalato una misericordia e una comprensione che i critici darte e i curatori dei Musei Vaticani difficilmente avranno, per l’oggetto. Ma un politico come Morales, incastrato fra il populismo che lo ha trionfalmente eletto e il 78 per cento della popolazione che ancora si proclama parte della Chiesa di Roma, altro non avrebbe potuto fare, per sposare gli estremi culturali e umani della propria nazione.
Il sincretismo religioso e la mescolanza di sacro e profano sono ovunque il segno più profondo della spiritualità nel Centro e nel Sud America, fra teologie della Liberazione, vescovi d’assalto come l’Helder Camara di Recife, preti guerriglieri e prodotti dei collegi dei Gesuiti come Fidel Castro. Nei loro viaggi e visite nelle cattedrali neocoloniali dell’America ispanica, i Papi, come Giovanni Paolo II a Cuba, fingono di non sapere quali culti esoterici e fedi popolari si nascondano dietro Madonne e Santi apparentamente ortodossi. La crocifissione del Cristo a quella falce e martello che aveva proclamato nella propria dottrina ufficiale non soltanto l’ateismo ma la persecuzione contro la religione, non è in fondo più empia dei culti per i serpenti, le divinità e gli dei del mare nascosti dietro i simboli del cattolicesimo a galla tra Santeria e Catechismo. Non soltanto la religione non è più l’oppio dei popoli per il neo marxismo andino alla Morales. Può essere addirittura stimolante, come una manciata di foglie di coca.
Un vicepresidente di fronte all’esercizio del potere
Bolivia, «le quattro contraddizioni della nostra rivoluzione»
(traduzione dal francese di José F. Padova)
Alvaro Garcia Linera (vice-presidente dello Stato plurinazionale della Bolivia - Autore di Pour une politique de l’égalité. Communauté et autonomie dans la Bolivie contemporaine [Per una politica dell’uguaglianza. Comunità e autonomia nella Bolivia contemporanea],Les Prairies ordinaires, Paris, 2008)
Lo scorso giugno il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale hanno lodato la «solida gestione macroeconomica» del governo boliviano. Qualche mese prima, nelle strade di La Paz erano risuonate le grida di manifestanti che esigevano una rivalutazione salariale. Alcuni segnalavano un ritorno al neo-liberismo sotto l’egida del presidente Evo Morales. Sarebbe finita la svolta a sinistra latino-americana simbolizzata in particolare dall’elezione nel 2005 di questo sindacalista contadino e indio?
In Bolivia il clientelismo non è stato sradicato; le nuove élite riproducono certe pecche dei loro predecessori e regolarmente scoppiano conflitti sociali. L’amministrazione Morales ha per questo tradito? Le attuali difficoltà non rivelano piuttosto tensioni proprie dei movimenti di trasformazione sociale?
Alvaro Garcia Linera propende per questa ultima ipotesi. Vice-presidente dello Stato plurinazionale di Bolivia, difende il bilancio del governo. Già guerrigliero, sociologo, autore di numerose opere, riflette sugli ostacoli al cambiamento. Questa dualità rende originale la sua testimonianza: sono rari gli intellettuali confrontati ai rigori che la realtà impone alle loro teorie; altrettanto rari i dirigenti politici che analizzano le implicazioni teoriche della loro azione. *
Dal 2000, anno delle prime mobilitazioni sociali di massa che denunciavano la privatizzazione dell’acqua, al 2009, data della rielezione del sindacalista contadino Evo Morales alla presidenza, la Bolivia ha conosciuto un conflitto sostanziale che ha opposto il popolo all’impero americano e ai suoi alleati della borghesia boliviana, legata al neo-liberismo.
L’elezione del 2009, dalla quale l’amministrazione Morales è uscita rafforzata (1), ha attenuato queste minacce dall’estero. Sono allora sorte nuove contraddizioni all’interno del blocco nazional-popolare (2), fra le diverse classi che conducono il processo di cambiamento, a proposito delle modalità del suo pilotaggio. Quattro di queste tensioni, secondarie in rapporto al conflitto centrale contro l’imperialismo, si pongono nondimeno nel cuore del processo rivoluzionario boliviano: da un lato ne minacciano il proseguimento, dall’altro permettono d’immaginare gli strumenti per passare alla fase ulteriore.
La prima tensione creatrice concerne il rapporto fra lo Stato e i movimenti sociali. La popolazione attende dal governo azioni sollecite, che forniscano risposte concrete alle sue necessità materiali. Mentre questo esige una centralizzazione efficiente nel prendere le decisioni, il nostro governo è costituito da rappresentanti di organizzazioni sociali indie, contadine, operaie e popolari, la cui dinamica peculiare richiede di «prendere tempo», il tempo del dibattito, della deliberazione e dell’analisi delle svariate proposte. Il funzionamento di questi movimenti implica ugualmente la riduzione del numero di partecipanti alla presa delle decisioni. Il governo del presidente Morales - un «governo dei movimenti sociali» - è il luogo dove si oppongono e devono essere risolte dinamiche contrastanti: concentrazione e decentralizzazione delle decisioni; monopolizzazione e socializzazione delle azioni esecutive; rapidità dei risultati e lentezza delle deliberazioni.
Per tentare di riassorbire questa contraddizione abbiamo portato avanti il concetto di «Stato integrale»: il momento in cui la società si appropria progressivamente dei processi di arbitrato, superando così il contrasto fra lo Stato (in quanto strumento per centralizzare le decisioni) e il movimento sociale (come meccanismo per decentralizzarle e democratizzarle).
Un obiettivo di questo genere non si prende in considerazione sul breve termine. Esso risulta da un movimento storico fatto di avanzate e di marce indietro, di squilibri che inclinano la lancetta talora da una parte, talora dall’altra, mettendo in gioco sia l’efficienza del governo, sia la democratizzazione delle decisioni. La lotta (e soltanto essa) permetterà di mantenere l’equilibrio fra i due poli durante il tempo necessario per la soluzione storica di questa contraddizione.
La seconda tensione creatrice oppone l’ampiezza del processo rivoluzionario - che deriva dalla crescente incorporazione di differenti gruppi sociali e dalla ricerca di larghe alleanze - e la necessità di consolidare la direzione india, contadina, operaia e popolare, che garantisce l’orientamento politico.
L’egemonia del blocco nazional-popolare esige la coesione delle classi lavoratrici e implica ugualmente l’irradiamento della loro leadership (storica, materiale, pedagogica e morale) sul resto della popolazione, allo scopo di assicurarne il sostegno.
Certamente vi sarà sempre un settore, riluttante all’egemonia india e popolare, che all’occasione agirà come cinghia di trasmissione dei poteri stranieri. Ma il consolidamento della direzione proletaria esige che l’insieme della società consideri come la sua situazione progredisce quando queste classi lavoratrici dirigono il Paese. Questa necessità costringe un potere di sinistra a tener conto di una parte dei bisogni dei suoi avversari.
Una terza tensione creatrice si è manifestata con molta intensità da un anno a questa parte. Essa proviene dal confronto fra l’interesse generale e quello, particolare, di un gruppo, di un settore o di un individuo, fra la lotta sociale, comune e comunista, e le conquiste individuali, settoriali e private.
Il lungo ciclo di mobilitazioni che ha preso avvio nel 2000, con la «guerra dell’acqua», all’inizio ha conosciuto dimensioni locali. Ma questo conflitto riguardava direttamente l’insieme del Paese, anch’esso minacciato dai progetti di privatizzazione dell’acqua. Vi fu, più tardi, la «guerra del gas», la lotta per un’Assemblea costituente e la costruzione di una democrazia plurinazionale [ndt.: comprensiva delle “nazioni” autoctone fino ad allora mai considerate]: altrettante rivendicazioni portate avanti in modo settoriale da indios e operai e che tuttavia toccavano l’insieme degli oppressi e perfino la nazione intera.
Interessi privati, interesse collettivo L’emergere di queste esigenze - identificate sulle barricate, in occasione dei blocchi stradali, nelle manifestazioni e nel corso delle insurrezioni popolari - ha permesso di costruire un programma di presa del potere capace di mobilitare e di unificare progressivamente la maggioranza del popolo boliviano. Dopo la vittoria, nel 2005, il governo si è consacrato a metterle in pratica. Vi fu innanzitutto l’Assemblea costituente che, per la prima volta nella storia, ha permesso che la Costituzione fosse stilata dai rappresentanti diretti di tutti i settori sociali del Paese. Poi abbiamo effettuato la nazionalizzazione delle grandi imprese, facilitando così la redistribuzione di una parte dell’eccedenza economica mediante i programmi Juancito Pinto, «pensione degna» e Juana Azurduy (4).
Se consideriamo il ciclo della mobilitazione come una curva ascendente che, secondo l’esperienza storica, si stabilizza e poi declina a poco a poco, constatiamo che la prima tappa - o fase ascendente - si caratterizza con la crescente aggregazione dei settori sociali, la costruzione di un programma generale e l’apparire, da parte delle classi «subalterne», di una volontà organizzata e concreta di prendere il potere.
La stabilizzazione della mobilitazione, nel punto più alto della curva, corrisponde contemporaneamente al momento della messa in opera dei primi obiettivi universali e a quello delle resistenze più forti dei gruppi sociali che appoggiano il potere neo-liberista uscente: tentativo di colpo di Stato, movimenti separatisti, ecc. (5). Si tratta della fase «giacobina» del processo che, portando il movimento sociale, convertito in potere dello Stato, a difendersi, crea nuove mobilitazioni e nuovi orizzonti di universalità della sua azione.
Dal secondo mandato di Morales, nel 2010, in poi, si evidenzia quindi una terza fase, declinante, della mobilitazione: quella caratterizzata dalla tensione all’interno del blocco nazional-popolare fra aspetti generali e particolari. Il superamento di questa contraddizione avverrà per il rafforzamento della portata universale del nostro progetto. Se al contrario prevalesse il particolarismo corporativo la perdita di dinamismo della rivoluzione segnerebbe il punto di partenza di una restaurazione conservatrice.
Questa tensione fra rivendicazioni universali e particolari all’interno del popolo è sempre esistita. D’altra parte è la peculiarità delle rivoluzioni: da soggetto frammentato e individualizzato - aspetto dominante - il popolo è progressivamente portato a costituirsi in un’istanza collettiva. Ma evidentemente noi affrontiamo una nuova fase della mobilitazione, come suggerisce il recente conflitto fra due frazioni della centrale operaia boliviana (COB) (6), l’una alleata al potere, l’altra non.
In aprile 2011 insegnanti di scuola media membri della COB si sono messi in sciopero, presentando come principale rivendicazione l’aumento dei salari. Eppure dopo il 2006 l’amministrazione Morales aveva aumentato del 12%, al netto dell’inflazione, il trattamento economico dei lavoratori della sanità e dell’istruzione. Nello stesso tempo altri settori della pubblica amministrazione (i ministeri, per esempio) si sono visti congelare i propri stipendi. Quelli del vice-presidente, dei ministri e dei sottosegretari sono stati a loro volta ridotti dal 30% fino al 60%. La riduzione è stata ancor più rilevante per il presidente [Morales]. Si può ben capire che i funzionari di sanità e istruzione pubblica reclamino nuovi aumenti, ma questi non possono provenire se non dalla crescita delle entrate del Paese.
La politica portata avanti dal presidente Morales mira in effetti a migliorare le condizioni di vita dei più impoveriti (7) e a centralizzare le risorse risultanti dalle nazionalizzazioni e dalle imprese di Stato. Si tratta di creare una base industriale nel campo degli idrocarburi, delle miniere, dell’agricoltura e dell’elettricità, in grado di produrre una ricchezza durevole e di utilizzare le risorse del Paese per migliorare la qualità della vita dei lavoratori, tanto nelle città quanto in campagna.
Rispondendo favorevolmente alle rivendicazioni salariali degli insegnanti si utilizzerebbero le risorse ottenute grazie alle nazionalizzazioni per migliorare i redditi solamente di alcuni settori del terziario. Si lascerebbe così da parte il resto del Paese, vale a dire la gran parte. D’altro lato si renderebbe più difficile una strategia d’industrializzazione (acquisto di macchinario o costruzione d’infrastrutture, per esempio), che permette di accrescere le ricchezze che il Paese produce... e di ridistribuirle.
Un’industrializzazione necessaria Approfittando di questa tensione all’interno del blocco nazional-popolare, la destra ha fornito ai manifestanti l’appoggio dei suoi mezzi di comunicazione: dirigenti sindacali che i giornalisti di spicco ancor ieri disprezzavano per la loro origine sociale divennero star televisive da un giorno all’altro.
«Governo dei movimenti sociali», cerchiamo di sottoporre al dibattito pubblico le differenze che esistono all’interno del blocco nazional-popolare. Cerchiamo di risolvere le tensioni fra tendenze corporative e universali con strumenti democratici, incoraggiando l’avanguardia (indios, contadini, lavoratori, operai e studenti) a brandire il vessillo dell’interesse comune, che non significa la cancellazione dell’individuo o dell’interesse privato, ma la sua esistenza ragionevole in un quadro più generale.
La quarta tensione creatrice emana dall’opposizione fra la necessità di trasformare le nostre materie prime (l’industrializzazione) e quella di rispettare la natura, il «vivere bene» [ndt.: vivir bien, traduzione spagnola dell’ancestrale concetto indio di “vita in totale armonia con la natura”, sumak kawsav in quechua e sumak qamaña in aymara - assunto nella nuova Costituzione boliviana] (8).
Ci si rimprovera di non aver effettuato una «vera» nazionalizzazione delle risorse naturali e di permettere che le transnazionali s’impadroniscano di una parte delle ricchezze del Paese (9). Ma fare a meno delle società straniere implicherebbe il dominio delle tecnologie di cui esse dispongono: quelle legate all’estrazione, ma anche alla trasformazione delle materie prime. Non è questo il caso. Non può quindi esservi nazionalizzazione totale delle risorse naturali senza la fase dell’industrializzazione. Pervenire ad avviare una simile dinamica riempirebbe le casse dello Stato, perché i beni manifatturati e i prodotti semifiniti includono un valore aggiunto superiore a quello delle materie prime non trasformate che noi oggi esportiamo. La fase d’industrializzazione favorisce d’altra parte il progresso tecnologico e procura un insieme di conoscenze scientifiche suscettibili di costituire un trampolino per nuove attività industriali, intensive per la tecnologia ma anche per la manodopera.
Avanzare su questa via non è semplice. Innanzitutto perché non abbiamo esperienza in questo settore, ciò che ci obbliga a imparare a mano a mano che avanziamo. Inoltre la modernizzazione industriale esige investimenti colossali: un’industria petrolchimica costa quasi un miliardo di dollari, una centrale termoelettrica fra 1 e 3 miliardi. Infine si tratta di un processo lungo: tre anni al minimo sono necessari per far funzionare i complessi industriali più piccoli, cinque o sei per quelli di media grandezza e dieci (almeno) per i più grandi.
Il governo ha preso la decisione di creare un’industria del gas, del litio (19), del ferro e di alcune riserve d’acqua. Certi intellettuali hanno interpretato questo processo di costruzione di imprese pubbliche come l’emergere di un capitalismo di Stato, contrario al consolidamento di una visione «comunitaria» e comunista (11). Ai nostri occhi il capitalismo di Stato degli anni ’50 ha posto le grandi imprese al servizio di clientele particolari: burocrazie, gruppi padronali, grandi proprietari terrieri, ecc. Al contrario, l’utilizzo delle eccedenze generate dall’industrializzazione, che ormai la Bolivia incoraggia, dà la priorità al valore d’uso e non già al valore di scambio (12): la soddisfazione dei bisogni prima di quella del profitto. È il caso dei servizi di base (acqua, elettricità, ecc.), elevati al livello dello Statuto dei diritti umani e quindi distribuiti perché giudicati necessari, e non redditizi. È anche il caso dell’acquisto di prodotti agricoli da parte dello Stato, che mira a garantire la sovranità alimentare del Paese e la disponibilità di derrate vendute a prezzi «giusti»: fissati in modo che i prodotti siano accessibili ai consumatori, essi non si evolvono in funzione dell’offerta e della domanda.
Il plusvalore proveniente dall’industrializzazione offre così allo Stato la possibilità di mettere in causa la logica capitalista dell’appropriazione privata. La creazione di tali ricchezze provoca tuttavia un insieme di effetti nefasti per l’ambiente, la Terra, le foreste, le montagne. E quando la natura si trova aggredita, gli esseri umani soffrono, in ultima istanza.
Ogni attività industriale comporta un costo ambientale. Ma il capitalismo ha messo in sottordine le forze della natura, ne ha abusato, mettendole al servizio dei guadagni privati, senza tenere conto del fatto che in questo modo distruggeva il nucleo riproduttivo della natura in sé. Noi dobbiamo evitare il destino al quale un simile corso ci conduce.
Le forze produttive del mondo rurale e l’etica professionale degli agricoltori mantengono sui nostri rapporti con la natura uno sguardo opposto alla logica capitalista e ci propongono di vedere la natura come parte di un organismo vivente, totale, al quale appartengono anche l’essere umano e la società. Secondo questa visione, l’utilizzo delle capacità produttive naturali deve farsi nel quadro di un atteggiamento rispettoso di questa totalità e della sua riproduzione.
«Umanizzare la natura e naturalizzare l’essere umano», prescriveva Karl Marx (13). È il senso del nostro progetto: utilizzare la scienza, la tecnologia e l’industria per produrre ricchezze - come fare altrimenti per costruire le strade, i centri di cure sanitarie, le scuole che ci mancano e per soddisfare le richieste della nostra società? - preservando allo stesso tempo la struttura fondamentale del nostro ambiente. Per noi ma anche per le generazioni future. Le tensioni creatrici che portano il blocco nazional-popolare al potere in Bolivia caratterizzano le dinamiche della trasformazione sociale: non sono forse le rivoluzioni flussi caotici d’iniziative collettive e sociali, slanci frammentati che s’incrociano, si affrontano, si sommano e si articolano per dividersi e re-incrociarsi di nuovo? Quanto a dire che nulla vi è definito in anticipo.
Note
(1) Lo scrutinio elettorale del dicembre 2009 segue a un periodo di destabilizzazione politica mirante a rendere fragile il presidente Morales, candidato a succedere a sé stesso: sollevazione della regione orientale di Media Luna, referendum revocatorio, tentativo di colpo di Stato, scontro con Washington. Tuttavia Morales vince l’elezione con il 64% dei voti, contro il 53% nel 2005.
(2) Questo raggruppa le diverse correnti che l’elezione di Morales porta al potere: sindacalismo marxista, movimento indio, movimenti contadini e nazionalismo rivoluzionario.
(3) L’espressione «governo dei movimenti sociali» suggerisce che, con l’elezione di Morales, sono i movimenti sociali (mobilitati dall’inizio degli anni 2000) che si appropriano del governo.
(4) Rispettivamente: programma di accesso all’istruzione mediante la distribuzione di «buoni» o voucher, dopo il 2006; versamento di un sussidio alle persone con più di 60 anni, dal 2007; programma di riduzione della mortalità infantile dal 2009.
(5) Su questo argomento leggere
(6) La principale centrale sindacale boliviana, fondata durante la rivoluzione del 1952.
(7) Secondo l’Annuario statistico dellA Commissione economica delle Nazioni Unite per l’America latina e i Caraibi il tasso di povertà è passato dal 63,9% al 54% della popolazione fra il 2004 e il 2007.
(8) Traduzione di sumak kawsav in quechua e sumak qamaña in aymara, un concetto iscritto nella Costituzione boliviana del 2009.
(9) Nel maggio 2006 il presidente Morales annuncia la «nazionalizzazione degli idrocarburi». Che tuttavia non è ancora completa: sottolineando il fatto che non dispone della tecnologia sufficiente per fare a meno di partner privati, lo Stato prende in controllo del 51% del capitale di tutti i gestori presenti sul suo territorio. D’altra parte rinegozia i contratti in modo da percepire l’82% dei redditi (tasse e royalties).
(10) La Bolivia dispone delle più importanti riserve di questo metallo, che entra specificamente nella composizione delle batterie elettriche.
(11) L’autore si riferisce a un gruppo d’intellettuali una parte dei quali ha pubblicato il 18 giugno 2011 un manifesto «Per il ricupero del processo di cambiamento per il popolo e con il popolo»
(12) Il valore d’uso descrive l’utilità concreta di un bene; il valore di scambio rimanda al valore commerciale di una merce.
(13) Karl Marx, Manuscrits de 1844, Editions sociales, Paris, 1972.
Bolivia: la costituzione politica del vivere bene
Álvaro García Linera
Vicepresidente dello Stato Plurinazionale della Bolivia, La Paz
(traduzione dallo spagnolo di José F. Padova)
La Bolivia è un Paese che sta imparando ad accettare sé stesso, dopo secoli di negazione da parte del colonialismo, che ci educò a provare vergogna per la nostra diversità. Per troppo tempo il potere ci fece credere che essere indio è la più grande disgrazia che possa capitare sulla terra. I primi colonizzatori, quando ci sfruttavano, dubitavano che avessimo un’anima; durante la Repubblica ci definivano come popoli cui era necessario un padrone per poter vivere e intanto ci imponevano vincoli di servitù; durante gli anni ’70 a qualche dittatore venne in mente l’idea di importare africani bianchi per «migliorare la razza», mettendo chiaramente in luce come il colonialismo sia stato la forma storica di dominazione costante presso la maggioranza dei popoli boliviani.
Il nostro Paese, a differenza di quelli latino-americani nostri vicini, si costituì nell’incertezza e nella paura per un’identità india tanto vasta che attorniava i colonizzatori, dapprima creoli e poi repubblicani, che dopo la rivolta di Túpac Katari nel 1780 vissero con il trauma storico dell’accerchiamento delle città e dopo la Guerra Federale nel 1889 scelsero come nemico permanente il popolo indio, rendendone generale l’emarginazione per evitare qualsiasi tentazione di democratizzazione.
Per questo motivo nelle grandi guerre nazionali contro i Paesi vicini - tutte perdute - furono le popolazioni indigene, autoctone e contadine che come «carne da cannone» furono in prima linea nelle battaglie, difendendo un Paese del quale non si sentivano parte e nel quale non erano stati chiamati alla partecipazione politica; senza dubbio fu in questi spazi, nei quali si percepiva la diversità di un Paese dalle molte nazioni nelle quali come tale si riconosceva, che iniziò la gestazione dei movimenti sociali che cambiarono la Bolivia.
Guerre esterne e guerre interne, queste ultime le più comuni in questa società baronale che difendeva sé stessa dall’accerchiamento indio il quale, col passare degli anni, tesseva reti sociali sempre più estese e definiva con sempre maggior precisione la richiesta di costruire un nuovo Paese.
La storia della Bolivia è costellata da dittature militari e da democrazia estromettenti, che esprimono unicamente la struttura di potere di una società che mai volle vedersi nello specchio e visse con lo sguardo rivolto al Primo Mondo, copiando, imitando e di quei Paesi servendo gli interessi intrecciati alla complicità del potere locale.
Le popolazioni indigene, autoctone e contadine, ampia maggioranza nel Paese, assistettero semplicemente al succedersi delle diverse facce dei padroni nei susseguenti momenti della storia; anche i settori progressisti, prima di riconoscerle come protagoniste, le fecero oggetto di paternalismo e assistenzialismo, altrettante espressioni del colonialismo.
Malgrado ciò e contemporaneamente all’azione del potere, i popoli ammisero che la resistenza faceva parte della loro proposta storica e quanto più venivano repressi, tanto più riconoscevano sé stessi nella propria identità, si affermavano nei rapporti armonici fra loro come comunità e con la natura e tanto più si distinguevano differenziandosi da coloro che come politica avevano l’odio, l’avidità e il disprezzo razzista.
Per questo diciamo che la repressione e l’emarginazione come violenta azione civilizzatrice ottennero quale risposta la proposta di apprendere a «vivere bene», a non cessare di lottare contro l’oppressione e il servaggio, ma senza pensare alla maniera degli oppressori, senza odiare, discriminare, invidiare e soprattutto senza sfruttare il lavoro dell’altro. Si trattava di formulare una proposta di civilizzazione totalmente diversa, che facesse dell’essere umano «comunità» e allo stesso tempo «integrazione» con la natura.
Per questo le grandi battaglie che i movimenti sociali fecero contro il neoliberalismo si tramutarono in riferimenti storici, per il Paese e per il Continente [sudamericano], per la difesa delle risorse naturali e di vita. La guerra dell’acqua a Cochabamba, la guerra del gas a El Alto e gli innumerevoli assedi degli indigeni, autoctoni e contadini crearono il contesto per lo smottamento neoliberale e la possibilità storica di una nuova epoca.
L’elezione di Evo Morales come Presidente significa una cesura storica nella storia boliviana e latino-americana. Per prima cosa, le maggioranze votano per uno di loro, si svincolano da tirannie e dominazioni per osar costruire un mondo diverso. Per questo uno dei primi provvedimenti fatti propri dal nuovo governo fu proprio quello di convocare un’Assemblea Costituente, che definissse fisionomia e spessore del nuovo Paese. Un’Assemblea che per la prima volta riunisse i rappresentanti delle molteplici nazioni boliviane, ma nello stesso tempo anche quelle minoranze che per decenni avevano governato questo paese.
La maggioranza delle molteplici nazioni [boliviane] fece proprio tutto un procedimento di scontro, quando si trovarono davanti alla sfida di conciliare i mandati locali ricevuti da ogni membro dell’Assemblea con la prospettiva di costruire una visione di Paese per la Bolivia. Questo è stato il momento fondatore, quando la diversità cominciò a tessere i pezzi della storia per costruirne una nuova.
Il Patto di Unità, che conglobava le principali organizzazioni indigene, autoctone e contadine, (CSU-TCB, Bartolinas, CONAMAQ, CIDOB y APG), fondamentali nella lotta anti-neoliberale, portò anch’esso la sue proposte e riflessioni sul processo di cambiamento e si fece sentire nell’Assemblea Costituente, non soltanto con circa la metà dei membri di maggioranza del MAS-IPSP, ma anche con un documento di proposta, col quale si esponeva chiaramente che il suma qamaña (vivere bene), ñandereko (vita armoniosa), teko kavi (vita buona), ivi Maraei (terra senza malvagità) e qhapaj ñan (cammino o vita nobile)...esprimono le utopie andino-amazzoniche e sono state una vita comunitaria di resistenza al colonialismo, che oggi si vogliono riscattare come proposte di fronte al mondo capitalista. Per centinaia d’anni i nostri popoli sono sopravvissuti in armonia con la pachamama [Madre terra] e con la comunità, le utopie sono state parte della loro vita e adesso, convertendosi nel progetto politico dei popoli indigeni, autoctoni e contadini si convertono nel cammino per muoversi nella nuova storia.
La politica del consenso è parte della vita comunitaria, come lo è la rotazione delle responsabilità. In questo modo, nonostante le trame dell’opposizione, il razzismo che fece vittime nelle file degli stessi membri dell’assemblea, lo scempio dei beni dello Stato, l’umiliazione dei contadini nelle strade, in definitiva, nonostante la risposta dei detentori del potere alla proposta comunitaria e di accettazione per il bene del Paese, si approvò la Costituzione dello Stato plurinazionale, ammettendo che siamo parte di una storia repubblicana e liberale, ma assimilando l’orizzonte comunitario del Vivere bene come realtà e come compito.
Lungo il testo costituzionale si propone la convivenze fra questi due modi d’intendere il Paese. Insieme ai diritti individuali che furono una realizzazione liberale dell’Europa al tempo della Rivoluzione Francese e che sono stati il parametro del Costituzionalismo col quale si inaugurarono le nostre repubbliche, si includono i diritti collettivi dei popoli indigeni, autoctoni e contadini, che sono loro costati tante lotte e tanto sangue dappertutto sul Continente (sudamericano) per essere alla fine riconosciuti dalle Nazioni Unite. La Bolivia fu il primo Paese a rendere costituzionale questo raggiungimento storico, per paradosso un Paese che visse a rovescio la propria realtà e le cui classi dominanti guardavano al Primo Mondo solamente per copiare la struttura legislativa con la quale abbiamo vissuto l’era repubblicana [ndt.: allude qui al Partito Repubblicano - v. anche http://historia.ibolivia.net/node/159 ].
Per quanto riguarda la giustizia, quella dei potenti sopra gli oppressi nell’interpretazione della giustizia ordinaria, si incorpora nell’ambito istituzionale quella che sempre è stata disprezzata, ma anche è servita ai colonialisti quando permettevano che i soggetti interni dei popoli potessero avere la loro propria giustizia. Oggi la giustizia «degli indios» ha cessato di essere un folclorismo per essere parte del riconoscimento che esistono forme diverse e plurinazionali per migliorare la convivenza e risolvere i conflitti.
Si è pure inserita nella Costituzione la rappresentanza politica dei popoli indigeni, autoctoni e contadini negli Organi dello Stato e, benché molti di questi spazi siano stati possibili grazie a meriti propri nella struttura dell’equità e dell’inserimento, si sono altresì creati legalmente spazi di rappresentanza perché questo Paese non li lasci mai più da parte. La questione delle autonomie è un altro grande tema che ha reso costituzionale il diritto all’autodeterminazione dei popoli indigeni, perché in definitiva essi, che vissero per secoli come subordinati e opponendo resistenza, oggi hanno la possibilità di ricostituirsi anche sul territorio, nell’ambito della struttura dello Stato Plurinazionale.
Un altro spazio fondamentale di partecipazione è quello dell’ economia comunitaria che, nell’ambito strutturale dell’Economia Plurale riconosciuta dallo Stato Plurinazionale, è il pieno riconoscimento di un’economia vitale sopravvissuta quasi nella clandestinità che permette ai popoli di poter vivere condividendo la povertà nella quale li aveva precipitati questo genere di permanente colonizzazione da parte delle oligarchie. La sfida maggiore è che questa economia, che parte dalla comunità, sia una risposta al capitalismo il quale, oltre a sfruttare intensivamente il lavoro, sta annientando le risorse del pianeta.
L’aspetto forse più importante dello spirito costituzionale è che i popoli indigeni, autoctoni e contadini sono elementi del Paese e parti costituenti dello Stato Plurinazionale. «Evo presidente» è l’espressione storica di questo grande risultato della lotta dei popoli e la possibilità storica che tutti i boliviani e le boliviane abbiano il diritto legittimo di sognare una vita migliore. I popoli indigeni, autoctoni e contadini sono l’avanguardia della Rivoluzione democratica e culturale, che oggi costruisce un Paese per tutte e tutti, ma che mantiene come orizzonte politico di vita il Socialismo Comunitario, per rendere possibile il vivere bene... Un atto storico di creazione che soltanto le rivoluzioni dei nostri popoli sono in grado di liberare.