Dannata emigrazione. E’ uno dei più grandi drammi della mia terra, forse il più grande. La Calabria sanguina da secoli, e non solo sotto i colpi della ‘ndrangheta. L’emigrazione è come un’emorragia continua, e la Calabria non riesce ancora a sviluppare le piastrine per coaugularla.
Certo, i motivi per i quali ce ne andiamo sono tanti: la fame, lo studio, la paura, il potere. Il potere, appunto, forse il più perverso fine che “giustifica” questo infinito esodo. E gli elementi ritenuti quasi essenziali per accumulare potere sono mutuati in tutto e per tutto dalla ‘ndrangheta.
Si, perché noi calabresi, li conosciamo bene i nostri punti di forza; quei mezzucci di prevaricazione sociale vile e sciatta che ci portano ad essere forti con i deboli e deboli con i forti. La sincerità è un optional, la lealtà una romantica utopia. Il calabrese è geneticamente predisposto all’affabilità, alla piaggeria, all’irriverenza. Basti pensare che dalle mie parti è consuetudine scegliere compari e commari, padrini e madrine ancor prima del concepimento dei nascituri. I destini di tutti sono segnati, come nelle migliori leggende epiche. Nel bene e nel male.
Non sbaglia chi dice che i calabresi oggi siano la più grande colonia su Roma. Siamo dappertutto: in Rai, negli uffici ministeriali e pubblici in genere, nelle circoscrizioni comunali, negli ospedali, nelle associazioni, nelle scuole, sparpagliati nelle università. L’esercito calabrese conta oggi nella Capitale più di cinquecentomila persone, praticamente il 10% della popolazione totale. Il primo partito di Roma.
E nell’esercito dei calabresi a Roma ci sono anche due amici: Benito e Giuseppe. Coetanei, studenti fuori sede e colleghi d’università a Tor Vergata. Benito, che di cognome fa Di Giorgio, porta con sé una pesante eredità: suo padre, stimato medico di Rizziconi, risulterebbe essere stato assessore comunale quando, nel 2000, il consiglio comunale fu sciolto per mafia. Vicesindaco, al tempo, era Pasquale Inzitari, arrestato con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa su richiesta della DDA di Reggio Calabria nel maggio del 2008.
Ma a Rizziconi i voti del dottore/assessore fanno gola a molti e, dopo qualche anno di pit-stop, si decide l’ingresso in politica del rampollo di casa: Benito pensa bene di legarsi a Giuseppe, che è figlio di un noto politico calabrese, e grazie a lui comincia a frequentare ambienti romani del partito di Marini e Rutelli. In Calabria, invece, nella sua Rizziconi, a maggio del 2007 Benito é eletto trionfalmente in consiglio comunale nelle fila di una lista civica di centrodestra. Gli oltre 400 voti che la famiglia Di Giorgio porta in dote gli garantiscono anche un posto da assessore.
Di Giorgio junior è l’antitesi del giovane politico: è un personaggio degno del miglior Camilleri, parla un dialetto strettissimo, certamente meno stretto della cintura, visto che - almeno quando lo conobbi qualche anno addietro (fu lo stesso Giuseppe a presentarmelo) - è ben piazzato, in carne e scoppia di salute. Infatti oggi nel suo paese fa l’assessore allo sport. Mi pare più che giusto. Ma, fin qui, la storia sembra una delle tante storie di Calabria; invece, purtroppo, c’è dell’altro.
Non abbiamo ancora parlato di Giuseppe. E non vi nascondo di provare un discreto imbarazzo in questo momento, perché non riesco a spiegarmi come alcune situazioni possano essere talmente impossibili da farti venir voglia di gridare e piangere come un bambino.
Giuseppe di cognome fa Fortugno, e porta con sé un tragico trascorso familiare, che ha segnato irrimediabilmente la sua vita e la storia di tutta la Calabria: nel 2005 la ‘ndrangheta, a Locri, ammazzò suo padre, Franco Fortugno. E dov’è l’imbarazzo? In fondo ognuno di noi ha amicizie border-line. Giuseppe conosce Benito e Benito conosce Giuseppe. E allora? Mica escono ogni giorno assieme, si vogliono bene e si sono promessi amicizia fraterna ed eterna? L’imbarazzo e l’incredulità stanno nel fatto che oggi, alla data in cui scrivo, Benito Di Giorgio, assessore comunale, figlio di altro assessore allorquando il comune che oggi amministra fu sciolto per mafia, è sostenuto e sponsorizzato fortemente da Giuseppe Fortugno alle imminenti elezioni per il rinnovo del Consiglio di Amministrazione dell’Università di Tor Vergata di Roma. Non avrà difficoltà ad essere eletto, considerate l’importante sponsorship ed i voti che portano in dote entrambi.
Avete mai provato a chiedere ai romani cosa pensano dei calabresi? Ci odiano. Dicono che siamo una una tribù, una cosca, un ghetto, che abbiamo “occupato” Piazza Bologna e la via Tiburtina. Un giorno, mentre vagavo per l’università in cerca di un’aula libera dove studiare, lessi: “Più sedie meno calabresi”. Era scritto a caratteri cubitali (ed in stile fascista) in un corridoio della Facoltà di Economia. Quel giorno ho pianto: persino i fortissimi e maschissimi fascisti hanno paura di dirci in faccia quello che pensano di noi.
Sia chiaro, non conosco il padre di Benito Di Giorgio, ed a malapena conosco di vista lui. Non mi risulta che Di Giorgio sia stato indagato o che sia stato direttamente coinvolto nei fatti che hanno portato allo scioglimento dell’ente da lui amministrato. Certamente è un medico molto apprezzato e stimato a Rizziconi, e la gente gli vuole bene. Il fatto che però il Comune fu sciolto per mafia, e non commissariato in seguito a dimissioni del sindaco od altro, avrebbe comunque dovuto consigliare molta prudenza a tutti. Anche a Di Giorgio.
Mi dispiace per Giuseppe, mi dispiace davvero. Mi dispiace perché é ingenuo, e spero che prima o poi impari. Spero che impari, anche se in famiglia non sembrano nuovi a rapporti a dir poco discutibili con amministrazioni comunali poi sciolte per ‘ndrangheta (vedi il caso Gioia Tauro, dove suo zio Fabio Laganà, cognato di Franco Fortugno e fratello della parlamentare del PD Maria Grazia Laganà, rassicurava telefonicamente l’allora Sindaco Giorgio Dal Torrione circa i ritardi della commissione d’accesso che di lì a poco chiederà lo scioglimento del comune).
Giuseppe Fortugno deve capire che il cognome che porta non ammette distrazioni.
Aldo Pecora