Il testo del discorso di insediamento di Laura Boldrini
Le parole della neopresidente in aula *
Care deputate e cari deputati,
permettetemi di esprimere il mio più sentito ringraziamento per l’alto onore e responsabilità che comporta il compito di presiedere i lavori di questa assemblea.
Vorrei innanzitutto rivolgere il saluto rispettoso e riconoscente di tutta l’assemblea e mio personale al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che è custode rigoroso dell’unità del Paese e dei valori della costituzione repubblicana.
Vorrei inoltre inviare un saluto cordiale al Presidente dalla Corte costituzionale e al Presidente del consiglio.
Faccio a tutti voi i miei auguri di buon lavoro, soprattutto ai più giovani, a chi siede per la prima volta in quest’aula. Sono sicura che in un momento così difficile per il nostro paese, insieme, insieme riusciremo ad affrontare l’impegno straordinario di rappresentare nel migliore dei modi le istituzioni repubblicane.
Vorrei rivolgere inoltre un cordiale saluto a chi mi ha preceduto, al presidente Gianfranco Fini che ha svolto con responsabilità la sua funzione costituzionale.
Arrivo a questo incarico dopo aver trascorso tanti anni a difendere e rappresentare i diritti degli ultimi in Italia come in molte periferie del mondo. E’ un’esperienza che mi accompagnerà sempre e che da oggi metto al servizio di questa Camera. Farò in modo che questa istituzione sia anche il luogo di cittadinanza di chi ha più bisogno.
Il mio pensiero va a chi ha perduto certezze e speranze. Dovremmo impegnarci tutti a restituire piena dignità a ogni diritto. Dovremo ingaggiare una battaglia vera contro la povertà, e non contro i poveri. In questa aula sono stati scritti i diritti universali della nostra Costituzione, la più bella del mondo. La responsabilità di questa istituzione si misura anche nella capacità di saperli rappresentare e garantire uno a uno.
Quest’Aula dovrà ascoltare la sofferenza sociale. Di una generazione cha ha smarrito se stessa, prigioniera della precarietà, costretta spesso a portare i propri talenti lontano dall’Italia.
Dovremo farci carico dell’umiliazione delle donne che subiscono violenza travestita da amore. Ed è un impegno che fin dal primo giorno affidiamo alla responsabilità della politica e del Parlamento.
Dovremo stare accanto a chi è caduto senza trovare la forza o l’aiuto per rialzarsi, ai tanti detenuti che oggi vivono in una condizione disumana e degradante come ha autorevolmente denunziato la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo.
Dovremo dare strumenti a chi ha perso il lavoro o non lo ha mai trovato, a chi rischia di smarrire perfino l’ultimo sollievo della cassa integrazione, ai cosiddetti esodati, che nessuno di noi ha dimenticato.
Ai tanti imprenditori che costituiscono una risorsa essenziale per l’economia italiana e che oggi sono schiacciati dal peso della crisi, alle vittime del terremoto e a chi subisce ogni giorno gli effetti della scarsa cura del nostro territorio.
Dovremo impegnarci per restituire fiducia a quei pensionati che hanno lavorato tutta la vita e che oggi non riescono ad andare avanti.
Dovremo imparare a capire il mondo con lo sguardo aperto di chi arriva da lontano, con l’intensità e lo stupore di un bambino, con la ricchezza interiore inesplorata di un disabile.
In Parlamento sono stati scritti questi diritti, ma sono stati costruiti fuori da qui, liberando l’Italia e gli italiani dal fascismo.
Ricordiamo il sacrificio di chi è morto per le istituzioni e per questa democrazia. Anche con questo spirito siamo idealmente vicini a chi oggi a Firenze, assieme a Luigi Ciotti, ricorda tutti i morti per mano mafiosa. Al loro sacrificio ciascuno di noi e questo Paese devono molto.
E molto, molto dobbiamo anche al sacrificio di Aldo Moro e della sua scorta che ricordiamo con commozione oggi nel giorno in cui cade l’anniversario del loro assassinio.
Questo è un Parlamento largamente rinnovato. Scrolliamoci di dosso ogni indugio, nel dare piena dignità alla nostra istituzione che saprà riprendersi la centralità e la responsabilità del proprio ruolo. Facciamo di questa Camera la casa della buona politica. Rendiamo il Parlamento e Il nostro lavoro trasparenti, anche in una scelta di sobrietà che dobbiamo agli italiani.
Sarò la presidente di tutti, a partire da chi non mi ha votato, mi impegnerò perché la mia funzione sia luogo di garanzia per ciascuno di voi e per tutto il Paese.
L’Italia fa parte del nucleo dei fondatori del processo di integrazione europea, dovremo impegnarci ad avvicinare i cittadini italiani a questa sfida, a un progetto che sappia recuperare per intero la visione e la missione che furono pensate, con lungimiranza, da Altiero Spinelli.
Lavoriamo perché l’Europa torni ad essere un grande sogno, un crocevia di popoli e di culture, un approdo certo per i diritti delle persone, un luogo della libertà, della fraternità e della pace.
Anche i protagonisti della vita spirituale religiosa ci spronano ad osare di più: per questo abbiamo accolto con gioia i gesti e le parole del nuovo pontefice, venuto emblematicamente “dalla fine del mondo”. A papa Francesco il saluto carico di speranze di tutti noi.
Consentitemi un saluto anche alle istituzioni internazionali, alle associazioni e alle organizzazioni delle Nazioni Unite in cui ho lavorato per 24 anni e permettetemi - visto che questo è stato fino ad oggi il mio impegno - un pensiero per i molti, troppi morti senza nome che il nostro Mediterraneo custodisce. Un mare che dovrà sempre più diventare un ponte verso altri luoghi, altre culture, altre religioni.
Sento forte l’alto richiamo del Presidente della Repubblica sull’unità del Paese, un richiamo che questa aula è chiamata a raccogliere con pienezza e con convinzione.
La politica deve tornare ad essere una speranza, un servizio, una passione.
Stiamo iniziando un viaggio, oggi iniziamo un viaggio. Cercherò di portare assieme a ciascuno di voi, con cura e umiltà, la richiesta di cambiamento che alla politica oggi rivolgono tutti gli italiani, soprattutto in nostri figli. Grazie.
Boldrini «Partii e mio padre non mi parlò più»
Alla Camera una paladina dei diritti
La neoeletta paladina dei mondi dimenticati
Il neopresidente Laura Boldrini, dall’Onu a Montecitorio
di Gian Antonio Stella (Corriere della Sera, 17.03.2013)
Tenerla ferma nella gabbia dorata di Montecitorio: questo sarà il problema. Perché Laura Boldrini, eletta ieri alla guida della Camera, appartiene a quelle specie animali che non vivono in cattività. Dopo un po’ che sta ferma e non vola via, comincia a mancarle l’ossigeno.
Forse per questo ha chiuso il suo discorso di insediamento dicendo: «Oggi iniziamo un viaggio». Un viaggio non nello spazio, si capisce, ma attraverso una politica diversa, che «deve tornare ad essere una speranza, un servizio, una passione». Che si occupi di «chi ha perduto certezze e speranze», che ingaggi «una battaglia vera contro la povertà e non contro i poveri», che sappia «ascoltare la sofferenza sociale di una generazione che ha smarrito se stessa, prigioniera della precarietà, costretta spesso a portare i propri talenti lontano dall’Italia», che si faccia «carico (passaggio accolto da una standing ovation a sinistra, da una certa freddezza perfino di alcune deputate di destra) «dell’umiliazione delle donne che subiscono violenza travestita da amore».
Una politica che riesca finalmente a stare «accanto a chi è caduto senza trovare la forza o l’aiuto per rialzarsi, ai tanti detenuti che oggi vivono in una condizione disumana e degradante». E poi a chi «ha perso il lavoro o non lo ha mai trovato». E «ai tanti imprenditori che costituiscono una risorsa essenziale per l’economia italiana». E «a quei pensionati che hanno lavorato tutta la vita e che oggi non riescono ad andare avanti». E ogni citazione del suo discorso pareva una tappa di un itinerario alla riscoperta di mondi troppo spesso dimenticati dalla «politica politicante». I migranti, l’ambiente, i bambini, la disabilità...
La sua casa romana, ha scritto Famiglia Cristiana che la premiò come italiana dell’anno 2009 per «il costante impegno, svolto con umanità ed equilibrio, a favore di migranti, rifugiati e richiedenti asilo», trabocca di ricordi di viaggio nello Yemen, in Madagascar, Tagikistan, Perù, Pakistan, Afghanistan... Accumulati in trent’anni percorsi girando come una trottola tutti i continenti. Alla scoperta di spazi che fossero un po’ più grandi di Matelica, l’antico borgo collinare in provincia di Macerata, nelle Marche, dove ha fatto le elementari prima del trasferimento per le medie e il liceo classico a Jesi.
«Io e i miei fratelli andavamo alla scuola rurale, vivevamo in un mondo chiuso, ovattato. La voglia di partire è nata lì», spiegò al settimanale cattolico diretto da Don Antonio Sciortino. «Sono la più grande di cinque figli, due femmine e tre maschi. Mia madre ci ha allevati lavorando: era insegnante di Arte, poi ha fatto l’antiquaria. Nella mia famiglia sono tutti artisti, tranne me e mio fratello Ugo: siamo i pragmatici di casa».
Il papà, come raccontò a Paolo di Stefano, faceva l’avvocato ed era «un uomo molto speciale: riservato, studioso, solitario, tradizionalista, molto religioso» che amava «la campagna e la musica classica» e spesso si esprimeva a tavola in latino e in greco: «I suoi princìpi non si coniugavano con la mia curiosità».
Cresciuta nella parrocchia di San Filippo, era legatissima a Don Attilio, un prete attentissimo agli ultimi: «Ho imparato lì la vita nel gruppo, l’amore per la natura, il rispetto dei più deboli, lo spirito del servizio». Presa la maturità, contro il volere del padre si preparò uno zaino e partì per il Venezuela, «a lavorare in una "finca de arroz", un’azienda di riso a Calabozo».
La misero in ufficio, «ma io volevo conoscere la vita nei campi: rimasi lì tre mesi, abbastanza per capire come vivono i contadini in quella parte del mondo, li vedevo lavorare duramente per otto ore, poi la sera andavano nei bar a spendere i soldi che avevano guadagnato di giorno». Tre mesi dopo, partiva in autobus, tra campesinos, maiali e galline, per un lungo viaggio verso Nord: Panama, Costa Rica, Nicaragua, Honduras, Guatemala, poi Messico e Stati Uniti, fino a New York.
Rientrata in Italia, si iscrisse a Giurisprudenza alla Sapienza, a Roma: «Sei mesi a studiare come una pazza e dare esami, gli altri sei a viaggiare». La prese, come voleva il padre («non mi parlò per otto anni») quella laurea in Legge: 110, con una tesi sul diritto di cronaca. Mentre studiava, lavorava all’Agenzia italiana stampa e migrazione: «Mi occupavo di selezionare le notizie che potevano essere rilevanti per i giornali delle comunità italiane all’estero».
Entrata come giornalista alla Rai, mollò tutto nell’89, quando aveva 28 anni, vincendo un concorso dell’Onu per «Junior Professional Officer»: «Ho lavorato cinque anni alla Fao, poi il capo ufficio stampa del Pam, il Programma alimentare mondiale, mi chiamò per chiedermi se conoscevo qualcuno che curasse i rapporti con la stampa italiana e mi proposi». Era sposata, allora. E incinta: «Stavo aspettando mia figlia, Anastasia, mi ricordo che mi presentai al colloquio con la pancia».
Nel febbraio del 1998, la destinazione definitiva: portavoce dell’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati. «Uno degli organismi che non contano un fico secco, finché la stampa non decide che conta», avrebbe ironizzato anni dopo Ignazio La Russa. Non sopportava, l’allora ministro della Difesa, la passione con cui Boldrini attaccava la scelta italiana dei respingimenti (ci scrisse anche un libro: «Tutti indietro») sostenendo, Costituzione alla mano, che gli aspiranti immigrati fermati sui barconi non potevano venire respinti senza che fosse prima controllato se non avessero diritto all’asilo, tanto più che la Libia di Gheddafi non aveva il minimo rispetto per i diritti umani. Ringhiò La Russa: «La Boldrini o è disumana - e io l’accuso - perché pretende che li teniamo per mesi rinchiusi nei centri per poi espellerli, oppure è criminale perché vuole eludere la legge e vuole che una volta qui scappino e si sparpaglino sul territorio».
Lei, mentre intorno si alzavano reazioni indignate, liquidò la cosa così: «Parole che si commentano da sole». E tirò diritto: «I numeri parlano chiaro: i rifugiati da noi sono ancora pochi, 47 mila, contro i 600 mila della Germania, 300 mila in Gran Bretagna, 150 mila in Francia. L’80% dei rifugiati vive nel Sud del mondo, non in Europa».
Certo, c’è chi dirà (e qualche voce critica si è già levata) che Laura Boldrini non è mai stata una donna «al di sopra delle parti». Ed è vero. Basta leggere il suo libro in uscita per Rizzoli, «Solo le montagne non si incontrano mai», dove racconta (insieme con lo strazio della morte nel giro di un anno del padre, della madre e della sorella Lucia) la storia di Murayo, una bambina gravemente malata e «adottata» dai soldati del nostro contingente e da lei riportata in Somalia a rivedere il padre, per trovare la conferma: la donna che ha preso il posto di Fini, non è tipo da barcamenarsi sugli equilibri equidistanti. Sai sempre da che parte sta. E questo, a chi non la pensa come lei, può non piacere. Di più: lo stesso discorso di insediamento sarà certamente apparso a molti schieratissimo.
Chi la conosce, però, sarebbe disposto a scommettere che, prendendo sul serio il nuovo ruolo, potrebbe riuscire a smentire i diffidenti e ad essere davvero ciò che ha promesso: «Sarò la Presidente di tutti, a partire da chi non mi ha votato». E magari potrebbe anche essere fedele all’impegno più solenne che ha preso: «Facciamo di questa Camera la casa della buona politica, rendiamo il Parlamento e il nostro lavoro trasparenti, anche in una scelta di sobrietà che dobbiamo agli italiani...». Sempre che, si capisce, sappia resistere in certi momenti di asfissia alla tentazione di volarsene via...
Parlamento, Boldrini presidente della Camera.
Al Senato Grasso la spunta su Schifani
Eletta a Montecitorio, con i soli voti del centrosinistra, la deputata di Sel. A Palazzo Madama l’ex procuratore nazionale antimafia vince il ballottaggio sul candidato del Pdl. Lista Civica ha annunciato scheda bianca, M5S si è diviso e la scelta di rimanere equidistante ha fatto scattare la prima contestazione interna. Al suo arrivo urla contro Berlusconi che replica a muso duro:"Vergognatevi" *
ROMA - Sono Piero Grasso e Laura Boldrini i due nuovi presidenti di Senato e Camera. L’ex procuratore nazionale antimafia è stato eletto al termine della quarta votazione, nel corso di un ballottaggio sul filo dell’ultimo voto con lo sfidante del Pdl Renato Schifani.
Un esito, quello di oggi, che sovverte tutte le indiscrezioni della vigilia, e segna un punto a favore del Pd. Non tanto perché il partito di Bersani ottiene il controllo di entrambe le camere, ma per la prova di innovazione data con la scelta di due nomi fuori dagli schemi della "vecchia politica". Non a caso il dilemma della scelta a Palazzo Madama tra Grasso e Schifani ha segnato un prima importante spaccatura tra i senatori del M5S. Dopo una lunga e tesa riunione, malgrado l’evidente diversità di profilo tra i due candidati, la decisione presa a maggioranza è stata quella di non appoggiare nessuno dei due, ma la scelta nel segreto dell’urna potrebbe essere stata disattesa da un certo numero di senatori, a cominciare da quelli eletti in Sicilia. Divisioni anche in Scelta civica, che alla fine ha deciso per la scheda bianca, ma non senza forti malumori interni.
Laura Boldrini, ex portavoce dell’Unhcr, è la terza donna a presiedere Montecitorio, dopo Nilde Iotti e Irene Pivetti. Il suo discorso, di rottura rispetto agli standard del passato, è stato molto applaudito, non solo dai banchi del centrosinistra ma anche dalle file del Movimento Cinque Stelle.
Contestazioni contro Berlusconi al momento del suo arrivo a Palazzo Madama. Dura replica del Cavaliere: "Vergognatevi"
L’integrale del discorso al Senato di Pietro Grasso *
Care senatrice, cari senatori,
mi scuserete ma voglio rivolgere questo primo discorso soprattutto a quei cittadini che stanno seguendo i lavori di questa aula con apprensione e con speranza per il futuro di questo paese.
Il paese mai come oggi ha bisogno di risposte rapide ed efficaci, all’altezza della crisi economica, sociale, politica che sta vivendo.
Mai come ora la storia italiana si intreccia con quella europea e i destini sono comuni.
Mai come oggi il compito della politica è quello di restituire ai cittadini la coscienza di questa sfida.
Quando ieri sono entrato per prima volta da senatore in questa aula mi ha colpito l’affresco sul soffitto che vi invito a guardare. Riporta quattro parole che sono state sempre di grande ispirazione per la mia vita e che spero lo saranno ogni giorno per ognuno di noi nel lavoro che andiamo ad affrontare: Giustizia, diritto, fortezza, concordia.
Quella concordia, quella pace sociale di cui il paese ora ha disperatamente bisogno.
Domani è l’anniversario dell’unità d’Italia, quel 17 marzo di 152 anni fa in cui è cominciata la nostra storia come comunità nazionale, dopo un lungo e difficile cammino di unificazione.
Nei 152 anni della nostra storia, soprattutto nei momenti difficili, abbiamo saputo unirci, superare le differenze, affermare con fermezza i nostri valori comune e trovare insieme un sentiero condiviso.
Il primo pensiero va sicuramente alla fase costituente della nostra repubblica, quando uomini e donne di diversa cultura hanno saputo darci quella che ancora oggi viene considerata una delle carte costituzionali più belle e più moderne del mondo.
Lasciatemi in questo momento ricordare Teresa Mattei che ci ha lasciato pochi giorni fa, che dell’assemblea costituente fu la più giovane donna eletta, che per tutta la vita è stata attiva per affermare e difendere i diritti delle donne, troppo spesso calpestati anche nel nostro paese
Siamo davanti a un passaggio storico straordinario, abbiamo il dovere di esserne consapevoli, il diritto e la responsabilità di indicare un cambiamento possibile perché è in gioco la qualità della democrazia che stiamo vivendo. E allo stesso tempo dobbiamo avviare un cammino a lungo termine, dobbiamo davvero iniziare una nuova fase costituente che sappia stupire e stupirci.
Oggi è il 16 marzo, e non posso che ringraziare il presidente Colombo che stamattina ci ha commosso con il ricordo dell’anniversario del rapimento di Aldo Moro e della strage di via Fani che provocò la morte dei cinque agenti di scorta, come lui stesso ha ricordato, Raffaele Iozzino, Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Giulio Rivera e Francesco Zizzi. Al loro sacrificio di servitori dello stato va il nostro omaggio deferente e commosso.
Oggi bisogna ridare dignità e risorse alle forze dell’ordine e alla magistratura.
Sono trascorsi 35 anni da quel tragico giorno che non fu solo il dramma di un uomo e di una famiglia, ma dell’intero paese. In Aldo Moro il terrorismo brigatista individuò il nemico più consapevole di un progetto davvero riformatore, l’uomo e il dirigente politico che aveva compreso il bisogno e le speranze di rigenerazione che animavano dal profondo e tormentavano la società italiana. Come Moro scrisse in un suo saggio giovanile, “forse il destino dell’uomo non è di realizzare pienamente la giustizia, ma di avere perpetuamente della giustizia fame e sete, ma è sempre un grande destino.”
Oggi inoltre migliaia di giovani a Firenze hanno partecipato alla giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime della mafia. Vi confesso che mi è molto dispiaciuto non potere essere con loro come ogni anno. Hanno pronunciato e ascoltato gli oltre 900 nomi di vittime della criminalità organizzata: nomi di cittadini, appartenenti alle forze dell’ordine, sindacalisti, politici, amministratori locali, giornalisti, sacerdoti, imprenditori, magistrati, persone innocenti, uccise nel pieno della loro vita. Il loro impegno, il loro sacrificio, il loro esempio dovrà essere il nostro faro.
Ho dedicato la mia vita alla lotta alla mafia in qualità di magistrato e devo dirvi che, dopo essermi dimesso dalla magistratura, pensavo di potere essere utile al paese in forza della mia esperienza professionale nel mondo della giustizia. Ma la vita riserva sempre delle sorprese.
Oggi interpreto questo mio nuovo, imprevisto impegno con spirito di servizio per contribuire alla soluzione dei problemi del paese.
Ho sempre cercato verità e giustizia e continuerò a cercarle da questo scranno, auspicando che venga costituita una nuova commissione di inchiesta su tutte le stragi irrisolte del nostro paese.
Se oggi davanti a voi dovessi scegliere un momento in cui raccogliere la storia della mia vita professionale precedente, non vorrei limitarmi a menzionare gli amici e i colleghi caduti in difesa della democrazia e dello Stato di diritto che io ho conosciuto: non c’è, infatti, un solo nome, un volto che può raccoglierli tutti, e purtroppo se dovessi citarli tutti, la lista sarebbe ahimè troppo lunga.
Mi viene piuttosto in mente nel cuore un momento che li abbraccia a uno a uno. E’ il ricordo della voce e delle parole di una giovane donna. Mi riferisco al dolore straziato di Rosaria Costa, la moglie dell’agente Vito Schifani, morto insieme ai colleghi Rocco Di Cilio e Antonino Montinaro nella strage di Capaci del 1992 in cui persero la vita anche Giovanni Falcone e Francesca Morvillo.
Non ho dimenticato le sue parole il giorno dei funerali del marito, quel microfono strappato ai riti e alle convenzioni delle cerimonie:
Giustizia e cambiamento: questa è la sfida che abbiamo davanti. Ci attende un intenso lavoro comune per rispondere con i fatti alle attese dei cittadini che chiedono anzitutto più giustizia sociale, più etica, nella consapevolezza che il lavoro è uno dei principali problemi di questo paese.
Penso alle risposte che al più presto ed è già tardi dovremo dare ai disoccupati, ai cassintegrati, agli esodati, alle imprese, a tutti quei giovani che vivono una vita a metà, hanno prospettive incerte, lavori - chi ce l’ha - poco retribuiti, quando riescono a uscire dalla casa dei genitori, vivono in appartamenti che non possono comprare, cercando di costruire una famiglia che non sanno come sostenere.
Penso alla insostenibile situazione delle carceri nel nostro paese che hanno bisogno di interventi prioritari.
Penso a una giustizia che oggi va riformata in modo organico, agli immigrati che cercano qui da noi una speranza di futuro, ai diritti in quanto tali che non possono essere elargiti col ricatto del dovere e che non possono conoscere limiti, altrimenti diventano privilegi.
Penso alla istituzioni sul territorio, ai sindaci dei comuni che stanno soffrendo e faticano per garantire i servizi essenziali ai loro cittadini. Sappiano che lo Stato è dalla loro parte e che il nostro impegno sarà di fare il massimo sforzo per garantire loro l’ossigeno di cui hanno bisogno.
Penso al mondo della scuola nelle cui aule ogni giorno si affaccia il futuro del paese e agli insegnanti che fra mille difficoltà si impegnano a formare cittadini attivi e responsabili.
Penso alla nostra posizione sullo scenario europeo, siamo tra i fondatori dell’unione, il nostro compito è portare nelle istituzioni comunitarie le esigenze e i bisogni dei cittadini. L’Europa non è solo moneta ed economia, deve essere anche incontro di popoli e culture.
Penso a questa politica alla quale mi sono appena avvicinato che ha bisogno di essere cambiata e ripensata dal profondo, nei suoi costi, nelle sue regole, nei suoi riti, nelle sue consuetudini, nella sua immagine, rispondendo ai segnali che i cittadini ci hanno mandato e ci mandano e ci continuano a mandare.
Sogno che questa aula diventi una casa di vetro e che questa scelta possa contagiare tutte quante le altre istituzioni.
Di quanto radicale e urgente sia il tempo del cambiamento lo dimostra la scelta del nuovo pontefice, papa Francesco, i cui primi atti hanno evidenziato una attenzione primaria, prioritaria verso i bisogni reali delle persone.
Voglio in conclusione rivolgere a nome dell’assemblea del senato e mio personale un deferente saluto al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, supremo garante della Costituzione e dell’unità d’Italia che con saggezza e salda cultura istituzionale esercita il suo mandato di capo dello Stato.
Desidero anche ringraziare il mio predecessore, il senatore Renato Schifani, per l’impegno profuso al servizio di questa assemblea.
Un omaggio speciale di indirizzo ai presidenti emeriti, ai senatori a vita e a Emilio Colombo che ha presieduto con inesauribile energia la fase iniziale di questa 17esima legislatura, lui che ha visto nascere la Repubblica partecipando ai lavori della assemblea costituente.
Chiedo e concludo ricordando cosa mi disse il capo dell’ufficio istruzione del Tribunale di Palermo, Antonino Caponnetto, poco prima di entrare nell’aula del maxiprocesso contro la mafia: “Fatti forza, ragazzo, vai avanti a schiena dritta e a testa alta e segui sempre e soltanto la voce della tua coscienza”.
Sono certo che in questo momento e in questa aula l’avrebbe ripetuta anche a tutti noi.
Grazie.
La sfida della legalità dell’erede di Falcone
Sedici applausi, non di Pdl e Lega, eletto dopo 44 anni in magistratura
Cita la vedova Schifani ai funerali di Falcone: «Uomini di mafia che siete qua dentro, io vi perdono ma voi dovete cambiare»
di Claudia Fusani (l’Unità, 17.03.2013)
Sono le parole che ha tenuto per ultime nel discorso di insediamento. Ma gli hanno martellato in testa dalla mattina. «Fatti forza ragazzo, vai avanti a schiena dritta e a testa alta e segui sempre la voce della coscienza» gli disse Antonino Caponnetto, il capo dell’ufficio istruzione della procura di Palermo, la mattina del 10 febbraio 1886 quando, giudice a latere di soli 41 anni, aprì il primo maxi processo contro 475 boss di Cosa Nostra.
E la scorsa notte, quando Bersani lo ha chiamato per dire che sarebbe toccato a lui l’ultimo miglio della corsa più difficile, prima di accettare ha pensato a lungo ad un altro bivio della sua vita, quando a 39 anni divenne giudice a latere del maxiprocesso perchè a Palermo non c’erano giudici disponibili. Lo fece allora. Lo ha fatto adesso. Abituato ai veleni e alle correnti del palazzo di giustizia di Palermo, cosa mai di diverso sarebbe potuto succedere al Senato?
Pietro Grasso presidente del Senato prende la parola tra gli applausi il primo avversarioa stringergli la mano è stato il predecessore Renato Schifanialle sette di sera, parla per 25 minuti in un’aula non pienissima ma che lo ascolta (anche Berlusconi in prima fila) e lo osserva come «una soluzione»; un problema in più, invece, per chi fa già i conti di quando si tornerà a votare.
Venticinque minuti, sedici applausi, 44 anni di vita in magistratura che gli scorrono davanti, immagini, parole paure. Miguel Gotor è stato spesso accanto a lui in mattinata e poi nel ballottaggio del pomeriggio, quello tra lui e Schifani, tra l’antimafia e l’avvocato a lungo indagato per possibili collisioni con qualche boss. Computer alla mano entrambi, forse suggerimenti per il probabile discorso di insediamento. Che poi però è arrivato «seguendo il cuore» come gli diceva Caponnetto.
Il primo saluto va «ai cittadini che seguono questi lavori con apprensione e speranze e hanno bisogno di risposte rapide e ufficiali». E allora alza gli occhi in alto, verso il soffitto e racconta: «Da quando sono entrato in quest’aula mi è venuto naturale alzare gli occhi al soffitto e ho scoperto che vi sono scritti i quattro concetti-guida della mia vita, Fortezza, concordia giustizia diritto». Molti veterani alzano il capo. Si vede che non ci avevano mai fatto caso.
Parla alle famiglie, ai figli, ai disoccupati, alle forze dell’ordine e alla magistratura, alle vittime di mafia che «questa mattina sono state elencate una ad una a Firenze durante la manifestazione di Libera. Mi spiace non esserci andato». Una vita dedicata alla ricerca della verità e della giustizia, «e con lo stesso spirito di servizio affronto oggi questo nuovo e imprevisto incarico».
Vorrebbe salutare tutti gli amici a cui deve qualcosa, «ma non cito nessuno perchè sarebbero troppi». Non può però non sceglierne una, Rosaria Schifani, la vedova dell’agente di scorta di Falcone. «Chiedo che venga fatta giustizia, adesso» urlò ai funerali.«Mi rivolgo agli uomini della mafia, perchè ci sono e sono qua dentro, chiedete perdono, io vi perdono, ma voi non lo farete mai». In aula cala un silenzio surreale.
Non è stata la giornata più lunga per Pietro Grasso. Neppure quella più difficile. Ne ha viste ben altre: il tritolo, anche quello diretto a lui; il corpo dei colleghi dilaniati dalle bombe;certi interrogatori, come quello del boss Gaspare Spatuzza, che avrebbe riscritto le indagini di mafia degli ultimi vent’anni e scoperto collusioni negli apparati che mai avrebbe voluto scoprire.
«Non si dice nulla perchè porta male» dice in un corridoio di palazzo Madama alle due e mezzo del pomeriggio. Il candidato presidente del Senato è scortato dai commessi. Ma «il procuratore» perchè questo resterà sempre sfodera il suo sorriso di sempre, quando stringe gli occhi che guardano dritti. I politici non guardano così. Si vede che lui non lo è. Assomiglia, quel sorriso, a quello di uno dei suoi più cari amici, Giovanni Falcone. È amaro e dolce allo stesso tempo. È il sorriso di chi conosce le sfide e non le teme. Ma la politica è un’altra storia rispetto alla procura di Palermo, ai maxi processi di mafia, agli uffici di via Giulia, la sede della procura antimafia che ha diretto per otto anni.
Fino al 27 dicembre scorso quando Bersani lo ha convinto. «Ci sono giorni in cui ancora non mi rendo bene conto di cosa sto facendo» diceva in campagna elettorale, un lungo viaggio nei quartieri di Roma più difficili come Tor Bella Monaca, di Napoli, nella Milano delle cosche della ’ndrangheta, nella sua Palermo. Un viaggio entusiasmante quello pre elettorale. Il miracolo è stato vedere come un uomo abituato all’analisi e non certo agli slogan, abbia potuto farsi ascoltare dalle persone. Non aveva promesse da fare. Ha spiegato, numeri alla mano, perchè la ripartenza inizia dalla lotta all’economia illegale, quella figlia della corruzione, delle mafie, dell’evasione fiscale.
In aula ha scelto l’ultimo posto, nell’ultimo angolo in alto a destra. Per osservare tutti meglio, in silenzio e neglio occhi. A cominciare dai grillini che infatti gli hanno dato più di dieci voti (137 contro, 15 voti in più del previsto, contro i 117 di Schifani). Se esiste un candidato grillino qua dentro, questo si chiama Pietro Grasso. Alla fine l’hanno capito anche loro. Grasso, da lassù, ha osservato bene anche i montiani rimasti però inchiodati ia scelte miopi di pura bottega.
«Questo è il maxi processo, te la senti» gli disse Falcone nell’84 facendolo entrare nell’aula bunker con migliaia di fascicoli. Grasso sorrise ed entrò. Lo ha fatto anche ieri.