L’inchiesta sui confessionali italiani scatena le polemiche. Il quotidiano della Santa Sede attacca: "E’ una vergogna"
L’Osservatore condanna L’Espresso. "Profanato un sacramento" *
Profanazione del sacramento. E’ la sentenza senza appello che L’Osservatore Romano lancia contro L’Espresso, reo di aver pubblicato l’inchiesta sui confessionali italiani.
Il giornalista Riccardo Bocca ha visitato 24 chiese, in cinque città italiane, per "confessarsi" sulle questioni più "scomode", ottenendo spesso risposte contrastanti rispetto alle direttive di Papa Ratzinger. L’intervista, uscita ieri nelle edicole, mette in luce le voci dissonanti della Chiesa per quanto riguarda temi importanti, dai Pacs alle staminali, dalla contraccezione all’omosessualità. Per nulla scontate e spesso sorprendenti le risposte dei confessori interpellati dal "peccatore".
"Vergogna. Un sacramento è stato profanato". Il giornale della Santa Sede si scaglia contro il settimanale definendo il dossier "un’operazione disgustosa, indegna, irrispettosa, particolarmente offensiva".
Secondo l’Osservatore, a farne le spese sono soprattutto i "milioni di credenti, il cui sentimento religioso è stato offeso". In sostanza, il quotidiano del Vaticano punta il dito contro "la grave lesione all’inviolabilità del ministero pastorale" che deriva dall’avere ingannato, a scopo scandalistico, la buona fede dei sacerdoti. "Si è infranto quello spazio certamente sacro - chiarisce il giornale - che è il luogo in cui l’uomo che si riconosce peccatore chiede intimamente di incontrare l’amore misericordioso di Dio".
Altrettando grave, conclude "con tristezza e rammarico" L’Osservatore, è l’assenza di altre reazioni che il servizio non sembra aver suscitato, soprattutto in "quanti in altre circostanze si erano pronunciati in difesa del senso religioso altrove offeso".
* la Repubblica, 27 gennaio 2007.
di Riccardo Bocca *
Eutanasia, condom, staminali, omosessualità. Nei confessionali di cinque città abbiamo raccolto le risposte dei preti. Che molto spesso sono in netto contrasto con le direttive di papa Ratzinger
* L’ARTICOLO SUL SITO DELL’ ESPRESSO
intervista a Gianni Vattimo
"Sulla dolce morte c’è ipocrisia in Italia molti casi nel silenzio"
a cura di Paolo Griseri (la Repubblica, 18 febbraio 2010)
L’unica cosa da evitare, in casi come questi, è l’ipocrisia. Il filosofo Gianni Vattimo sintetizza così il suo commento sulla vicenda Gosling: «La verità è che, anche in Italia, la libertà delle scelte dipende dalla classe sociale. Chi può si rivolge a un amico medico e nessuno sa nulla. Poi tutti discutono dei massimi principi».
Professor Vattimo, anni fa lei rivelò di aver fatto un patto con il suo compagno. Il caso Gosling è simile al suo?
«La principale differenza è che, a quanto risulta, il compagno di Gosling era lucido e cosciente. Noi avevamo stabilito che scelte di questo genere le avremmo compiute solo nel caso in cui uno dei due non fosse più consapevole».
Chi avrebbe dovuto materialmente compiere il gesto estremo?
«Ci siamo iscritti tutti e due ad un’associazione svizzera che si chiama Dignitas. Siamo andati a Zurigo e abbiamo aderito sapendo che sarebbe stato un ospedale di quella città ad accompagnarci nell’ultimo ricovero».
Una scelta che conferma oggi?
«Il mio compagno è morto nel suo letto, non abbiamo avuto bisogno di rivolgerci all’associazione. Ma io ho continuato a pagare la quota: ogni anno spendo 150 euro. L’obolo è l’occasione per riflettere. Ci sono momenti in cui mi immagino come un incubo di essere all’ingresso dell’ospedale di Zurigo ad accompagnare qualcun altro. Sono contento di non aver dovuto accompagnare il mio amico».
Lei è favorevole all’eutanasia?
«Assolutamente sì».
Si sarebbe comportato come Gosling?
«Non conosco il caso specifico ma certo se una persona che soffre mi chiedesse di farlo, credo che lo farei».
Lei continua a professarsi cattolico, nonostante queste sue posizioni?
«Certo».
Non c’è contraddizione tra questa sua posizione e la dottrina della Chiesa?
«Il fatto è che la morale cattolica è stata tutta virata sul tema della difesa della vita biologica. Una posizione strumentale, legata alle battaglie sull’aborto. Una posizione che contrasta con gli stessi insegnamenti della chiesa. La sopravvivenza biologica e la vita sono due cose diverse. Altrimenti non c’è differenza tra la masturbazione e il genocidio. Ma anche il martirio sarebbe in contrasto con quella dottrina. Da bambini ci indicavano come modelli i santi che avevano scelto il motto: "la morte ma non il peccato"».
Che cosa è cambiato da allora? Non è più vero? Lei sarebbe favorevole a una modifica dell’attuale legge italiana?
«Ovviamente. Altrimenti anche la mia iscrizione all’associazione svizzera rischia di diventare inutile».
Come mai?
«Perché in Italia l’omicidio del consenziente è vietato. E sarebbe trattato da complice di omicidio chi acconsentisse alla mia richiesta e mi trasferisse a Zurigo. Spero che, se fosse necessario, si trovi qualche amico disposto ad accompagnarmi almeno al confine. Spero soprattutto, ma temo che non succederà, che la legge italiana sia un giorno in grado di distinguere tra la sopravvivenza biologica e la vita».
In caso contrario?
«In caso contrario le cose continueranno ad andare come oggi: chi può trova un amico medico e chi non può soffre fino alla fine. Possiamo dirla così: le classi sociali più elevate se la cavano e gli altri si arrangiano».
Eutanasia, lasciare le cose come stanno?
Ma la legge prevede 15 anni di carcere
Sulla questione non ci si può girare ancora dall’altra parte
di Marco Cappato (il Riformista, 15.07.2008)
Caro direttore,
quindici anni di carcere. Ecco la prima cosa che hanno in comune le storie che girano intorno alla parola «eutanasia», se con questa intendiamo non un concetto giuridico (che infatti non è mai menzionato dal nostro ordinamento), ma la scelta di una «buona morte». I quindici anni di carcere per omicidio del consenziente sono la minaccia che pende su tutti coloro - medici, familiari, amici, nemici - che "aiutano" quelle persone. La seconda cosa che hanno in comune quelle storie sono le scelte, drammatiche, che investono sempre più le fasi finali (sempre più lunghe della vita), indipendentemente dalla «tecnica» necessaria per realizzarle.
Lei, direttore, vuole lasciare le cose come stanno. Dopotutto, si potrebbe dire, Piergiorgio Welby ha ottenuto di interrompere le terapie; Beppino Englaro è stato autorizzato a interrompere l’alimentazione di Eluana; una signora a Modena ha nominato un amministratore di sostegno che ha impedito la tracheotomia necessaria per farla vivere contro la propria volontà; Giovanni Nuvoli ha ottenuto di essere lasciato morire. E chi invece vuole vivere può - sanità permettendo - vivere.
Lasciamo le cose così, dunque? No. No, perché il radicale Welby ha mosso il mondo per tre mesi prima di trovare un medico (su 400 mila in Italia) disposto ad aiutarlo, e quel medico ha aspettato un anno prima di uscire innocente dalle aule dei tribunali, mentre se avessero agito i medici belgi pronti a somministrare una dose letale, sarebbero stati condannati al carcere; no, perché Beppino Englaro di anni ne ha aspettati sedici, e se si fosse mosso prima avrebbe rischiato quindici anni di carcere; no, perché la signora di Modena ha avuto la fortuna di trovare un magistrato pronto e sensibile, altrimenti ora avrebbe un tubo non voluto in gola; no, perché Giovanni Nuvoli si è dovuto uccidere da solo autosospendendosi cibo e acqua per otto giorni visto che i carabinieri avevano fermato l’anestesista radicale Tommaso Ciacca, il quale affrontava il rischio di... quindici anni di carcere!
Caro direttore,
lei ha scritto che la scelta della madre malata che si toglie la vita è individuale e «tragicamente libera». E precisa: «Quando il malato è ancora in grado di fare da sé». Ma quando non è in grado di fare da sé? Davvero lei vorrebbe far dipendere tutto dal fatto che la persona ha ancora in sé un briciolo di energie per suicidarsi? Distinguere è bene, certo.
Distinguere tra interruzione delle terapie, testamento biologico, suicidio assistito, suicidio, e le altre categorie che si possono individuare. Alla base di queste scelte c’è però il dovere, per lo Stato, di distinguere soprattutto tra una scelta libera e responsabile e una imposizione (di vita o di morte che sia) subita da altri: che siano medici ideologizzati o parenti ingordi. Da una parte c’è la «buona morte», dall’altra c’è l’eutanasia clandestina, l’omicidio o l’accanimento tecno-sanitario.
Distinguere per legge non è «burocratico», ma è necessario per proteggere il cittadino da violenze, da suicidi di disperazione, da «cattive morti» che un aiuto della legge e dello Stato potrebbe trasformare sia in vite decenti che in buone morti, o «morti opportune», come le chiamava, con Jacques Pohier, Piero Welby.
Proprio come lei, la legge italiana oggi non distingue sulla base della scelta (se è libera o no), ma sulla «tecnica». Se il medico di Welby avesse usato qualche milligrammo in più di anestetico, sarebbe diventato un omicida. Se con Nuvoli un farmaco letale avesse interrotto la sua agonia di fame e di sete, sarebbe stato un omicidio, così come se qualcuno ritenesse che quella di Eluana ora non debba essere trasformata in «agonia dell’agonia», con lunghi giorni di tifoserie politico-religiose, ma medicalmente terminata in pochi attimi (dopo sedici lunghi anni).
Direttore, scrivere che «nessuna legge umana può regolare la morte», e al tempo stesso chiedere che «le cose restino come stanno», è semplicemente contraddittorio. Le leggi già ci sono: sono cattive leggi delle cattive morti, che ammettono eccezioni soltanto da parte di persone particolarmente preparate, agguerrite o fortunate. Ecco perché le buone leggi servono, e non ci si può girare dall’altra parte.
* segretario Associazione Coscioni e deputato europeo radicale
Eutanasia (ri)leggetevi il catechismo
di ARRIGO LEVI (LA Stampa, 2/6/2008)
Mi stupisce, anche se non sono forse la persona più adatta a parlare di questi temi, che il dibattito sull’«accanimento terapeutico» e l’«eutanasia» sia condotto senza che da nessuna delle due parti sia chiamato in causa il Catechismo della Chiesa Cattolica, articolo 2278 (cito dall’edizione del 2006 della Libreria Editrice Vaticana). Si direbbe che, oltre alla Bibbia, gli italiani non abbiano l’abitudine di leggere nemmeno questo testo, che vuol essere «esposizione completa ed integra della dottrina cattolica», emanato da Giovanni Paolo II, nell’edizione preparata da una Commissione Interdicasteriale costituita a tale scopo dal Papa nel 1993, e presieduta da colui che sarà suo successore, l’allora cardinale Joseph Ratzinger.
Dice dunque l’articolo citato, che si trova a pagina 608 del volume: «L’interruzione di procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi può essere legittima. In tal caso si ha la rinuncia all’accanimento terapeutico. Non si vuole così procurare la morte: si accetta di non poterla impedire. Le decisioni devono essere prese dal paziente, se ne ha la competenza e la capacità, o, altrimenti, da coloro che ne hanno legalmente il diritto, rispettando sempre la ragionevole volontà e gli interessi legittimi del paziente».
La rinuncia a intervenire
È bensì vero che il precedente articolo 2277 afferma che «un’azione oppure un’omissione che, da sé o intenzionalmente, provoca la morte allo scopo di porre fine al dolore» costituisce comunque un «atto omicida», anche se compiuto «in buona fede». Nel caso in discussione, quale articolo si deve applicare?
Il discrimine tra i due articoli è in verità sottile, e a mio parere non privo di ambiguità. Nel caso della paziente di Modena, che ha rifiutato la tracheotomia, col consenso del giudice, sembra a me evidente che l’intervento avrebbe protratto per un periodo di tempo limitato la sua agonia, ma non le avrebbe salvato la vita. Si sarebbe trattato quindi di una procedura medica sicuramente «onerosa», per la paziente stessa, e «sproporzionata rispetto ai risultati attesi». Sicché la rinuncia all’intervento stesso, in base alla «ragionevole volontà» della paziente stessa, a suo tempo comunicata a chi di dovere, non mirava a «procurare la morte» della paziente, ma soltanto accettava «di non poterla impedire». E la rinuncia all’intervento era una «rinuncia all’accanimento terapeutico».
L’interpretazione corretta
A mio avviso è questa l’interpretazione corretta del dettato del catechismo, quale emerge peraltro dall’intervista concessa alla Stampa dal vicario episcopale di Bologna, monsignor Nicolini; secondo il quale «la dottrina è importante ma la compassione e la misericordia non lo è di meno», talché «è difficile rifiutare al singolo il diritto al rifiuto informato delle cure»; e che abbia in questo caso avuto torto il cardinale Giovanni Battista Re, anch’egli intervistato dal nostro giornale, che ha giudicato il tragico epilogo di vita della signora Vincenza Santoro Galani come «il primo caso di morte a comando».
Il mio giudizio, ovviamente, vale per quel che vale. Non sono io in grado di dire con assoluta certezza chi, fra i due illustri prelati, abbia torto, e chi abbia ragione. Trovo comunque lodevole che sia stata da noi resa pubblica questa divergenza d’opinione, che può dare il via a un utile dibattito all’interno della Chiesa stessa. Quanto a me, mi tengo all’articolo 2278, che mi è sembrato opportuno ricordare in questo caso, visto che non l’ho mai visto citato da nessuno in casi analoghi, e perché mi sembra convalidi, da una prospettiva rigorosamente cattolica, il giudizio, che condivido, di Michele Ainis, apparso sulla Stampa di venerdì, fondato sui nostri dettati costituzionali e sulle nostre leggi. Ma non nego che la lettura delle 982 pagine del catechismo è un esercizio un po’ faticoso, e forse poco diffuso. Ma è consigliabile, utile e istruttivo.
Un episodio scandaloso Note a margine di un articolo apparso su “La Civiltà Cattolica”, 2007, I, 319-323, quaderno 3760 del 17 febbraio 2007.
Che l’iniziativa giornalistica di Riccardo Bocca possa risultare “avvilente” - come la definisce La Civiltà Cattolica, è fuor di dubbio. Che l’estensore dell’articolo de L’Espresso sia incorso nelle censure canoniche e nella scomunica, è altrettanto certo. Ma quanto riferisce il periodico dei Gesuiti, se da una parte può risultare anche troppo prolisso nel difendere la sacralità della Confessione e nel circostanziare i fatti, di certo appare quantomeno omissorio in alcuni punti non irrilevanti: è su questi che queste note si soffermeranno.
La Civiltà Cattolica riconosce che l’obiettivo dell’articolo è di «mostrare il contrasto tra “le direttive di papa Ratzinger” e le posizioni dei confessori, e inoltre presentare i “sacerdoti in bilico tra i princìpi della dottrina e quelli più terreni della pastorale”». Detto questo, si passa a deplorare la violazione del sacramento, il dolo nell’aver voluto «soltanto “provocare” con l’inganno il sacerdote affinché, sotto la “guida” del giornalista, mostrasse che “nelle confessioni i preti contraddicono i no del Papa”, che cioè essi giudicherebbero in modo non conforme alla dottrina cattolica, ma in modo del tutto arbitrario le azioni denunciate dal penitente».
Se Riccardo Bocca voleva dimostrare che il Clero non segue il Magistero papale, si può serenamente affermare ch’egli sia pienamente riuscito nell’intento: la difformità delle indicazioni e degli ammonimenti dei Confessori rispetto alla morale ed alla dottrina cattolica è talmente evidente, da non richiedere alcun distinguo nemmeno in quanti ignorano i principi basilari della Teologia Morale.
Andrebbe inoltre ricordato che il livello dei docenti e dei discenti - futuri Confessori - degli Atenei romani e delle cattedre dei Seminari diocesani è talmente infimo, da render plausibile a quanto rilevato dal giornalista de L’Espresso quantomeno la verisimiglianza. E certamente a non pochi fedeli sarà accaduto - nell’esposizione delle proprie colpe, più o meno gravi - di sentirsi spesso assolvere in maniera spicciativa e talvolta anche infastidita da ecclesiastici riformati, per i quali il Sacramento della Penitenza non è - come insegna la dottrina - il tribunale a cui ci si rivolge al ministro di Dio per aver rimesse le proprie colpe, ma un momento di dialogo, di confronto, in cui “ci si mette in discussione”. Da questa concezione un po’ annacquata della Confessione derivano poi tutte queste smanie di avere il penitente seduto a fianco, anziché inginocchiato; di confessarsi nello studio del Parroco, alla scrivania, come in una conversazione amichevole; di non usare l’abito ecclesiastico e la stola (o peggio di mettere la stola sull’abito borghese). Non parliamo dell’Atto di dolore, che spesso il Confessore cambia sbrigativamente in una formuletta tipo “Signore perdonami”.
Questi chierici - che ormai latitano dalle chiese anche nei giorni di precetto ed occorre far chiamare con strepito dai sagrestani - non mancano di far notare all’incauto penitente che ricorda ancora l’Atto di dolore insegnatogli dalla madre, che quel «propongo con la Vostra santa grazia di mai più offenderVi» è medievale e che si deve dare del tu anche al buon Dio. Costoro, cui alcune colpe de sexto suscitano noia - e vengono liquidate con un infastidito «vabbè, passiamo ad altro» - si scandalizzano solo allorché si spiega loro, incidentalmente, che si frequenta la Messa tridentina. A quel punto le fauci dell’Inferno si spalancano per fagocitare il peccatore, ammonito con toni severissimi che essere lefebvriani è il peggiore dei peccati mortali, che c’è la scomunica latæ sententiæ, che c’è stato un Concilio - uno solo, ovviamente - e che per penitenza si dovrà, sotto la minaccia di non essere assolti, seguire d’ora innanzi l’Eucaristia nella propria chiesa parrocchiale.
Sempre secondo La Civiltà Cattolica, Bocca «cerca di “condurre” il confessore ad affermare, correttamente secondo la dottrina cattolica, che quello che conta nell’agire morale è il giudizio della propria coscienza. Questo è verissimo. Ma ci si dimentica di aggiungere [...] che il giudizio della propria coscienza dev’essere illuminato dalla verità e, a tal fine [...] il ricorso al Magistero è di grande aiuto per la formazione di una coscienza “retta”». Ma si dimenticano, i reverendi Padri, che quasi sempre i Confessori si limitano a farsi elencare quelle che il penitente crede siano colpe da confessare, ben guardandosi - tenuto conto dell’ignoranza odierna - dal guidarlo prudentemente, ad esempio seguendo i Comandamenti ed i Precetti. Non mi sono mai sentito chiedere in Confessione nulla circa il precetto domenicale, il digiuno quaresimale, il rispetto dovuto ai genitori ed ai superiori, le cattive letture, la pornografia in televisione e via elencando. La maggior parte non domanda mai né il genere, né il numero dei peccati commessi, come pure è richiesto per l’integrità del Sacramento.
Sempre in coerenza con la situazione disastrosa del Clero riformato, ci sono anche alcuni - e in questo posso dare testimonianza personalmente - che modificano le parole dell’assoluzione sacramentale a proprio capriccio, con formule prive di efficacia come: «Io ti perdono dei tuoi peccati nel nome del Padre ecc.» e non «Io ti assolvo dai tuoi peccati ecc.». Quando mi è accaduto di sentir dire al Confessore una tale enormità, gli ho chiesto di assolvermi con la formula prescritta ad validitatem e questi mi ha risposto che non dovevo impicciarmi; solo dopo avergli fatto presente che non poteva permettersi di cambiare la formula sacramentale e che ritenevo in coscienza di dovergli ricordare l’estrema gravità del suo comportamento, si è deciso ad accontentarmi, ma mi ha detto tranquillamente che erano anni che faceva così e che non intendeva correggersi. Avvertitolo che l’avrei denunciato al Vescovo, mi ha risposto con un «faccia quel diavolo che vuole».
Bene fa dunque La Civiltà Cattolica a ricordare l’onere del Confessore di istruire il penitente e di formare in lui una retta coscienza, ma queste parole andrebbero ricordate piuttosto ai confratelli, che non al giornalista. Anche perché si evince chiaramente che questi non ha la minima idea di cosa sia la retta coscienza, e non è quindi in grado di metterla in dubbio nell’articolo.
E stupisce che una pubblicazione cattolica ritenga che l’aver tentato di conoscere le posizioni dei Confessori simulando dei casus conscientiæ sia «condannabile moralmente, trattandosi di un inganno». Di certo vi è stato inganno, nel fingersi un penitente; ma non vi è stato inganno nel riportare gli ammonimenti dei Confessori, dimostrandone l’incongruenza con gli insegnamenti magisteriali. Bocca voleva sapere come confessa realmente un sacerdote, ed ha voluto verificarlo in Confessione, e non certo presentandosi come un giornalista intenzionato a divulgare il contenuto delle sue ammonizioni: fin qui ci arriva anche un minus habens. Altrimenti è ovvio che il sacerdote avrebbe risposto ben diversamente. Che poi ciò sia avvenuto senza rispetto per un Sacramento è altra cosa, e va valutata a parte.
Ancora, secondo il periodico dei Gesuiti il comportamento è censurabile «dal punto di vista dell’etica professionale», poiché «un giornalista non può mettere scandalisticamente in pubblico [...] cose dette in un clima che sottintende un reciproco patto di riservatezza, il quale diventa, nel professionista che ha ricevuto le confidenze, obbligo di segreto professionale». Vale la pena ricordare ai reverendi Padri che la Confessione impone l’obbligo del Sigillo sacramentale al solo Confessore, e non al penitente, che è liberissimo di divulgare le proprie colpe come crede. Lo stesso vale per altri ambiti: uno psichiatra è tenuto al segreto professionale, mentre il paziente non ha alcun vincolo di riservatezza. Né si comprende cosa mai dovebbe temere un Confessore, laddove si pubblicasse che al peccatore adultero egli ha ricordato l’obbligo di fedeltà al coniuge, o che al ladro ha imposto la restituzione di quanto rubato. Pare che questa attenzione ad un presunto «reciproco patto di riservatezza» serva piuttosto a mascherare lo stato di vero e proprio abbandono in cui versano i sacerdoti di oggi, senza alcuna formazione né controllo da parte dei Superiori, e men che meno alcuna punizione qualora li si sappia colpevoli, specialmente quando la loro incapacità o ignoranza può esser causa di scandalo per i fedeli. E non si dimentichi che in una Basilica romana vi è come Confessore il Superiore di un Ordine religioso, il quale dichiara tranquillamente di non credere nel Sacramento della Penitenza e di andare a confessare solo perché costretto. Da un sacerdote di tal fatta, che assoluzione si può sperare? Altro che “supplet Ecclesia”: qui siamo all’eresia manifesta, nel più totale disinteresse dell’Autorità ecclesiastica.
Ci si poteva attendere da La Civiltà Cattolica una qualche forma di “mea culpa”, non foss’altro che per evitare che la censura di Bocca, con tanto di scomunica, apparisse solo come una aprioristica difesa d’ufficio - peraltro scarsamente credibile - dei propri confratelli. La qual cosa, più che “avvilente”, appare davvero “scandalosa”.