Attenti ai numeri che ingannano
di MARIO DEAGLIO (La Stampa, 21/7/2010)
È a Kabul: “Dal 2014 tutti a casa” un facile e pericoloso gioco estivo quello di chiudere gli occhi sulle ali di una buona notizia, e immaginare che la crisi se ne sia andata via, che i tre anni che ormai ci separano dall’estate 2007 - quando iniziarono le cadute delle Borse mondiali - siano stati un brutto sogno. Non è forse vero che il fatturato dell’industria è in straordinaria ripresa? Che gli ordini totali dell’industria in maggio hanno superato del 26,6 per cento quelli del maggio 2009 e che, all’interno di questi ordini, la componente estera è salita di quasi il 50 per cento? E che, se invece di prendere il solo maggio, si estende l’analisi ai primi cinque mesi del 2010 si trovano gratificanti aumenti a due cifre per il totale degli ordini?
La realtà è più complessa e per rendersene conto basta andare oltre il solito intervallo di dodici mesi e considerare fatturato e ordini sull’arco di due anni.
Nel maggio 2008, ossia poco prima che il virus della crisi, dopo aver devastato l’economia finanziaria, si abbattesse sull’economia reale, entrambi gli indici avevano superato quota 120. Ora sono risaliti rispettivamente a 101 (fatturato) e a 104 (ordinativi). Entrambi hanno toccato il loro minimo attorno a quota 85-90 nella primavera- estate 2009. Il che significa che l’attuale risalita sembra vertiginosa proprio perché l’industria italiana (come quella di quasi tutti i Paesi ricchi) era caduta incredibilmente in basso.
L’ industria italiana ha risalito il canalone ma la cima è ancora molto lontana. Continuando a crescere con questo ritmo, che può sembrare da campioni, l’industria italiana impiegherà all’incircaaltri dueanni per tornare ai livelli di fatturato e ordinativi precedenti la crisi: nel 2012, quindi,l’ammontare quantitativo della produzione industriale sarà paragonabile a quello del 2008, ma, ammettendo un normale aumento annuo della produttività del lavoro dell’1,5-2 per cento, per una produzione efficiente l’industria avrà bisogno del 6-8 per cento di lavoratori in meno. Si tratta di una cifra del tutto compatibile con le recenti stime dei posti a rischio.
Alternativamente, a parità di altre condizioni, se l’industria italiana vorrà restare competitiva a livello internazionale senza riduzione nel numero dei dipendenti,è molto probabile che i suoi lavoratori dovranno sopportare una perdita di potere d’acquisto dei salari pari all’incirca al 6-8 per cento. In altre parole, far ritornare l’economia italiana dov’era e com’era in un mondo che cambia vorticosamente non è una soluzione. Si esce dalla crisi creando un’economia nuova, non rappezzando alla bell’e meglio le gravissime crepe di un’economia vecchia; e al di là della situazione di emergenza che oggi si esprime con la manovra in approvazione in Parlamento,occorre pensare a quest’economia nuova che invece non sembra affatto in cima ai pensieri di maggioranza e opposizione.
Proprio perché di fatto lasciata sola dalla politica, l’economia sta cercando di adattarsi da sola alla nuova situazione e la sua struttura sta cambiando rapidamente.
I dati Istat diffusi ieri mostrano che il rimbalzo è molto diverso da un settore all’altro e che la componente estera della domanda prevale nettamente sulla componente interna; indubbiamente l’indebolimento dell’euro ha dato ossigeno a molti produttori e forse un ruolo lo gioca anche la nota capacità delle imprese italiane di adattarsi a condizioni mondiali difficili cercando mercati nuovi. I dati del commercio estero sembrano inoltre indicare che gli esportatori giocano ormai soprattutto la carta della qualità e non quella del basso prezzo dove l’Italia incontra ormai troppi temibili concorrenti.
Tutto ciò dovrebbe essere sottoposto a un ampio dibattito su ciò che questo Paese vorrà essere di qui a dieci o vent’anni;ma sembrano assai pochi coloro che sono disposti a impegnarsi in questo esercizio. Questo tentativo dell’industria italiana di rimettersi in piedi mostra però anche un’altra, meno gradevole, dimensione: il rapporto del Cnel sul mercato del lavoro, reso anch’esso noto ieri, mostra un’Italia economica chiaramente spaccata.
La disoccupazione cresce più al Sud che al Centro-Nord, la produzione più al Centro-Nord che al Sud; il divario economico tra le due parti dell’Italia, già a livelli altissimi prima della crisi, rischia di aumentare ancora in questa faticosa risalita industriale. Al punto che è ormai del tutto lecito domandarsi non tanto se si possa ancora parlare di un unico Paese - la risposta è certamente sì - quanto se si possa ancora parlare di un unico sistema economico.
Di certo, il meccanismo di pesi e contrappesi che ha consentito per oltre un secolo la convivenza con mutuo vantaggio di strutture produttive e strutture sociali profondamente diverse si presenta consunto e sfilacciato e dovrebbe essere profondamente rivisto. Sono finiti i tempi in cui - tanto per fare un esempio- l’evasione fiscale del Sud si traduceva in acquisti di beni prodotti dalle industrie del Nord; oggi tali acquisti riguardano in largami surabeni prodotti in Asia. Non sono interrogativi da pausa estiva.
I leader politici che decidono che non andranno in ferie e che dedicheranno questo tempo a riorganizzare i loro partiti dovrebbero riflettere sul fatto che tale riorganizzazione servirà a poco se l’Italia, andando a passi più lenti degli altri, perderà ancora di importanza nell’economia mondiale. L’economia mondiale non va in ferie e neppure i problemi strutturali dell’Italia e degli altri Paesi ricchi.
Orizzonte grigio scuro
di MARIO DEAGLIO (La Stampa, 13/8/2010)
I banchieri centrali sono indubbiamente molto bravi nel loro difficile mestiere di governo di un’economia globale inquieta e turbolenta; sono però forse ancora più bravi nell’usare espressioni arzigogolate per sdrammatizzare o rendere meno spigolose le loro analisi. Così, quando, lo scorso 21 luglio, il capo della banca centrale americana, Ben Bernanke, dichiarò che l’andamento dell’economia era «insolitamente incerto» voleva dire che le cose non andavano affatto bene e gli addetti ai lavori non capivano perché. Il Bollettino Mensile della Banca Centrale Europea (Bce), pubblicato ieri, sostiene che il ritmo dell’espansione sarà «moderato» il che significa che si collocherà intorno all’uno per cento, una cifra economicamente insoddisfacente e socialmente poco sostenibile per le pressioni negative che esercita sull’occupazione. L’espansione, secondo la Bce, sarà anche «discontinua», un modo molto diplomatico per dire che in alcuni trimestri ci potrebbe essere una riduzione della produzione.
In marcato contrasto con qualche mese fa, quando le previsioni ufficiali inclinavano al rosa pallido, ora l’indicazione generale è al grigio scuro. E tutto questo perché si è constatato che, come dicevano gli economisti di una volta, «il cavallo non beve» ossia i consumatori comprano poco e le imprese investono ancora meno. I governi hanno cercato di mettere dello zucchero nell’acqua, hanno cioè introdotto incentivi fiscali e il cavallo è sembrato apprezzare; ma appena gli incentivi sono finiti, la voglia di bere del cavallo è svanita. Siamo tornati al punto di prima, in molti Paesi con un aumento del buco nei conti pubblici per i minori incassi derivanti dagli incentivi.
Ecco allora il pericolo di una crescita «discontinua» indicato dalla Bce e l’aumento imprevisto nel numero degli americani che chiedono il sussidio di disoccupazione, reso noto ieri. L’aumento, relativamente elevato, dei prezzi registrato a luglio in Italia e altrove dipende dall’impennata del prezzo del greggio sui mercati internazionali; non è certo un bel segnale anche se non ne va esagerato il carattere negativo. Le pressioni inflazionistiche dovrebbero però essere prese in seria considerazione nei prossimi mesi solo se i danni degli incendi russi al raccolto dei cereali provocassero un aumento sostenuto e duraturo nei prezzi del grano che influenzerebbe rapidamente molti settori dell’alimentazione.
A rendere ancora meno attraente il quadro, il rallentamento dell’espansione cinese riduce le speranze che l’aumento delle importazioni del gigante asiatico possa da solo rivitalizzare l’economia mondiale, anche perché il potenziale produttivo dell’economia cinese è ormai tale da poter rifornire senza problemi il mercato interno di una massa di prodotti che fino a qualche anno fa venivano dall’estero e particolarmente dall’Europa.
Qualcuno penserà che non si tratta di una bella prospettiva, certo poco adatta a un periodo di vacanze, alla quiete sotto l’ombrellone. Ma abbiamo già perso troppo tempo con false speranze, illusioni e autoillusioni, o messaggi criptici di chi governa l’economia che erano nei fatti confessioni di insuccessi, il che ha fatto sì che sotto gli ombrelloni dell’estate ci sia molta meno gente di uno-due anni fa. La strada della ripresa deve cominciare dalla chiarezza; e dalla consapevolezza che occorre qualcosa di nuovo, magari senza aspettare la fine delle vacanze, per evitare quell’avvitamento autunnale che la Bce chiama diplomaticamente «discontinuità».
Per questo è probabilmente necessario dotare le autorità centrali di maggiori poteri di intervento nell’economia, invertendo la tendenza al disinteresse per il controllo dei mercati che ha caratterizzato gli ultimi vent’anni. Occorre anche agire sulla distribuzione dei redditi, in primo luogo recuperando l’evasione fiscale, particolarmente rilevante in Italia ma di certo non assente negli altri Paesi. In secondo luogo, ove necessario, bisognerà prendere in considerazione il ridisegno del carico fiscale con lo spostamento di potere d’acquisto verso le fasce di popolazione dai redditi più bassi, il che porterà all’aumento dell’imposizione fiscale sugli altri contribuenti.
L’Italia non si trova particolarmente svantaggiata nel clima generale di difficoltà che stiamo vivendo. I suoi prodotti di alta qualità trovano mercato anche in questo periodo di crisi e le imprese hanno una lunga tradizione di adattamento al nuovo in periodi difficili che fa sì che le esportazioni siano complessivamente abbastanza vivaci. Le debolezze italiane derivano, come sempre, dalle carenze di infrastrutture e dalle complicazioni normative; e più ancora dalla lontananza di una classe politica molto attenta alle «rese dei conti» al proprio interno e apparentemente incapace di comprendere le difficoltà dei bilanci famigliari e dei bilanci aziendali.