Spettacolo

Ubu c’è, di Giancarlo Cauteruccio. Riflessioni sciolte su uno spettacolo che diventa lezione

martedì 10 maggio 2005.
 

Ubu c’è, di Giancarlo Cauteruccio, preso in compagnia di Giuliano Compagno da Ubu roi, di Alfred Jarry, ha fatto tappa lo scorso 2 maggio al Rendano di Cosenza, fuori stagione, nell’ambito d’una bella rassegna organizzata da Libero teatro. Guardando questo Ubu di Cauteruccio, balza subito l’effettiva presenza del protagonista, personaggio che appare, oggi, come profeta - o, se vogliamo, interprete autorevole - del tempo futuro, della proiezione, cioè, di sé per se stesso. Che il regista abbia aggiornato l’opera giusto in questi termini ci conferma la sua profonda conoscenza del contemporaneo, che riunisce teoria, applicazioni tecnologiche e concettuali, provocazioni e speranza, auspicante, sul ruolo del politico - inteso come spazio. Ubu c’è. Non è casuale la scelta del titolo dello spettacolo, in un contesto in cui il potere si sottopone alla riproducibilità digitale, alle sue illusioni, a nascondimenti e dubbi. E se c’è, Ubu, significa, inevitabilmente, che agisce, si mostra, si rende evidente; vuol dire che si muove esattamente contro la legge e le istituzioni ma con rinnovato terrore, potendo disporre di mezzi, repressivi e coercitivi, assai più potenti che contro Venceslao e i suoi amministratori. Lo dice, nella messinscena di Cauteruccio, addirittura Jean Baudrillard, lo stesso, ad esempio, di Lo spirito del terrorismo, il quale, assieme a Chomsky e Vattimo, ci pare tra i più convinti oppositori, adesso, dell’attuale regime imperialistico transnazionale. Lo dichiara solennemente, il filosofo francese, dando dell’Ubu a Bush, considerato responsabile d’una politica scellerata, contro l’umanità, la legge, il diritto, la giustizia. Sul piano del sentimento - Cauteruccio ha chiamato Sentimenti la stagione teatrale del Teatro studio di Scandicci, di cui è direttore artistico -, il lavoro non si presta a particolari effetti di riflessione o catarsi né a rapimenti della recitazione - un po’ ripetitiva e contratta quella della pur brava Alida Giardina, madre Ubu. Ciò che più caratterizza questa ultima uscita degli ancora sperimentali, vivaddio, Krypton è la convergenza di piani espressivi, la sorprendente freschezza della ricerca d’un linguaggio vivo che rimanga sintesi di contributi visuali, spaziali, testuali e significati dirompenti. Il regista - che negli ultimi anni s’è confrontato parecchio con Beckett e Pinter ma anche con Shakespeare e ha proseguito, con Miccini e Pignotti e i vari Rogers, il suo ammirevole lavoro di connessione fra pensiero e progetto, anche con un laboratorio quotidiano presso l’Università di Firenze - ha inteso proporre un’elaborazione di Ubu che giungesse soprattutto ai più giovani, totalmente immersi in un (mondo) sublime di accadimenti e possibilità creative, di movimenti e convergenze globali, ma spesso incapaci di cogliere la portata etica di un’estetica scioccante o estatica. La quale, può essere, a titolo d’esempio, un verso puro, immediato, breve, o, ancora, quel pentimento di Prospero che, nella Tempesta, s’abbandona così: «Ora non ho più spiriti da controllare né arte per incantare e la mia fine è la disperazione, se non mi dia sollevazione la preghiera, che trafigge così a fondo da assaltare la misericordia stessa». Giancarlo Cauteruccio sa comunicare ai ragazzi, sa guidarli, sa insegnare loro, senza pesare. E non è affatto poco, per un teatro che, alle origini, era formazione perpetua. Non è roba trascurabile, oggigiorno, anche se Cauteruccio continua, forse scherzosamente, a dire che il mezzo rappresentativo è definitivamente morto - e, anche per questo, prova a sostenerlo con apparati elettronici e diversi supporti artistici. Stranamente, Cauteruccio è rimasto tra i più strenui difensori, in Italia, d’un teatro che sappia essere etico, che faccia pensare anche in seconda battuta, come nel caso del suo Ubu. Il cui finale è stato addirittura commovente: con la solita esposizione di Cauteruccio, artefice e padrone dei personaggi e degli attori, a muovere i fili, anche con gestualità e sguardo patafisici, di marionette al suo servizio, utili a inscenare la commedia (umana) dell’obbedienza e della subordinazione a un sistema, politico ed economico, che continua a persuadere. Lo fece, di già, nella prima edizione della Tempesta di Shakespeare, tutto sistemato da vate del sapere, posto in alto e agghindato con medaglie simboliche e magiche. Molto convincenti, in Ubu c’è, Michele Andrei, Fulvio Cauteruccio e Roberto Visconti, la felice sorpresa è stata Francesca Cipriani, proveniente dal laboratorio teatrale di Cauteruccio junior, perfettamente a suo agio sul palcoscenico. L’operazione di Giancarlo Cauteruccio è sommamente culturale, con Ubu, e varrebbe la pena discutere, parallelamente, di strategie di resistenza al dominio d’una insensatezza consumistica per cui l’individuo si vende, annullando la funzione critica e permettendo, col silenzio, la distruzione del suo ambiente, della sua storia, del suo pensiero, della sua libertà, della sua vita.

Emiliano Morrone

nichilismopuro@libero.it


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