Editoriale

Antimafia: Calabria, utopia di Gioacchino da Fiore, Genchi, De Magistris, Stato di polizia, fuga dei cervelli, Paolo Borsellino, movimento culturale

domenica 24 ottobre 2010.
 

Basta partire dall’Italia, anche per pochi giorni, per stimare con raffronti il nostro grado di libertà, civiltà e democrazia.

Io credo che ognuno di noi, in un modo o nell’altro, si sia abituato alla quotidianità nazionale; fatta di polizia, controlli, squilibrio tra i poteri dello Stato, terrore, speculazioni e propaganda.

Penso che pure nell’antimafia civile esista la convinzione che il Belpaese sia bello e comodo, tutto sommato, colmando delle lacune. Se così non fosse, non mi spiegherei il perché di frequenti "scaramucce tra poveri". Mi riferisco, nello specifico, a inopportune divergenze interne, spesso cariche di partecipazione emotiva. Fabrizio De Andrè diceva che "si accontenta di cause leggere la guerra del cuore".

Ritengo che una piena coscienza della situazione italiana sfugga alla maggioranza della società, a partire dal sottoscritto. Soprattutto, non abbiamo cognizione delle cause del degrado generale né delle soluzioni possibili.

Proprio in seno ai "nostri" movimenti, s’è diffusa l’idea che la politica sia un affare sporco e che farla, piuttosto che subirla, significhi aderire a una lobby di imbrogli, illegalità, sopraffazioni e malaffare.

In questi giorni, ho letto vari commenti sulla candidatura al parlamento europeo dell’ex pm di Catanzaro Luigi De Magistris. Qualcuno (di noi) c’è rimasto male per non aver ricevuto la notizia dal magistrato, tramite telefonata o breve messaggio di testo. Per questo, ha sentito il bisogno di esternare il suo disappunto alla stampa e in rete. Altri (fra di noi) hanno interpretato la scelta di De Magistris come "segnale preoccupante".

Io non mi pronuncerò, persuaso che la decisione di De Magistris vada rispettata e che nel suo contesto non si possa considerare un atto eticamente riprovevole o contraddittorio.

Chiedo, piuttosto, se il problema italiano sia la candidatura di Luigi De Magistris o di chi, come Sonia Alfano, ha manifestato dissenso in tante occasioni, aspirando civilmente a una giustizia terrena.

Da anni, "la Voce di Fiore" divulga, tentando di attualizzarlo, il messaggio di speranza dell’esegeta Gioacchino da Fiore, "di spirito profetico dotato" nel Paradiso di Dante Alighieri. L’abate riteneva che la giustizia si vedesse qui, dopo l’"Età del Figlio"; così divergendo dallo schema tipico del cattolicesimo, neoplatonico, per cui premio o condanna individuale avvengono nell’altro mondo.

A proposito di profetismo, prima di noi, e con eccezionale autorevolezza, don Peppe Diana scriveva, rivolgendosi alla Chiesa: "Che non rinunci al suo ruolo ’profetico’ affinché gli strumenti della denuncia e dell’annuncio si concretizzino nella capacità di produrre nuova coscienza nel segno della giustizia, della solidarietà, dei valori etici e civili".

Probabilmente, il nostro riferimento all’asceta calabrese, che non ha significato e senso solo per la Calabria, è stato sbrigativamente bollato come esercizio filosofico; quasi il frutto d’un intellettualismo fine a se stesso, lontano dalla realtà e dalla dilagante corruzione italiana. Parallelamente, giornalisti seri e impegnati hanno insistito a lungo sul valore risolutivo delle manette, delle carceri, delle pene; riprendendo argomenti e linguaggio d’una parte politica che scommette in largo sul valore taumaturgico della repressione.

Pur riconoscendo l’importanza del lavoro svolto da questi colleghi, io non credo che l’Italia tornerà ad essere una Repubblica democratica, fondata anzitutto sul lavoro, col mero inasprimento delle sanzioni. Ciò non è sufficiente. Addirittura, per molti versi peggiora le cose. In proposito, davvero si dovrebbero ricuperare le lezioni di politica penale del compianto Federico Stella, che faceva riflettere i suoi studenti sulla concezione utilitaristica della pena (Cesare Beccaria).

L’Italia è già uno Stato di polizia. Lo dimostrano chiaramente le traversie di Gioacchino Genchi, Luigi De Magistris e colleghi, le migliaia di telecamere in varie città italiane, la moltiplicazione dei militari, la presenza di vigilanti armati nelle metropolitane e i divieti di vivere gli spazi urbani con musica e poesia. A questo possiamo aggiungere i limiti alla libertà di informazione, l’uso dissuasivo delle querele e, a sostegno dell’isolamento del Palazzo, i meccanismi di voto, la compressione delle intercettazioni telefoniche e altro.

Chiaramente, in ogni Stato di polizia che si rispetti, i cittadini devono essere ridotti all’osso; devono portarsi dietro, a vita, debiti personali e pubblici. Mentre le banche, che si giovano di sovvenzioni prodotte dalle nostre fatiche, continuano a dissanguarci in piena regola o, in tanti casi, fuori della legge, muto lo Stato.

Io sono certo, pronto a ricredermi se sbaglio, che un simile ordine delle cose non è soltanto il frutto dell’azione di poteri più o meno occulti, di una politica affaristica quanto padrona. E sono certo che dobbiamo farci un’idea diversa sulla criminalità organizzata. Spesso tendiamo a identificarla con un gruppo di soggetti spietati, feroci e privi di scrupoli, capaci di spostare tonnellate di tritolo e importare od esportare armi devastanti; capaci di penetrare nelle istituzioni e modificare scelte finanziarie o di intervento pubblico.

L’affermazione della criminalità, intesa in senso classico o alla luce delle verità che emergono, per esempio, da Palermo e Catanzaro, ha molto a che fare con la perdita individuale e collettiva di identità e dignità. Ha da vedere, in sintesi, con la rivoluzione culturale, sospinta dai media, per la quale i giovani sono diventati consumatori di polvere - in tutti i sensi. Ha da vedere, in sostanza, con la creazione di nuovi modelli culturali e antropologici, nell’Italia di Dante Alighieri, Leonardo da Vinci, Michelangelo Buonarroti, Antonio Vivaldi, Enrico Fermi, Luigi Pirandello, Carlo Rubbia, Rita Levi Montalcini, Dario Fo, Tommaso Campanella e Gioacchino da Fiore.

Questo elenco è puramente rappresentativo: potrebbe essere interminabile. L’Italia, crocevia di popoli e fucina d’arte, cultura e civiltà, s’è trasformata in una caricatura perpetua, nella fabbrica dell’omologazione, nel laboratorio televisivo dei "nuovi mostri", nella chiesa che loda l’idiozia, l’arroganza, la violenza, la sopraffazione, la volgarità, l’indecenza, la spavalderia, l’illegalità, l’assenza di contenuti. La religione nazionale si sostanzia nell’idolatria del brutto, della stoltezza, della deficienza, della frode e della ripetitività. Il genio italiano è stato annientato: prosegue, a ritmo incessante, la fuga di cervelli e talenti. Emigrazione necessaria, di cui la Calabria è assieme emblema e paradigma.

Occorre riflettere sulla memoria e sul valore della nostra cultura, che è nella storia, nelle opere, nel pensiero. A mio modesto parere, riprendere l’attualità delle grandi testimonianze e utopie maturate in Italia è fondamentale.

Se ci impegniamo in questo senso, possiamo determinare una politica che restituisca l’Italia agli italiani, ristabilendo certe priorità, lavoro, Questione meridionale e lotta alle mafie, sostituite da un’ambigua tutela della sicurezza pubblica e da un federalismo nebuloso, funzionale al dominio definitivo del Mezzogiorno.

Se vogliamo essere efficaci nell’antimafia, invece che lasciarci sedurre dal circo mediatico e rimproverarci all’interno, dobbiamo intendere, legati a Paolo Borsellino, l’importanza di quel "movimento culturale che abitui tutti a sentire la bellezza del fresco profumo della libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità".

Emiliano Morrone e Carmine Gazzanni


Rispondere all'articolo

Forum