Peppino Impastato era un ribelle. Come Luigi Tenco. Morì ucciso in modo brutale dalla mafia. Tenco si suicidò. E tanto bastò a chiudere la vicenda. Peppino fu dimenticato dallo Stato italiano. Nello stesso giorno, l’omicidio di Aldo Moro, a opera di illusi, folli, fanatici.
Peppino lottò contro l’illegalità in un posto, Cinisi, simile a San Giovanni in Fiore. Tutto, lì, era controllato dall’altro Stato: pensieri, parole, azioni. Tutto era deciso dall’altro Stato.
Peppino si oppose con creatività, passione e una proposta politica. Veniva dal Partito comunista, di cui avversò dogmi e metodi.
La storia di Peppino è emblematica: oggi, anche dopo il film I cento passi, di Marco Tullio Giordana, Peppino è diventato un eroe. Ma è un eroe senza partito, schieramento e polo. Un eroe, un martire per la libertà e la legalità. O, forse, un martire della libertà e della legalità. Noi della Voce vogliamo ricordarlo con semplicità, annunciando un’iniziativa di giovani di San Giovanni in Fiore, le "Brigate rotte", in sua memoria. Giorno 12 maggio ci sarà un pomeriggio, a San Giovanni in Fiore, dedicato all’opera di Peppino Impastato, che deve continuare negli angoli depressi del mondo. Nei luoghi martoriati dalla mafia, che è sempre uguale, nonostante nomi e stili differenti.
Dopo la proiezione di I cento passi, ci sarà un dibattito, con la partecipazione di chi scrive, che tenterà, soprattutto grazie ai ragazzi delle "Brigate rotte", di svolgere una riflessione sull’attualità del caso Impastato nel contesto locale di San Giovanni in Fiore.
Corneliano Bulbarelli
9 maggio. Peppino Impastato: la sua morte venne oscurata dal caso Moro
di Fulvio Fulvi (Avvenire, mercoledì 9 maggio 2018)
Nove ore prime del ritrovamento del cadavere dello statista democristiano a Roma la mafia siciliana aveva ucciso il giornalista noto per la sua battaglia contro il boss "Tano" Badalamenti
Alle prime luci dell’alba di quell’orribile martedì 9 maggio, nove ore prima del ritrovamento del cadavere di Aldo Moro nel bagagliaio della Renault 4 in via Caetani a Roma, il conducente del diretto Trapani-Palermo che sta per giungere alla stazione di Cinisi-Terrasini sente uno strano sussulto sotto il locomotore e ferma il convoglio. Scende e si accorge che in quel tratto di ferrovia che attraversa la campagna, per circa un metro le rotaie sono divelte dalle traversine. Il treno ha rischiato di deragliare. Il macchinista chiama i carabinieri che perlustrano la zona e notano sopra quei binari, e sparsi tutt’intorno fino a una distanza di trecento metri, minuti brandelli di un corpo umano. Qualcuno all’una e mezza di notte è saltato in aria per una bomba (cinque chili di tritolo, si scoprirà più tardi) ma nessuno, nelle vicinanze, ha sentito niente. I poveri resti vengono raccolti e portati via dagli investigatori dentro tre sacchetti di plastica. Si saprà quasi subito che appartengono a Giuseppe Impastato detto Peppino, giornalista e conduttore di Radio Aut, l’emittente libera di Cinisi, il paese in cui abita il boss di Cosa Nostra, don Tano Badalamenti, che risulterà direttamente coinvolto nell’inchiesta giudiziaria sul traffico di droga tra la Sicilia e l’America denominata ’Pizza connection’. Peppino è un giovane di trent’anni che porta baffi, barba e capelli lunghi, un militante della sinistra extraparlamentare, candidato di Democrazia Proletaria alle elezioni comunali, un ’ribelle’ che il padre mafioso ha ripudiato. Volto shakespeariano e carattere donchisciottesco.
Uno che ai microfoni della radio, nella sua trasmissione ’Onda Pazza’, non va tanto per il sottile nei confronti dei potenti, denunciando con sferzante ironia gli sporchi affari dei mafiosi e dei politici locali che ritiene collusi. Come è morto Impastato, e perché?
La prima ipotesi degli inquirenti è quella di un attentato terroristico non riuscito, come accadde nel 1972 a Giangiacomo Feltrinelli, dilaniato da un’esplosione sotto un traliccio elettrico a Segrate mentre metteva a punto un ordigno ad orologeria. Sono gli Anni di Piombo e l’Italia, sconvolta dalla violenza eversiva, ha paura: da 55 giorni il presidente della Dc è stato rapito dalle Brigate Rosse, il loro covo pare introvabile, si teme il peggio e i cittadini, i vertici dello Stato, le forze dell’ordine hanno i nervi scoperti. Posti di blocco, pattugliamenti, perquisizioni domiciliari a Roma e dintorni. C’è chi vede dappertutto i fantasmi con la stella a cinque punte. Il Tg 1 delle 13.30, lo stesso nel quale qualche minuto dopo sarà drammaticamente annunciato in diretta il rinvenimento del corpo dello statista democristiano, dedica alla morte del giornalista di Cinisi un servizio di cinquanta secondi che parla di un fallito attentato o di un probabile suicidio perché da una perquisizione in casa della madre sarebbe spuntato fuori un biglietto in cui il giovane avrebbe manifestato l’intenzione di togliersi la vita (in realtà si trattava solo dello sfogo, scritto mesi prima, di un uomo depresso che voleva curarsi e riposarsi dopo tante battaglie perse).
Ecco, il suicidio, la tesi che allora, con la prova nelle mani dei militari dell’Arma (la lettera fu resa pubblica dalla Commissione parlamentare antimafia 22 anni dopo) sembrava la più plausibile, forse perché ’tranquillizzava’ e metteva d’accordo tutti.
Tutti, tranne la coraggiosa mamma del defunto, Felicia Bartolotta, il fratello Giovanni e i compagni di Radio Aut, certi sin dall’inizio che si trattasse invece di un omicidio di matrice mafiosa. Qualche breve articolo sui giornali nazionali di mercoledì 10 maggio e poi, del ’caso Impastato’ non si parlò più. L’assassinio dell’onorevole Moro e la cronaca delle indagini sull’affannosa ricerca dei suoi aguzzini, infatti, occuparono per diverse settimane ancora pagine e pagine di giornali e i notiziari Tv.
L’11 maggio, due testate della sinistra estrema e il quotidiano di Palermo ’L’Ora’ , però, dando credito all’ipotesi avanzata dai familiari di Peppino Impastato, invitano gli inquirenti a seguire la pista del delitto di mafia. Dopodiché su questa morte ancora avvolta dal mistero calò pesante il silenzio dei mass media. I riflettori si riaccesero soltanto in occasione delle inchieste giudiziarie e dei processi, susseguitisi negli anni a venire, tra depistaggi, errori e omissioni investigative, dichiarazioni di pentiti, fino all’epilogo, consumatosi tra il marzo del 2001 e l’aprile del 2002, con le condanne definitive per i mandanti dell’omicidio: trent’anni all’esponente della cosca di Cinisi, Vito Palazzolo, e l’ergastolo per Gaetano Badalamenti, quel «Tano seduto, viso pallido esperto in lupara e traffico di eroina» che Peppino sberleffò più volte nei suoi interventi alla radio.
Un fuoco chiamato Peppino
Peppino Impastato, assassinato il 9 maggio 1978, come Roberto Mancini, Rita Atria, Ilaria Alpi e tantissimi altri e altre, non è rimasto mai alla finestra. La commemorazione che non è accompagnata dalla stessa determinazione del gridare contro tutte le mafie e nel costruire ogni giorno un mondo diverso è solo un mantello di ipocrita complicità. Smettiamola con l’antimafia da parata, l’antimafia da salotto, l’antimafia vuota e retorica. Peppino Impastato non è un laico santino per un giorno ma è un fuoco che ci deve ardere dentro
di Alessio Di Florio (Comune-info, 7 maggio 2016)
“È successa la stessa cosa con Falcone e Borsellino, le persone che hanno lavorato per questo Paese sono riconosciute dopo la morte”. Questa le amare parole di Monica Dobrowolska, la vedova di Roberto Mancini, nell’intervista a Il Fatto Quotidiano Tv del 28 febbraio di quest’anno, mentre ribadiva che l’unico vero rispetto alla memoria del marito è sconfiggere le ecocamorre e “salvare” la Terra dei Fuochi. Un’intervista dura e intensa che ricorda le parole del fratello di Paolo Borsellino, Salvatore, ormai nove anni fa. “È ora di smettere di piangere per Paolo, è ora di finirla con le commemorazioni, fatte spesso da chi ha contribuito a farlo morire, è l’ora invece di dimenticare le lacrime, è l’ora di lottare per Paolo, lottare fino alla fine delle nostre forze, fino a che Paolo e i suoi ragazzi non saranno vendicati e gridare, gridare, gridare finché avremo voce per pretendere la verità, costringere a ricordare chi non ricorda”.
Ogni ricordo, ogni commemorazione, ogni anniversario, lo si è scritto tante volte in questi anni, nasconde la più insidiosa delle trappole: la retorica vuota e buona solo per sfilate e cerimonie piene di belle parole e la creazione di laici santini. E poi tornare alla vita di sempre. Ma Peppino Impastato, Roberto Mancini, Rita Atria e tanti altri non sono vissuti per alimentare annuali prefiche. Hanno pagato l’altissimo prezzo di un fuoco ardente dentro, di una tensione etica, politica, civile fortissima. Hanno aperto gli occhi sul mondo che li circondava, non si sono accontentati di lamentarsi ma hanno speso le loro esistenze per lasciarlo migliore di come l’avevano trovato.
Monica Dobrowolska fu intervistata in occasione dell’uscita del libro “Io morto per dovere”, sulla storia di Roberto e il suo impegno per la “Terra dei Fuochi”, insieme all’autore Nello Trocchia. Nello è un cronista che da anni segue e insegue fatti, crimini, documenta, denuncia. È un giornalista con la schiena dritta e che mai è rimasto in silenzio per convenienza o connivenza. E il suo omaggio, col libro scritto insieme a Luca Ferrari, è tappa di questo percorso d’impegno, si ricollega con un fortissimo filo rosso a tutto quanto ha realizzato in questi anni. Infatti il libro non descrive un santino, non fa un’agiografia strappalacrime. Riporta trame, nomi, cognomi, circostanze. Chiede giustizia per chi ha denunciato anni e anni prima quel che accadeva nella “Terra dei Fuochi”, per quel silenzio e quelle denunce rimaste inevase.
Il sistema che ha impedito a Roberto Mancini di salvare la “terra dei fuochi” e di combattere le eco camorre è lo stesso nel quale s’imbatterono Ilaria Alpi, Mauro Rostagno e tantissimi altri. E non rimasero in silenzio, si ribellarono, denunciarono, si posero contro le trame di mafiosi, imprenditori senza scrupoli, politici collusi e conniventi, massoneria più o meno deviata (si rilegga a questo proposito quanto riportato nella relazione finale della “Commissione Parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia e delle altre associazioni criminali similari” del 1994). Quel sistema è ancora in piedi, vive e prolifera nei silenzi, nelle complicità, nelle finestre affollate mentre la coscienza chiama. In Campania, in Sicilia, nel Lazio e altrove. Anche nell’Abruzzo da dove sto scrivendo. Dove ci sono piccole e grandi “terre dei fuochi” conosciute o sconosciute, dove la camorra è arrivata a stoccare i suoi rifiuti, tra Abruzzo e Molise, nelle cave dell’interno e in altri posti. Ma molti girano la testa dall’altra parte, fanno finta di non sapere.
Le commemorazioni degli occhi chiusi e delle bocche cucite sono le commemorazioni delle tre scimmiette, sono inutili, offensive, sono ipocrite complicità. Lamentarsi che è tutto uno schifo, che siamo circondati da un mondo marcio e rimanere inerti è accettarlo. Un’accettazione che diventa reale ogni volta che si sceglie la prevaricazione, la raccomandazione, la clientela, la legge del più forte, che si piega la testa di fronte al “padrone” feudale. Si chiama complicità, è il brodo di coltura della mafiosità, del marcio che Peppino Impastato, Roberto Mancini, Rita Atria hanno ripudiato e combattuto. Le mafie non sono organizzazioni isolate che violano banalmente e soltanto una formale legalità. Perché, lo si è già accennato poc’anzi, si può essere mafiosi senza violare un solo articolo di legge. E le mafie sono immerse e si alimento in ben precisi contesti sociali, politici, culturali.
Rita Atria si ribellò alla sua famiglia, ai suoi codici, all’omertà e alla complicità ai boss. Un medioevo familista e borghese, ipocrita e perbenista. Peppino Impastato non fu un “bel giovine” scapestrato. Peppino era marxista, si era reso conto che la mafia e le classi dominanti sono un blocco unico, espressione del padrone oppressore, apriva gli occhi quotidianamente e documentava, denunciava, ricostruiva. Non era antico quel mondo che Peppino ripudiò e denunciò, era mafioso, omertoso, connivente, servo. E lui capì che le uniche catene dell’oppressione che non si spezzano sono quelle che si accettano. E lo spezzare di quelle catene, di quel sistema borghese e oppressivo, di quella cultura ipocrita e servile continua. È un altro inganno sempre dietro l’angolo: guardare al passato, pensare che tutto sia finito in anni ormai lontani. Non è così. Perché le trame continuano, prosperano, infettano. Per dirla con Pippo Fava, ancora “i mafiosi stanno in Parlamento, i mafiosi a volte sono ministri, i mafiosi sono banchieri, i mafiosi sono quelli che in questo momento sono ai vertici della nazione”. E c’è chi documenta, denuncia, si ribella.
Commemorare chi non c’è più e dimenticarsi dei vivi è “rimanere alla finestra” ed è già, parafrasando Pavese, essere mafioso. Esiste l’antimafia da parata, l’antimafia da salotto, l’antimafia vuota e retorica, l’antimafia di chi in realtà si amalgama (per dirla con le parole di Roberto Mancini) al sistema. E c’è chi quotidianamente rifiuta favori e clientele feudali, chi ripudia il sistema marcio e lo documenta, denuncia, facendo nomi, cognomi, atti, trame. Senza fare sconti e pagando prezzi altissimi, senza mai farsi comprare.
L’elenco potrebbe essere lunghissimo. Così come potrebbe essere lunghissimo l’elenco delle trame, delle connivenze, dell’oppressione mafiosa e criminale. Chi veramente vuol realizzare commemor-azione, chi vuol aprire gli occhi nomi, cognomi, atti e fatti li conosce e li trova facilmente. Per gli altri c’è poco, anzi nulla, da fare. Non ne ho fatti di nomi in quest’articolo (a partire da chi fu denunciato da Rita, ed ha complicità in altissimo, da chi tentò di “silenziare” le inchieste di Ilaria Alpi e Roberto Mancini, di chi per decenni depistò le indagini sulla morte di Peppino e così via, da chi quotidianamente è puparo o pupazzo di sistemi intrisi di mafiosità) per questo.
Chi non vuol vedere non vede. Chi sente il peso della propria schiena troppo esagerato per alzarsi, chi non si vuol muovere ed è addirittura infastidito da chi lo fa, non si smuove. Sono i complici più ipocriti e servili del Sistema, del padrone e del feudatario. E sono falsi. Perché non vogliono ammettere la realtà. Che la mafia la vogliono non perché ne hanno paura ma perché la loro sopravvivenza è all’insegna del fascistissimo “me ne frego”, perché è comodo girarsi dall’altra parte, perché una raccomandazione, una “leccata”, un prostarsi può sempre essere utile. Perché è tanto, troppo facile puntare il dito giudicando chi lotta perché “tanto si è tutto uguali” (ma chi paga il prezzo della coscienza e chi si fa pagare quello del “materasso di piume” non saranno mai uguali!), credere che Peppino Impastato era un terrorista, che Pippo Fava e don Peppe Diana andavano per “fimmine”, che Ilaria Alpi fu vittima di una rapina, che nulla potrà mai cambiare, che chi rifiuta la raccomandazione è uno che non vuol lavorare, che la difesa del territorio è un inutile e dannoso fastidio burocratico.
Ma Peppino Impastato, Pippo Fava, Rita Atria, Roberto Mancini sono molto più vivi di lor signori, perche è ancora possibile lottare, non arrendersi, impegnarsi perché - come scrisse Rita Atria - “se ognuno di noi prova a cambiare forse ce la faremo”. Perché Peppino Impastato non è un laico santino per un giorno ma è un fuoco che ci deve ardere dentro, imponendoci di non rassegnarci, di non essere complici, di mettere a nudo ogni mafia e mafiosetta piccola o grande che sia. Un fuoco che dobbiamo far ardere anche per chi non sa neanche che esiste, per chi lo ha spento. E se a qualcuno darà fastidio, se qualche borghese in poltrona e alla finestra sarà infastidito, se i moralisti a basso prezzo ci sentono come minaccia e li turbiamo, è una soddisfazione in più.
Peppino sarebbe contento di sapere che alla favola del suicidio di Tenco non crede piu’ nessuno.
Cordialmente Luigi Tenco 60’s
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Tutti i morti ammazzati di quel 9 maggio ’78 *
...quanti morti, quel 9 maggio del ’78... non solo Aldo Moro, di cui ieri, colpevolmente, abbiamo scritto solo un breve epitaffio, ma anche Peppino Impastato, il giovane idealista ammazzato dalla mafia perchè blaterava troppo. Ieri quasi TUTTI ci siamo scordati di lui. Colpevolmente, perchè la nostra attenzione era concentrata tutta, o quasi, sulla lettera ad Augias di un “Uomo Qualunque”. Ci scusiamo con la famiglia Impastato, e cerchiamo, sia pur tardivamente, di emendarci.
Giuseppe Impastato nasce a Cinisi, in provincia di Palermo, il 5 gennaio 1948, da una famiglia mafiosa (il padre Luigi era stato inviato al confino durante il periodo fascista, lo zio e altri parenti erano mafiosi e il cognato del padre era il capomafia Cesare Manzella, ucciso con una Giulietta al tritolo nel 1963).
Ancora ragazzo rompe con il padre, che lo caccia via di casa, e avvia un’attività politico-culturale antimafiosa. Nel 1965 fonda il giornalino L’Idea Socialista e aderisce al PSIUP. Dal 1968 in poi partecipa, con ruolo dirigente, alle attività dei gruppi di Nuova Sinistra. Conduce le lotte dei contadini espropriati per la costruzione della terza pista dell’aeroporto di Palermo, in territorio di Cinisi, degli edili e dei disoccupati.
Nel 1975 costituisce il gruppo Musica e Cultura; nel 1976 fonda Radio Aut, radio libera autofinanziata, con cui denuncia i delitti e gli affari dei mafiosi di Cinisi e Terrasini, e in primo luogo del capomafia Gaetano Badalamenti, che avevano un ruolo di primo piano nei traffici internazionali di droga, attraverso il controllo dell’aeroporto. Il programma più seguito era Onda pazza, trasmissione satirica con cui sbeffeggiava mafiosi e politici.
Nel 1978 si candida nella lista di Democrazia Proletaria alle elezioni comunali. Viene assassinato nella notte tra l’8 e il 9 maggio del 1978, nel corso della campagna elettorale, con una carica di tritolo posta sotto il corpo adagiato sui binari della ferrovia. Gli elettori di Cinisi votano il suo nome, riuscendo ad eleggerlo al Consiglio comunale.
Stampa, forze dell’ordine e magistratura parlano di atto terroristico di cui l’attentatore sarebbe rimasto vittima e, dopo la scoperta di una lettera scritta molti mesi prima, di suicidio.
Grazie all’attività del fratello Giovanni e della madre Felicia Bartolotta Impastato, che rompono pubblicamente con la parentela mafiosa, dei compagni di militanza e del Centro siciliano di documentazione di Palermo, nato nel 1977 e che nel 1980 si sarebbe intitolato proprio a Giuseppe Impastato, viene individuata la matrice mafiosa del delitto e sulla base della documentazione raccolta e delle denunce presentate viene riaperta l’inchiesta giudiziaria.
Nel maggio del 1984 l’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo, sulla base delle indicazioni del Consigliere Istruttore Rocco Chinnici, che aveva avviato il lavoro del primo pool antimafia ed era stato assassinato nel luglio del 1983, emette una sentenza, firmata dal Consigliere Istruttore Antonino Caponnetto, in cui si riconosce la matrice mafiosa del delitto, attribuito però ad ignoti. Il Centro Impastato pubblica nel 1986 la storia di vita della madre di Giuseppe Impastato, nel volume La mafia in casa mia, e il dossier Notissimi ignoti, indicando come mandante del delitto il boss Gaetano Badalamenti, nel frattempo condannato a 45 anni di reclusione per traffico di droga dalla Corte di New York, nel processo alla Pizza Connection.
Nel gennaio 1988, il Tribunale di Palermo invia una comunicazione giudiziaria a Badalamenti. Nel maggio del 1992 il Tribunale di Palermo decide l’archiviazione del caso Impastato, ribadendo la matrice mafiosa del delitto, ma escludendo la possibilità di individuare i colpevoli e ipotizzando la possibile responsabilità dei mafiosi di Cinisi alleati dei corleonesi.
Nel maggio del 1994 il Centro Impastato presenta un’istanza per la riapertura dell’inchiesta, accompagnata da una petizione popolare, chiedendo che venga interrogato sul delitto Impastato il nuovo collaboratore della giustizia Salvatore Palazzolo, affiliato alla mafia di Cinisi. Nel marzo del 1996 la madre, il fratello e il Centro Impastato presentano un esposto in cui chiedono di indagare su episodi non chiariti, riguardanti in particolare il comportamento dei carabinieri subito dopo il delitto.
Nel giugno del 1996, in seguito alle dichiarazioni di Palazzolo, che indica in Badalamenti il mandante dell’omicidio assieme al suo vice Vito Palazzolo, l’inchiesta viene formalmente riaperta. Nel novembre del 1997 viene emesso un ordine di cattura per Badalamenti, incriminato come mandante del delitto. Il 10 marzo 1999 si svolge l’udienza preliminare del processo contro Vito Palazzolo, mentre la posizione di Badalamenti viene stralciata.
Nell’udienza del 26 gennaio 2000 la difesa di Vito Palazzolo chiede che si proceda con il rito abbreviato, mentre il processo contro Gaetano Badalamenti si svolgerà con il rito normale e in video-conferenza. Il 4 maggio, nel procedimento contro Palazzolo, e il 21 settembre, nel processo contro Badalamenti, vengono respinte le richieste di costituzione di parte civile del Centro Impastato, di Rifondazione comunista e dell’Ordine dei giornalisti.
Nel 1998 presso la Commissione parlamentare antimafia si è costituito un Comitato sul caso Impastato e il 6 dicembre 2000 è stata approvata una relazione sulle responsabilità di rappresentanti delle istituzioni nel depistaggio delle indagini. Il 5 marzo 2001 la Corte d’assise ha riconosciuto Vito Palazzolo colpevole e lo ha condannato a 30 anni di reclusione. L’11 aprile 2002 Gaetano Badalamenti è stato condannato all’ergastolo.
Per onorare la vita di Peppino ha fatto di più Marco Tullio Giordana, col suo film “I cento passi”, di quanto non abbiano fatto le istituzioni. Il film è una ricostruzione abbastanza libera dell’attività di Peppino; i "cento passi" erano quelli che metaforicamente separavano casa sua da quella del boss Tano Badalamenti, mandante dell’assassinio.
Il materiale fotografico e bibliografico è tratto ed elaborato da Wikipedia e dal sito dedicato a Giuseppe Impastato. Alle elezioni politiche del ’94, in un collegio di Palermo, la sinistra candida Antonino Caponnetto, Forza Italia candida Gianfranco Micciché. Vince Gianfranco Micciché.
* Il Tafanus 2007-05-10
IN PELLEGRINAGGIO SUI LUOGHI DEI «CENTO PASSI»
Saviano, la memoria per battere le mafie
Lo scrittore simbolo della resistenza alla camorra sulla tomba di Impastato, ucciso da Cosa nostra
di FRANCESCO LA LICATA (La Stampa, 27/8/2009) *
CINISI (Palermo). Immobile, in piedi davanti alle tombe di Peppino Impastato e della sua straordinaria madre, Felicia, Roberto Saviano guarda fisso la foto del «militante comunista» ucciso dalla mafia (per la verità le parole esatte scolpite sul marmo recitano: «mafia democristiana»). Guarda anche il sorriso di Felicia Bartolotta, morta a 88 anni, gran parte dei quali spesi a cercare la condanna per don Tano Badalamenti, il boss dei Centi passi. Tanta era la distanza che separava le abitazioni dei due grandi nemici: Peppino, appunto, e don Tano.
Sembra davvero conquistato, lo scrittore. Posa lo sguardo sui bigliettini lasciati dalle centinaia di giovani che ancora oggi, a più di trent’anni dall’assassinio, vengono a Cinisi e, prima di qualunque divagazione turistica, si fermano al cimitero per lasciare un pensiero dedicato al ragazzo che rifiutò, fino al sacrificio finale, la cultura mafiosa del padre. Avversato dall’intero paese, ma non dalla sua «madre coraggio» che lo protesse finché potè e, quando glielo strapparono con una bomba, non finì di battersi a fronte alta. Fino a quando, quattro anni fa, chiuse gli occhi appagata per aver sentito la Corte d’Assise pronunciare la formula di condanna per Badalamenti.
Si guarda intorno, Roberto Saviano. Nota che il cancelletto della «gentilizia» di famiglia è senza lucchetto e si rivolge a Giovanni, fratello di Peppino: «Sta sempre aperto, questo luogo?». «Sempre», è la risposta di Giovanni, «come “Casa Memoria” in paese, la casa dei Cento passi che Felicia ha voluto fosse trasformata in un luogo aperto a tutti. In una difesa perpetua del ricordo di Peppino, che avevano cercato di far passare per terrorista uccidendolo con una bomba». E Saviano: «È un messaggio importantissimo, perché oltre all’esercizio della memoria - che la mafia, tutte le mafie vorrebbero cancellare - si trasmette il senso del coraggio della verità. Chi combatte per una causa giusta può guardare dritto negli occhi gli avversari, non ha bisogno di celarsi dietro lucchetti e chiavistelli; sono loro, i mafiosi, a cercare il buio e il silenzio omertoso. E questo vale per la Sicilia come per la Campania e per tutto il nostro martoriato Sud».
È una presenza significativa, quella di Saviano a Cinisi. Lo scrittore che con il suo bestseller Gomorra è divenuto il simbolo della resistenza alla camorra campana ha accettato di venire a presentare il libro scritto da Giovanni Impastato con Franco Vassia (Resistere a Mafiopoli, ed. Stampa Alternativa). Ha accettato l’invito anche il Procuratore nazionale antimafia, Piero Grasso, felicissimo di contribuire a quella difesa della memoria, ormai patrimonio collettivo della resistenza alla mafia.
Sulla tutela dell’«onore» dei caduti nella lotta alle mafie Saviano non si è risparmiato. Lo ha fatto di recente, insorgendo in difesa della onorabilità di don Peppe Diana, che l’avv. Gaetano Pecorella - parlamentare presidente della commissione Ecomafie - stentava a riconoscere come vittima della camorra. «Quella della diffamazione delle vittime - chiarisce Saviano - è una delle peggiori ingiustizie che si possano subire. Più ancora della privazione della vita. La distruzione del ricordo di un uomo onesto serve a giustificare l’omicidio, a convincere i cittadini-spettatori che la mafia uccide solo “chi se lo merita”. È un messaggio culturalmente devastante, un metodo che ha contribuito al radicamento del vivere mafioso in gran parte del Sud Italia».
Si accalora, Saviano, quando tocca questi temi. Tanto da suscitare il sospetto di un coinvolgimento personale. Ancora la vicenda Pecorella? «Non ci penso più: le scuse fatte pervenire ai familiari di don Peppe mi rasserenano sul fatto che quella polemica andava sollevata, soprattutto in difesa di una “verità” che non è vero fosse ancora aperta, come sosteneva il parlamentare, ma era già codificata in più d’una sentenza».
Lo scrittore si concede una pausa, poi riprende: «No, non difendo una mia personale presa di posizione, sento semmai l’esigenza di non indietreggiare di fronte all’aggressione e al furto della memoria. Bisogna far sentire la propria presenza, devono sapere che noi ci siamo e restiamo vigili ad arginare i “venticelli” di una certa Italia e i giochi sporchi di politici, sedicenti cronisti e pseudo opinione pubblica, tutti pronti alla facile calunnia». E perché oggi a Cinisi? «Ho letto il libro di Giovanni, ho conosciuto la tenacia di Felicia: un esempio di dignità e di difesa dell’onore dei propri caduti. Sì, proprio onore: una parola che appartiene alla gente perbene e che, invece, è stata scippata e stravolta da questi maestri dell’inganno».
«Anche stamattina - prosegue - a Casa Memoria ho respirato l’aria buona di chi non si è arreso: i libri di Peppino, i testi di Pasolini, le foto, l’amore e il garbo con cui questi brandelli di memoria vengono conservati... Sono contento di essere stato qui». Ma non è che Saviano abbia già sentito attorno a sé lo spiffero di qualche “venticello”? «Non mancano le accuse di protagonismo, a Napoli mi gridano contro “ti sei fatto i soldi”, oppure “la scorta te la paghiamo noi, sai?”, o anche “perché non vai in tv a infangarci ancora?”». Ancora ironia sulla sovraesposizione mediatica. Ma a rasserenare Saviano ci pensa Giovanni Impastato: «Robbè, futtitinni che ti dicono che sei mediatico. Vai in tv, tieni alta la luce su di te».
Confesso, ero tentato di bloccare il film su mia madre.
Dopo lo sconcertante intervento di Riina junior a Porta a porta, complice Rai 1, pubblichiamo la lettera di Giovanni Impastato.
di redazione (100 Passi Journal, 11.04.2016)
Caro direttore generale della Rai, come lei certamente sa, mio fratello, Peppino Impastato, è stato barbaramente ucciso dalla mafia il 9 Maggio 1978. Dopo il film I Cento Passi di Marco Tullio Giordana, due anni fa sono stato coinvolto da Matteo Levi della casa di produzione “11 Marzo Film” nel progetto di una pellicola che avrebbe dovuto raccontare il coraggio di mia madre, Felicia Bartolotta che, con fierezza e tenacia, si è battuta contro tutto e tutti per ottenere verità e giustizia.
Il film dedicato a mia madre è stato realizzato ed è stato prodotto da una delle reti che stanno sotto la sua direzione, Rai 1, la stessa che nella trasmissione “Porta a Porta” ha messo in onda l’intervista del figlio di Totò Riina. Questo figlio che, a differenza di Peppino, di mia madre e di tutta la nostra famiglia, non rinnega un padre mafioso, anzi lo difende e nega ogni condanna pronunciata contro di lui.
Tutti conoscono, compreso lei, la storia del criminale al quale sono imputabili diverse stragi e le uccisioni di molti padri e figli innocenti. Ritengo inconcepibile che sia stata permesso di dare spazio a questa persona senza pensare alle conseguenze di un messaggio negativo e diseducativo soprattutto nei confronti delle nuove generazioni. Una messa in onda lontana anni luce dal “dovere di cronaca” e che può ricondursi piuttosto a un’operazione di basso livello editoriale per l’uscita di un libro che non merita di essere promosso e tanto meno dalla nostra tv pubblica.
Non penso - come sostiene Bruno Vespa - che sia questo il modo di conoscere o studiare il fenomeno. Ma è piuttosto un modo per far crescere l’audience al costo di calpestare la dignità di molte persone - come noi - che hanno pagato un prezzo altissimo con il sacrificio dei propri cari. Non si può giocare con il sangue delle nostre vittime cercando forzatamente lo scoop e destando la curiosità del pubblico con operazioni di cattivo gusto fino a mitizzare il mafioso.
Le confesso di essere molto in difficoltà, dopo quello che è successo, nell’accogliere con entusiasmo il film su mia madre, pur rispettando il lavoro e il valore del regista Gianfranco Albano, degli sceneggiatori Monica Zappelli e Diego De Silvia e di una straordinaria interprete come Lunetta Savino. E le confesso anche che tanto è stato il mio sconcerto in queste ore che ho pensato a una diffida alla sua azienda di trasmettere il film. Ma non permettere al pubblico di conoscere la storia di mia madre sarebbe come darla vinta a un’informazione malata di protagonismo che, pur di affermarsi, è pronta anche a calpestare il dolore dei parenti di tante vittime innocenti.
Le storie di mia madre, di Peppino, di tutti noi e di tanti altri, compresi quei figli delle mafie, che hanno fatto la scelta coraggiosa di rinnegare i loro stessi padri (una fra tutte Rita Atria), meritano di essere raccontate. Siamo noi la linfa di questo paese e, finché vivremo, lotteremo per sconfiggere il potere mafioso, a dispetto di questi indegni spettacoli che i media ci offrono.