Ho la netta impressione che fin qui non si sia colto - di là dal preciso accertamento delle responsabilità penali, che, in corso, spetta solo alla magistratura - il significato che ha per la Calabria l’inchiesta Why not.
Nel merito mi pare che, in generale, politica e stampa si soffermino ancora, seguendo la vecchia logica delle fazioni, sull’antitesi fra giustizialismo e garantismo, risalente alla dimenticata Mani pulite; come se ogni valutazione critica debba per forza ricondursi all’uno o all’altro schieramento. Ai Di Pietro e agli Sgarbi e Berlusconi, per esplicitare con noti riferimenti politici.
Per anni, l’Italia è stata «vittima», passi il termine, d’una riduzione di sé che è valsa a inasprire le tensioni sul tema della giustizia.
Oggi il quadro non è mutato, nonostante l’avvento della rete, che permette, ma ad una minoranza di utenti con specifiche conoscenze tecniche, di assumere ed elaborare le informazioni in circolo. Da un lato, c’è chi pensa che una pronta repressione serva a risolvere i problemi dell’amministrazione pubblica nazionale, in parte “deviata” dalla corruzione. Dall’altro, c’è chi ritiene che non siano ammissibili accanimenti di magistrati e giornalisti nei confronti d’un indagato od imputato, sino a sentenza definitiva. E la vigilanza etica della società civile a cui esortava Paolo Borsellino, dove la mandiamo?
Poi, ci sono le posizioni intermedie e le contraddizioni dell’uno e dell’altro fronte. Per esempio, sulla vicenda di Bruno Contrada, ex numero tre del Sisde, c’è chi respinge integralmente, nonostante la condanna in Cassazione, ogni riprovazione per la condotta del poliziotto; emersa, in vero, in tutte le sedi processuali. Parimenti, in vari dibattiti ritorna l’inquietante storia del presentatore televisivo Enzo Tortora, innocente, che a mio avviso rappresenta anzitutto la fallibilità della giustizia, fatta da - e per gli - uomini.
Riguardo all’operato dell’ex pm Luigi De Magistris, già titolare di Why not, la politica calabrese ha mantenuto sostanzialmente due posizioni: pro e contro. Con in mezzo risentimenti personali, a volte iperbolici e perfino grotteschi, di indagati di spicco; unitamente a una certa repulsione di derivazione ideologica, in seno all’antimafia, nei confronti dei collaboratori di giustizia - secondo il compianto giurista Federico Stella, che all’Università Cattolica di Milano insegnava Cesare Beccaria, «preziosi per scardinare intere organizzazioni criminali».
In un servizio giornalistico apparso sul quotidiano Il Sole 24 Ore del 13 gennaio, è riportata un’affermazione di Antonio Saladino, tra le principali figure dell’impianto d’accusa di Why not. Lo stesso Saladino, interrogato dalla Procura di Paola, che dell’inchiesta ha il filone dei finanziamenti Ue, ha definito le specie di movimenti oggetto di verifica come «ammortizzatore sociale». Sollecitata a procedere da Roberto Galullo, autore del pezzo, la Procura di Paola dovrà sentire nuovamente Saladino, che di recente sta pure rilasciando delle interviste alla stampa nazionale.
Stando a Il Sole 24 Ore, e indipendentemente dalla posizione di Saladino - che, parlando coi magistrati, ci ha comunque fornito del materiale significativo -, in Calabria c’è un sistema di clientele che giova in primo luogo a certa classe politica, permettendole di rimanere al suo posto, di cumulare i voti necessari a occupare posizioni strategiche di potere.
Lo stato delle indagini di Why not ci consente di concludere che l’inchiesta traduce una realtà preesistente, di cui forse siamo diventati più consapevoli per i racconti e gli echi della cronaca. Di solito, quando qualcosa è troppo evidente non si visualizza mai. E da noi le commistioni sono sempre state palesi.
Gli sprechi in Regione, datati e risaputi, gli innumerevoli distaccamenti amministrativi, la moltiplicazione degli uffici, la lunga incapacità di razionalizzazione delle risorse, l’assoggettamento a società private che gestiscono servizi essenziali e molti rapporti poco trasparenti fra pubblico e imprenditoria hanno piegato la Calabria e aumentato vertiginosamente l’emigrazione per lavoro. Chi resta deve contentarsi del «posticino», della sistemazione temporanea e improduttiva, in cambio del fatidico voto. E questo è un danno, prima che un dramma, soprattutto per i più giovani.
Tutto sommato, che in Calabria esistano o meno comitati d’affari coperti dall’esoterismo, come Agostino Cordova tentò di provare negli anni Novanta da procuratore di Palmi, non modifica le parziali risultanze di Why not sul sistema, tipicamente calabrese, di gestione della cosa pubblica.
Nel Nord ricco e organizzato, Tangentopoli svelò l’esistenza di rapporti consolidati fra industria, finanza e partiti. In Calabria non si può negare che tanta politica abbia lavorato, sistemando masse di questuanti e lobby di prenditori, per mantenere una condizione di sottosviluppo diffuso, funzionale alla propria sopravvivenza.
Invertire la rotta è possibile, ma solo prendendo atto del fenomeno, che sicuramente porta con sé il marchio made in Italy, ma che in Calabria ha assunto proporzioni molto più importanti. Basti pensare, ma deve essere confermata in giudizio, all’agilità con cui dirigenti del Comune di Crotone si sarebbero mossi per favorire il progetto “Europaradiso”, del miliardario israeliano David Appel, assieme a presunti affiliati alla ’ndrangheta.
È giunto il momento di rinunciare tutti ad ammiccamenti e favori e di cominciare a pretendere programmi concreti dalla politica. La giustizia farà il suo compito. Ma molto dipenderà dalla nostra società, che per ora è largamente familistica o, peggio, «sparente».
13 gennaio 2008
Questo articolo di commento, inviato a Il Quotidiano della Calabria, non è stato pubblicato dal direttore del giornale calabrese. La motivazione ufficiale, data all’autore, è che il pezzo contiene un riferimento a un altro articolo, pubblicato su un altro giornale. Si tratta dell’articolo di Roberto Galullo, pubblicato su "Il Sole 24 Ore" del 13 gennaio 2009 a pagina 15, al cui link si rinvia per opportuna conoscenza.
Why not, l’altra verità su De Magistris e Saladino (di Emiliano Morrone)
di Emiliano Morrone (Iacchite - 20 Ottobre 2019)
Colpì milioni di persone il volto commosso di Rosanna Scopelliti davanti alle telecamere di Annozero. Restò nella memoria collettiva quello struggente primo piano della figlia del magistrato Antonino Scopelliti, ucciso dalla ‘ndrangheta il 9 agosto ’91. Era il 22 ottobre 2007, la giovane parlò a un centinaio di studenti del liceo Galluppi di Catanzaro, toccati pure dai discorsi di Sonia, primogenita del giornalista Beppe Alfano ammazzato da Cosa nostra l’8 gennaio ’93, e di Salvatore, fratello di Paolo Borsellino, vittima della strage di via D’Amelio del 19 luglio ’92.
Nell’auditorium del Galluppi il fremito dei docenti cresceva all’ascolto dei tre relatori, giunti sul posto a difendere il sostituto procuratore di Catanzaro Luigi De Magistris, cui era stata tolta l’inchiesta Why not con indagati “eccellenti”: il primo ministro Romano Prodi, il Guardasigilli Clemente Mastella, il governatore della Calabria Agazio Loiero e il suo predecessore Giuseppe Chiaravalloti, altri politici di peso e figure di rilievo pubblico.
Fondate su tabulati telefonici e testimonianze amplificate, le ipotesi investigative erano inquietanti: potentissimi comitati d’affari a drenare fiumi di risorse destinate allo sviluppo della Calabria, la regione più povera d’Europa, e in cima alla “piramide” la cosiddetta «Loggia di San Marino». E poi trame fittissime, rinvii a lontane, irrisolte vicende parallele, voci di complotti e insabbiamenti e sullo sfondo il palazzo della “casta” come sede dell’immoralità, della corruzione, delle ruberie più fetide a danno dei cittadini. Infine, ma non in coda, c’era la mente, lo stratega, il personaggio chiave dell’inchiesta, individuato in Tonino Saladino, il numero uno della Compagnia delle Opere calabrese, l’uomo che dialogava con i ministri (ma senza anticamera e intermediari).
La Calabria aveva trovato la ribalta mediatica per l’omicidio Fortugno e la strage di Duisburg, e forse in giro sopravviveva, in quell’autunno del 2007, l’immagine della blindata di “don” Carmine Arena sventrata da tre razzi di bazooka nell’ottobre del 2004 a Isola Capo Rizzuto (Crotone).
Quindi c’erano tutti gli ingredienti - e i precedenti - per raccontare, diffondere, benedire e imporre ovunque l’impianto e la portata di Why not, su cui cadde il governo Prodi. Antonio Di Pietro intuì che De Magistris era un cavallo elettorale, Beppe Grillo ne riverberò le gesta assieme a Marco Travaglio e a suon di voti il pm, giovane, alto, moro, figo, entrò nel Parlamento europeo ottenendo la presidenza della Commissione per il controllo dei bilanci.
Fu la stagione delle certezze morali, forse più di Tangentopoli. Buoni e cattivi erano distinguibili e catalogabili all’istante. De Magistris veniva percepito come l’eroe, l’arcangelo della giustizia che avrebbe scacciato e schiacciato i demoni della politica, i diavoli del palazzo col sostegno del popolo in rivolta.
Per questo era necessario credergli con fede imperitura, alimentarne il mito, proteggerlo da tutte le critiche e delegittimare i loro autori a livello personale. De Magistris appariva come l’inviato dalla provvidenza. Dietro di sé aveva i ragazzi calabresi, le famiglie, la tv, la rete, i nemici cattivi e ributtanti da un lato e dall’altro sostenitori di forte impatto: giornalisti, accademici, attivisti antimafia, artisti e vari nomi popolari.
Io stesso vengo da quella corrente, da quella cultura di manicheismo integralistico poi radicata sino al rifiuto inamovibile del perdono collettivo e della possibilità di recupero del reo, come se Cesare Beccaria non fosse mai esistito o avesse scritto vacui spot pubblicitari.
È una cultura aggressiva, autoreferenziale, di superficie, priva di obiettività, direzione, coerenza ed effettiva capacità di cambiamento. È una cultura repressiva: delle manette, delle sbarre, del carcere e della disumanità. È una cultura parassitaria che, traendo linfa dalla buona fede o credulità delle masse, ha determinato carriere politiche folgoranti, spesso a prescindere dal merito individuale.
Ed è una cultura che riduce la democrazia a simulacro, conferendole sostanza ambigua e dimensione utopica; una cultura strumentale all’utile di pochi e all’immobilismo generale, in virtù della quale sono nati leader monocratici senza storia, identità e visione, con il solo scopo di rimescolare rapporti di forza e “attori” in gioco. Tonino Saladino
È la stessa cultura, insomma, che ha permesso l’ascesa dei nuovi “santi” e, per esempio, la demonizzazione senza riparo di Saladino, che dopo anni infernali la giustizia ha ritenuto lindo ma che a cadenza periodica viene ancora tirato in ballo, nell’oceano incontrollabile di Internet, come mostro a sette teste, amico degli amici ed eminenza grigia, creatura tentacolare.
Devo chiedere pubblicamente scusa a Saladino: per essermi lasciato trascinare dal delirio collettivo, dalla cattiveria meccanica che a lungo ha informato analisi e comportamenti di tanti giovani, tra cui il sottoscritto, vinti dall’istinto rabbioso di distruggere più che ispirati dalla necessità razionale di costruire.
Why not è finita nel nulla. Saladino, assistito da avvocati di spessore che hanno rinunciato al compenso, ha dovuto sostenere spese vive per 200mila euro al fine di provare la propria innocenza, infine certificata dalla magistratura.
Saladino, che ho potuto vedere da vicino, è un uomo semplice, un “povero cristiano” con il torto di essere intelligente e colto, di non avere fame di ricchezza né brama di potere. È un seguace di don Giussani, uno che pratica la carità in una terra meravigliosa ma inaridita da egoismi, invidie, veleni e disgregazione sociale, prima che dalla ‘ndrangheta. È un guaio, e nessuno a Saladino restituirà la gioia, la serenità e la salute dell’animo perdute negli anni dei processi, degli insulti e dei racconti sbrigativi patiti.
Tuttavia, da gioachimita penso che ci sia una giustizia “divina” anche in questa terra, in questa vita, che passa dall’affermazione della verità, anche se troppe volte tardiva e logorante.
Alla Calabria non servono eroi, ma menti libere, aperte, oneste, audaci. Vere.