Ci rubò l’esistenza
di Luis Sepulveda *
Sono chiuso in casa da tre settimane per terminare un romanzo, senz’altra compagnia se non quella del mio cane Zarko e del mare, felice tra i miei personaggi, ma dalle prime ore di domenica, ho cominciato a ricevere delle telefonate dei miei amici e amiche del Cile.
«Prepara i calici», mi dicono dal mio lontano paese. Ho pronta una bottiglia di Dom Perignon in frigorifero. È un riserva speciale e me la regalò a questo fine il mio caro amico Vittorio Gassman una sera a Trieste. «Spero che la berremo insieme», mi disse in quell’occasione e sarà così, perché a casa mia c’è un calice che porta inciso il suo nome.
Alla radio, una voce dice che il tiranno sta davvero male e che, a quanto pare, stavolta la Parca se lo porterà all’inferno degli indegni, anche se noi cileni non ci fidiamo mai delle repentine malattie che lo colpiscono ogni volta che deve affrontare la giustizia.
Vorrei essere in Cile tra i miei cari e condividere con loro la spumeggiante allegria di sapere che finalmente finisce l’odiosa presenza del vile che ha mutilato le nostre vite, che ci ha riempito di assenze e di cicatrici. Pinochet non solo ha tradito il legittimo governo guidato da Salvador Allende, ha tradito un modello di paese e una tradizione democratica che era il nostro orgoglio, ma in più ha tradito anche i suoi stessi compagni d’armi negando che gli ordini di assassinare, torturare e far scomparire migliaia di cileni li dava lui personalmente, giorno dopo giorno. E come se non bastasse, ha tradito i suoi seguaci della destra cilena rubando a dismisura e arricchendosi insieme al suo mafioso clan familiare.
L’ex dittatore paraguayano, Alfredo Stroessner, è morto poco tempo fa nel suo esilio brasiliano, pazzo come un cavallo, dichiarando persone non gradite in Paraguay cento persone al giorno i cui nomi estraeva dall’elenco del telefono di Sau Paulo. Pinochet, invece, muore simulando una follia che gli permette fino all’ultimo minuto di fare assegni e transazioni internazionali per nascondere la fortuna che ha rubato ai cileni. Muore amministrando il suo bottino di guerra con la complicità di una giustizia cilena sospettosamente lenta.
Smette di respirare un’aria che non gli appartiene, di abitare in un paese che non merita, tra cittadini che per lui non provano altro che schifo e disprezzo. Ma muore, e questo è quello che importa.
La sua immagine prepotente di "Capitán General Benemérito", titolo di ridicola magniloquenza che si autoconcesse, svanisce nella figura dell’anziano ladro che nasconde il suo ultimo furto tra i cuscini della sedia a rotelle. Ma muore, e questo è quello che importa.
Prima di tornare al mio romanzo, apro il frigorifero e palpo il freddo della bottiglia. Poi dispongo i calici con i nomi dei miei amici che non ci sono, dei miei fratelli che difesero La Moneda, di quelli che passarono nei labirinti dell’orrore e non parlarono, di quelli che crebbero nell’esilio, di quelli che fecero tutte le battaglie fino a sconfiggere il miserabile che ha gettato un’ombra sulla nostra vita per sedici anni ma non ci ha tolto la luce dei nostri diritti. Con tutti loro brinderò con gioia alla morte del tiranno. (traduzione di Luis E. Moriones)
* La Repubblica,04.12.2006, pp. 1/13
La sottile linea nera: dal golpe alla morte
I rapporti tra Pinochet e il Vaticano
di Agenzia ADISTA n. 89 del 23-12-2006 *
33677. SANTIAGO DEL CILE-ADISTA. È morto lo scorso 10 dicembre, all’età di 91 anni, Augusto Pinochet, capo del regime militare che governò il Cile dal 1973 al 1990: 17 anni di dittatura in cui si contarono, secondo le stime ufficiali, oltre 3mila desaparecidos, 30mila torturati e mezzo milione di esuli.
Nato a Valparaiso il 25 novembre 1915, Pinochet nel 1933 entrò nella Scuola Militare e trascorse il resto della sua vita nelle Forze armate: generale di brigata nel 1969, capo di Stato maggiore nel 1972 e comandante in capo dell’esercito dal 23 agosto 1973, nominato dal presidente, democraticamente eletto, Salvator Allende, lo stesso che Pinochet, 3 settimane dopo, l’11 settembre, avrebbe destituito con un cruento colpo di stato militare. Nel corso del golpe lo stesso Allende rimase ucciso nel bombardamento della Moneda, il palazzo presidenziale. Iniziò così una delle dittature più lunghe e violente dell’America Latina: dopo aver preso il potere con la forza, Pinochet nel 1974 si fece eleggere presidente della Repubblica (mandato che fu poi rinnovato nel 1981) e guidò il Paese per 17 anni, grazie anche al sostegno degli Usa e del mondo economico-finanziario - che ne sostenevano il programma neoliberista ispirato dai Chicago boys di Milton Friedman - e di pezzi consistenti della Chiesa cattolica.
L’amicizia di un ventennio
I rapporti di Pinochet con le gerarchie della Chiesa cattolica, almeno con una parte di esse, furono abbastanza conflittuali all’inizio - quando era arcivescovo di Santiago il card. Raul Silva Enriquez - e decisamente collaborativi poi, a partire dall’arrivo nella capitale cilena, nel 1977, di mons. Angelo Sodano come Nunzio apostolico (incarico che ricoprirà fino al 1988, per diventare poi Segretario di Stato vaticano, fino al settembre 2006) e dall’elezione al soglio pontificio, nel 1978, di Giovanni Paolo II.
Dopo qualche incertezza iniziale (v. Adista del 17/9 e dell’8/10 1973), il card. Silva Enriquez divenne uno dei più decisi oppositori del regime militare: diede vita, insieme alle altre confessioni cristiane, al “Comitato di cooperazione per la pace in Cile”, sciolto nel 1975 su ordine di Pinochet e sostituito dalla “Vicaria de la Solidaridad”, piccola struttura diocesana che garantiva assistenza sociale e legale alle vittime della dittaura. Con Silva Enriquez, l’arcidiocesi di Santiago si trasformò in un importante punto di riferimento per tutti gli oppositori di Pinochet: si faceva ‘controinformazione’ su quanto accadeva nel Paese, le famiglie potevano avere assistenza legale e notizie sui desaparecidos, si organizzavano le mense popolari e la distribuzione di generi alimentari per le borgate popolari della città.
Ma con l’arrivo di Sodano alla Nunziatura, nel 1977, le relazioni fra regime militare e Chiesa si fecero meno tese e proseguirono sulla via della pacificazione prima e della collaborazione poi: se la Chiesa di base continuò ad essere fortemente ostile, il nunzio preferì scegliere la via del dialogo, difendendo la Chiesa-istituzione più che l’incolumità delle vittime della dittatura e barcamenandosi fra qualche moderata protesta per singoli crimini del regime (come i sequestri di alcuni sacerdoti antipinochettisti o la richiesta di espatrio per i militanti del Mir che si erano rifugiati nel palazzo della Nunziatura) e inviti alla pacificazione. E lo aiutarono su questa via sia le dimissioni del card. Silva Enriquez per raggiunti limiti di età nel 1983 (sostituito dal più moderato mons. Juan Francisco Fresno Larrain) sia il primo messaggio pubblico di papa Wojtyla, sempre nel 1983 in occasione dell’arresto di preti antipinochetisti, che invitava a trovare le strade per una convivenza pacifica.
La stessa Moneda
La strategia della “distensione” di Sodano culminò
nell’aprile 1987 quando, anche con l’aiuto di diversi membri dell’Opus Dei che ricoprivano posizioni importanti nel governo cileno (come Francisco Javier Cuadra, segretario generale del governo), organizzò il viaggio di Giovanni Paolo II in Cile: una “visita pastorale” che si concluse con l’apparizione - ripresa da tutte le televisioni e i giornali del mondo - di papa Wojtyla e del dittatore Pinochet che, insieme, affacciati al balcone della Moneda, salutano e benedicono la folla. La calorosa legittimazione del regime pinochettista da parte del papa provocò dure reazioni, anche in una parte consistente del mondo cattolico, fortemente critico nei confronti della dittatura cilena e dell’alleanza militari-Chiesa (v. Adista nn. 29 e 30/87).
Subito dopo la partenza di Sodano - che si congedò dicendosi preoccupato per “l’attuale situazione del Paese, perché vedo che non vi è un profondo rispetto degli uni per gli altri” - nell’ottobre 1988 Pinochet fu sconfitto dal voto popolare nel referendum per conferire un nuovo mandato presidenziale al generale golpista. Le elezioni politiche si svolsero l’anno successivo e, l’11 marzo 1990, il generale lasciò la presidenza del Paese al suo successore Patricio Aylwin, conservando però sia la carica di Comandante in capo delle Forze armate sia quella di senatore a vita.
Benedizione apostolica
Perso il potere, tuttavia, il feeling fra l’ex dittatore e il Vaticano non si spezzò: il 18 febbraio 1993, giorno della sue “nozze d’oro”, Pinochet ricevette due affettuosi messaggi di auguri da parte del segretario di Stato vaticano Sodano, e di Giovanni Paolo II. “Al generale Augusto Pinochet Ugarte e alla sua distinta sposa, Signora Lucia Hiriarde Pinochet, in occasione delle loro nozze d’oro matrimoniali e come pegno di abbondanti grazie divine - scriveva il papa - con grande piacere impartisco, così come ai loro figli e nipoti, una benedizione apostolica speciale”. Ancora più caloroso il messaggio di Sodano in cui scrive di aver ricevuto dal pontefice “il compito di far pervenire a Sua Eccellenza e alla sua distinta sposa l’autografo pontificio qui accluso, come espressione di particolare benevolenza”; “Sua Santità - aggiunge - conserva il commosso ricordo del suo incontro con i membri della sua famiglia in occasione della sua straordinaria visita pastorale in Cile”. E conclude confermando all’ex dittatore “l’espressione della mia più alta e distinta considerazione” (v. Adista n. 48/93).
La Chiesa difende i diritti umani
E la coppia Wojtyla-Sodano non abbandonò il generale nemmeno cinque anni dopo, quando Pinochet venne arrestato, mentre si trovava in Gran Bretagna per motivi di salute, su mandato del giudice spagnolo Baltasar Garzon, che lo accusava di violazioni di diritti umani nei confronti di diversi cittadini spagnoli durante gli anni della dittatura: prima fecero pressioni sulla Camera dei Lords perché non venisse concessa l’estradizione in Spagna di Pinochet (v. Adista nn. 3 e 17/99), poi rassicurarono il nuovo presidente cileno, Eduardo Frei - durante la visita papale in Cile nel febbraio 2000 -, che il Vaticano si sarebbe impegnato a fondo per la liberazione di Pinochet; “è nostro desiderio - puntualizzò Sodano - e facciamo voti che questa odissea abbia termine
quanto prima”, perché l’ex dittatore “ha diritto di tornare nel suo Paese” (v. Adista n. 15/2000). Intanto in Cile, criticando il governo che si era costituito parte civile nel processo contro Pinochet avviato dal giudice Juan Guzman Tapia, i vescovi fecero un appello pubblico alla “riconciliazione e al perdono”, auspicando per il generale un rapido ritorno a casa che “gli renda più tollerabile il suo delicato stato di salute” (v. Adista n. 23/2000).
Pinochet è rientrato in Cile nel marzo 2002, e si è trovato ad affrontare vari processi per i crimini commessi durante gli anni della dittatura. Ma prima delle sentenze dei tribunali - anche per i numerosi rinvii ottenuti dai suoi avvocati per veri o presunti motivi di salute - è sopraggiunta la morte. (luca kocci)
* www.ildialogo.org, Lunedì, 18 dicembre 2006
IL RACCONTO. Pinochet è uscito dalla vita politica assai prima della sua scomparsa: anche la destra non lo piange
La fine solitaria del tiranno che è morto due volte
di ANTONIO SKÁRMETA *
QUAND’ERA al culmine del suo potere, Pinochet immaginava centinaia di cospirazioni ai suoi danni, organizzate dai "siñores politicos". Per qualche strana ragione, non si sa se dentale o stilistica, non riusciva a pronunciare correttamente la parola "señores". E per dimostrare la volontà dei "siñores politicos" di distruggere la libertà e l’ordine che sosteneva di rappresentare, in un celebre discorso pronunciato al Club conservatore de la Unión, si fece promotore di letture rivoluzionarie: "Bisogna leggere Lenin, "siñores"".
Leggere "Linin" per individuare con chiarezza le tattiche terroristiche dei suoi avversari. Non si sbagliava. Sono stati i "siñores politicos" cileni d’ogni tendenza - chi prima, chi con molto ritardo - a ridurre l’uomo forte a feticcio di una dozzina di anziane signore. Immagino che questo discorso dominerà la stampa di oggi: il dittatore Pinochet è morto politicamente assai prima della sua morte fisica. Per usare un’immagine cara al folclore cileno, la pannocchia si è sgranata un po’ alla volta. Alla fine i suoi alleati sono rimasti in pochi come i denti nella sua bocca. È stata questa la sua sconfitta. Quando, nel 1989, la democrazia fu restituita al Cile, chi prima lo aveva appoggiato prese le distanze da lui per rendersi compatibile con le nuove regole del gioco.
Fin dal plebiscito che nel 1988 lo aveva estromesso dal governo, gli votò contro lo stesso Sebastián Piñera, noto imprenditore di destra. Ma la novità di quest’anno è che oramai, sia pure tardivamente, persino Joaquín Lavín, il leader più conservatore della destra, ha preso le distanze dal generale. Avendo perso le elezioni presidenziali del 2000 contro il socialista Ricardo Lagos col 48% dei voti, Lavín spera ancora di riuscire a convogliare forze sufficienti per farsi eleggere alla presidenza; e quindi ha ritenuto di prescriversi una forte dose di despinochetización.
Non a torto, una compunta signora, fedele al generale, si è presentata davanti all’ospedale dove il suo idolo stava agonizzando con in mano un piccolo cartello confezionato alla buona, con la seguente accusa: Derecha dormida, Pinochet te salvó la vida (destra addormentata, Pinochet ti ha salvato la vita).
Oltre ai suoi familiari, e a questa stoica signora che col suo cartellino in mano ha sopportato i 32 gradi della primavera cilena, non c’è nessuno a piangere per Pinochet. È giusto allora dire che il generale è morto molto prima di morire? Un fatto però è certo: quel cartellino non è la sola cosa che resta di lui in Cile.
Con lo stile della sua ritirata, Pinochet è stato determinante per il carattere attuale, praticamente di "unità nazionale", del governo cileno. A parte alcune questioni legate ai "valori", quali l’aborto, l’eutanasia o la pillola contraccettiva, su tutti gli altri temi regna tra governo e opposizione un consenso di base, soprattutto in campo economico. Sia i presidenti socialisti sia i democratici che li hanno preceduti hanno incassato le ovazioni degli imprenditori.
L’uomo si è ritirato a piccoli passi. Quando il popolo lo ha respinto col plebiscito del 1988, si è riservato il titolo di Comandante in capo delle forze armate. Quando ha concluso il suo mandato militare, conferitogli da una Costituzione da lui stesso confezionata su misura, si è fatto nominare senatore a vita della Repubblica. Quel seggio, lo occuperebbe ancora oggi se non avesse avuto l’idea peregrina di recarsi a Londra, dove una disposizione tempestiva del giudice spagnolo Garzón lo trattenne per le sue reiterate violazioni dei diritti umani.
Il mondo applaudì con giubilo. Alla fine un dittatore del calibro di Pinochet, il cui regime si era reso responsabile di innumerevoli sparizioni, torture, fucilazioni indiscriminate e arbitrarie e decine di migliaia di licenziamenti, costringendo all’esilio centinaia di migliaia di cileni, sarebbe stato giudicato lontano dalla protezione dei suoi camerati. Ma la gioia fu di breve durata. Lo stesso governo democratico cileno intraprese passi ufficiosi nei confronti delle autorità britanniche per ottenere che quell’anziano "malato, moribondo", fosse rimpatriato per essere giudicato in Cile.
Quando mise piede sul territorio nazionale, all’aeroporto di Santiago, accolto con squilli marziali dai suoi compagni d’arme, si sollevò come Lazzaro dalla sua carrozzella per andare ad abbracciare il suo successore, il Comandante in Capo di Santiago. Un giornale ironizzò sull’evento con un titolo geniale, richiamandosi a un celebre film con Sean Penn, Dead man walking (Il morto che cammina).
Fu poi effettivamente chiamato a rispondere di vari reati, per alcuni dei quali i processi sono tuttora in corso. Ma alle condanne seguivano le assoluzioni. Frattanto i cileni ancora restii a riconoscere le sue malefatte dovettero convincersi che Pinochet era stato un baluardo contro i comunisti, ma non contro la corruzione. Oltre alle atroci violazioni commesse contro i diritti umani, fu portata a conoscenza dell’opinione pubblica anche una serie di conti segreti che dimostravano il suo coinvolgimento in episodi di corruzione.
Il dittatore ebbe allora la buona idea di assentarsi dalle sessioni del Senato. Ma se alla lunga alcuni dei suoi seguaci sono finiti in carcere, Pinochet in persona non è mai stato dietro le sbarre.
Diciamolo chiaramente: la democrazia non ha mai avuto la forza di mettere Pinochet sotto chiave. Anzi, diciamolo anche più chiaramente: la democrazia cilena non ha mai voluto incarcerarlo. Quest’ambiguità è forse la più sublime strategia di consolidamento di un’unità nazionale che spiega la tanto celebrata stabilità e il benessere del Cile di oggi.
Oggi è morto Pinochet: un uomo che ha distrutto la vita di molte famiglie cilene: il suo brutale golpe fu una risposta sproporzionata ai problemi, pure reali, della società del 1973. La sua eredità è dunque più poderosa, e più sottile di quanto recita il piccolo cartello dell’anziana solitaria davanti all’ospedale. Una cosa è certa: Pinochet è finito solo, perdendo la sua battaglia. In questo senso i "siñores politicos" hanno fatto un ottimo lavoro - che abbiano o meno letto "Linin". E tuttavia, la sua fuga finale da una giustizia che non abbiamo potuto o voluto fare ci coinvolge nella sconfitta, e nella tristezza.
Nel Giulio Cesare, davanti al cadavere dell’imperatore, Marco Antonio sentenzia nel suo discorso funebre: "Il male fatto dagli uomini sopravvive alla loro morte, il bene che hanno fatto viene sepolto con le loro ossa". Seppelliamo Cesare.
(Traduzione di Elisabetta Horvat)
* la Repubblica, 11 dicembre 2006
Salito al potere con il cruento colpo di Stato del 1973, ha guidato il Cile per 17 anni segnati da crimini, torture e dal dramma dei "desaparecidos"
Ascesa e caduta di un dittatore che segnò la storia dell’America Latina *
ROMA - L’ex dittatore cileno Augusto Pinochet è morto in ospedale dove era stato ricoverato in seguito ad un infarto. Aveva compiuto da una settimana 91 anni, gli ultimi otto dei quali trascorsi nella sua lussuosa villa di Santiago ma inseguito da problemi di salute e dalla giustizia cilena - e non solo cilena - per le atrocità commesse durante il regime militare di destra da lui presieduto dal 1973 al 1990.
Nato a Valparaiso il 25 novembre 1915, entrò nel 1933 nella Scuola Militare. Sposatosi nel 1943 con Lucia Hiriart Rodriguez, padre di cinque figli, Pinochet fu nominato al vertice dell’esercito 20 giorni prima del golpe, proprio da quel presidente Salvador Allende che lo considerava "un militare tutto d’un pezzo"
L’11 settembre 1973 tradì la fiducia del legittimo presidente e lo destituì con un cruento colpo di Stato nel quale lo stesso Allende rimase ucciso. Lo stadio nazionale fu trasformato in lager, si scatenarono le violenze e le torture della terribile polizia politica, e ci furono circa 2.000 "desaparecidos".
Pinochet riuscì a imporsi nel 1974 come presidente, carica alla quale fu riconfermato nel 1981 per un secondo mandato di otto anni con l’appoggio di molti uomini d’affari, che ne sostenevano il programma economico neoliberista.
Il suo allontanamento dalla presidenza cilena coincise, nel 1988, con un referendum popolare che lui era sicuro di vincere ma che invece lo tradì: riscosse solo un 42% di sì. Rimase al potere fino al marzo 1990, quando lasciò il palazzo presidenziale della Moneda, restando però al comando dell’ esercito fino al 1998 e mantenendo la carica di senatore a vita.
Nel 1998 cominciano anche i suoi guai giudiziari e viene arrestato a Londra su mandato di cattura del giudice spagnolo Baltazar Garzon per i crimini commessi durante la dittatura.
Rilasciato per motivi di salute nel 2000, rientra in patria, ma il Congresso cileno gli revoca l’immunità parlamentare. Nel 2002 Pinochet rinuncia alla carica di senatore a vita e nel 2004 la Corte di Santiago gli revoca anche l’immunità di cui gode in quanto ex presidente. Nel 2004 comincia il suo processo per il Piano Condor, il progetto della giunta militare di eliminazione degli oppositori politici.
Lo scorso novembre, infine, Pinochet è stato assegnato agli arresti domiciliari nel quadro di un’altra inchiesta sugli orrori della dittatura: quella sulla Carovana della Morte, uno squadrone della morte che girava il Paese facendo sparire gli oppositori.
*la Repubblica, 10 dicembre 2006
Storia del generale sanguinario
di Maurizio Chierici *
Non se ne è andato l’ultimo generale dagli occhiali neri, maschera che ha accompagnato ogni dittatura militare. Pinochet era l’alta uniforme che ha sperimentato le nuove armi del liberismo trasformando il Cile nella cavia dei Chigago’s Boys, quella dottrina di Friedmann, venerato premio Nobel appena scomparso. Ha sgretolato l’America Latina. Libertà di impresa per imprese privilegiate e povertà per il resto della popolazione, gabbia della quale la democrazia di Santiago non si è ancora liberata. Solo la mano militare poteva imporre le trasformazioni che hanno impoverito i deboli, costringendoli a una migrazione non solo politica, spesso economica: due paure che si mescolavano. Sindacati sciolti, porte aperte alle importazioni straniere, disinteresse dello stato per problemi assistenziali e sociali. Una sera 1980, la tv annuncia che le pensioni vengono abolite: ogni lavoratore deve arrangiarsi da solo. Nessuna obiezione. Proibito discuterne. Il laboratorio prospera nel sigillo militare lungo 17 anni, respiro necessario all’imposizione forzata che è mancata ad Argentina, Uruguay, perfino al Brasile. I militari sono caduti prima, ecco la spiegazione delle economie precipitate e risorte mentre il Cile sperimentava il liberismo nel quadro ideale della dittatura.
L’immagine corrente di Pinochet è un’altra: tremila vittime nei giorni del golpe, torture e sparizioni senza una tomba, corpi trafugati nelle miniere abbandonate nel deserto, e libri di scuola che nascondono perfino il nome di Allende fino a quando il presidente Lagos ordina di riscriverli per precisare la storia. Trent’anni dopo, una generazione cresciuta al buio. La paura solo adesso comincia a svanire.
La vita di Pinochet è la vita di un militare che obbedisce e vuole essere obbedito, non importa la morale dell’ordine che dà o riceve. Nato a Valparaiso comincia la carriera quand’è ragazzo attraversando gerarchie burocratizzate, chiuse in caste imperforabili. Ma la fortuna un giorno lo bacia in fronte. Nel 1946 Gabriel Gonzales Videla vince le elezioni col voto di radicali, socialisti e comunisti. Washington se ne preoccupa o lo invita ad un colloquio. Non solo per il rame della multinazionale Itt che sfrutta la più importante miniera del mondo, ma per il timore che la striscia di un paese lungo quattromila chilometri possa contaminare con la sua febbre maligna, Bolivia, Perù e l’Argentina di Peron. Videla torna da Washington ed è un altro uomo. Fuori legge i comunisti, abbandona i socialisti per legarsi ai conservatori intransigenti delle grandi proprietà. Ribellioni, scontri, esercito che spara. Tanti arresti, le prigioni non bastano, ecco l’idea di creare un campo di concentramento, tre mila chilometri a nord di Santiago, nel deserto sabbia e sale di Atacama. Pisagua era un villaggio fuori dal mondo: pochi pescatori. Deve diventare un lager. A sorvegliare i lavori è comandato il capitano Augusto Pinochet: 1947. Si comporta talmente bene che la carriera ha un soprassalto. Viene ammesso all’Accademia di Guerra, lasciando il reggimento Carampangue di Iquitos, città sul bordo del deserto e non ancora la città di vacanza dove oggi la famiglia Pinochet possiede gli ultimi quattro piani di un grattacielino sul mare.
La sua ascesa culmina nell’abbaglio del presidente Allende, estate 1973, storia conosciuta. «La carovana della morte», ultimo libro di Patricia Verdugo pubblicato in Italia da Feltrinelli, non solo racconta la serenità con la quale organizza i delitti, ma è anche la testimonianza che aiuta il giudice spagnolo Garzon a far arrestare Pinochet a Londra. Insomma, il burocrate che insegna guerre virtuali nei cortili delle accademie, diventa primo attore per l’innocenza di Allende e del generale Pratts, comandante delle forze armate. Pratts non piace alla Washington di Kissinger: troppo ligio alla costituzione, avrebbe impedito la rivolta contro Allende, presidente eletto. Il quale Allende fino alle ultime ore considera Pinochet ufficiale leale, riservato come è giusto sia, freddino ma corretto. Gli annuncia quali mosse ha in mente per frenare la disobbedienza militare. Un discorso alla nazione. Può contare sui suoi suggerimenti? A disposizione, risponde Pinochet già coinvolto nel golpe. Walker, capo della Cia per l’America Latina, a Santiago da settimane per pianificare l’operazione resta contrariato dalla scelta: «Presuntuoso, stupido, inconcludente», ricorda nel libro di memorie. Pinochet non gli piace, ma la promozione di Allende gli ha regalato la poltrona chiave nella trama della ribellione. E Pinochet non delude. Costringe alla morte Allende e assassina il benefattore Pratts in Argentina, assieme alla moglie.
Ma è la grettezza del Pinochet privato a far capire la pasta dell’uomo. Non solo i conti segreti della Banca Riggs, o il quintale di lingotti d’oro sepolti nei forzieri di Hong Kong. Nel 1984, Moniga Madariaga, scrittrice di terza fila la cui opera magna é la biografa di sua eccellenza, viene promossa ambasciatrice alle Nazioni Unite. Festa di benvenuta a New York, tanti complimenti. Le si avvicina una giovane signora accompagnata dal marito che è un funzionario americano. «Splendida collana, ambasciatrice: sei smeraldi, otto rubini, dieci diamanti abbracciano il fermaglio dietro al quale è fissata un’acqua marina». «È il regalo di buon augurio del presidente. Me l’ha consegnata di persona prima della partenza da Santiago. Gentiluomo d’altri tempi». Ma la precisione del complimento incuriosisce Monica Madariaga: «Cara signora, lei é un’osservatrice formidabile. In due secondi ha visto le pietre che non si vedono. Come fa?». «Conosco molto bene la collana. Quand’ero bambina la mettevo per gioco. Apparteneva a mia madre. L’hanno rubata gli ufficiali dei servizi segreti, quella Dina agli ordini del generale Pinochet che portato via la mamma. Non è più tornata. E mi sono commossa rivedendo il collier, dopo tanto tempo».
Ho incontrato Pinochet due volte, ma senza la possibilità di rivolgerli domande. La prima il 12 settembre 1993. Festeggiava nel cortile della scuola militare O’Higgins, il ventesimo anniversario del «sacrificio dei valorosi che si erano immolati per liberare la patria del comunismo». Caduti mentre soffiavano nel golpe, insomma. Avrebbe voluto far coincidere la celebrazione con l’incendio della Moneda e la morte di Allende, ma il consiglio dell’ambasciatore americano gli fa cambiare idea. E anticipa di un giorno. Quel 12 mattina i giornalisti stranieri vengono sistemati a ridosso della tribunetta dove il generale e la moglie seguono i volteggi degli allievi in parata. Il generale dalla giacca bianca e ben decorata ogni tanto si appisola dietro gli occhiali scuri. È più vecchio di come le foto autorizzate lo presentano sui giornali. Al momento del discorso confonde le parole, perde i fogli. La voce di vetro si attenua fino a diventare brontolio che il microfono non coglie. Guida l’esercito più forte e più costoso dell’America Latina ed è il generale più anziano del mondo. Povero vecchio che sputa saliva ad ogni parola. Il dubbio del momento è se la sua carcassa possa suscitare pietà per l’uomo che ha inventato la paura in un paese un po’ noioso, e, prima del suo regno, civile come un angolo di Danimarca. Poi il generale lascia il comando delle forze armate la cui potenza condizionava Alwin, primo presidente della democrazia. Diventa senatore grazie alle leggi che si è scritto in previsione della vecchiaia. Altre leggi hanno cancellato con l’amnistia ogni delitto. Tutti immacolati. Ma poi arriva Garzon.
Nel «testamento» dettato nel 2004 (intervista a TeleMarti. Televisione del Dipartimento di Stato, sede Miami) Pinochet si costruisce un monumento. Pedagogia degli oppressori sensibili all’intrallazzo che nei tropici prevede il delitto. Eliminare comunisti e socialisti può essere considerato un crimine? Nel 1973 erano le forze del male. Se fossero sparite prima, chissà quanti Pinochet disoccupati e senza fortuna. L’età lo autorizza ai ricordi nell’ultima intervista: «L’ho ripetuto tante volte ai cileni: se i militari non fossero intervenuti, i comunisti di Allende avrebbero impedito alla gente di respirare. La guerra fredda in America l’ho vinta io...». Libertador - liberista: «Non voglio che le future generazioni pensino male di me e desidero sappiamo realmente come ho tenuto fede agli impegni nella convinzione che liberismo e democrazia siano principi irrinunciabili». Chi non era d’accordo diventava il comunista da perseguitare anche se cattolico o senza idee. Comunista Garzon per averlo costretto alla prigione rosa di Londra. 503 giorni di un esilio consolato da amici in pellegrinaggio nella bella casa di campagna dove la signora Thatcher andava a bere il tè. «Garzon cercava solo onori e carriera». Comunista il magistrato cileno Guzman: ha osato rompere il patto di mutuo soccorso, che unisce i gentiluomini, per raccogliere le testimonianze dei torturati e dei figli delle vittime, pretendendo dalla Corte Suprema il sacrilegio del rinvio a giudizio. Perché lo ha fatto? Sbigottimento della famiglia Pinochet. Continuano le ultime parole pubbliche del generale: «il mio successo internazionale ha riscattato l’immagine opaca dei precedenti governi». Per fortuna il «teorema di Guzman si è scontrato con le verità della storia ed è stato sbriciolato». Povero pensionato costretto ad affrontare le torture della magistratura politicizzata. «Accuse che considero oltraggiose. Subisco un calvario a mezzo stampa che tutto imbroglia e tutto confonde. Ho combattuto la prospettiva di una rovina personale con le risorse degli affetti che mi circondano e di un carattere che è forte sebbene non impermeabile al male di vivere...Ho preso atto del fiorire della calunnia, fiore velenoso. Ho opposto alle infamie, la solidarietà delle persone che mi vogliono bene e la dignità della mia coscienza».
Dalla prigione di Londra e dalla libertà di chi invecchia fra i cavilli degli avvocati nella residenza di Santiago del Cile, il generale ha sempre ripetuto di non potersi pentire per aver difeso la patria. Per fortuna tutte le toghe delle corti supreme gli dovevano qualcosa e hanno bloccato Guzman e gli altri riconoscendo al generale la «demenza senile». Finale triste, quasi un ergastolo psicologico che infanga l a dignità militare: Se vogliamo stemperato dalla presenza di Pinochet ad ogni festa importante fino a quando l’età non l’ha raggiunto. Gli ultimi miei incontri nel novembre 2004: inaugurazione autosalone Mercedes, inaugurazione nuovo supermercato a Los Condes. Brindisi alle signore con whisky di malto. Il generale racconta, le ingioiellate sorridono. Che bravo, che spiritoso. «Si sta avvicinando la fine dei miei giorni», ripete a TeleMartì. «Lascio un paese prospero e felice. Continuano le persecuzioni ed io continuo a rispondere che m’assumo ogni responsabilità politica per le decisioni prese. Vorrei incontrare i familiari di chi viene considerato vittima per spiegare con amore ed onore perché non sento il bisogno di domandare perdono a nessuno». Legge ad alta voce questo biglietto davanti al cancello del giardino l’avvocato Hermogénes Pérez de Arce. Occhi umidi delle duecento persone arrivate per gli auguri del compleanno numero 89. L’avvocato aggiunge due parole: «Cara Eccellenza, mi permetta di dirle che siamo noi a chiederle perdono per l’ingratitudine dei cileni». Dalla veranda, in carrozzella, Pinochet risponde agitando la mano nell’ultimo saluto.
La sua scomparsa ripropone problemi da mesi in discussione. La presidente Bachelet torturata a villa Grimaldi non concede il funerale di stato, ultimo capriccio di un signor viziato dall’obbedienza strisciante dei sottoposti. Non seguirà la sua bara una sola divisa, nessuna fanfara che suoni l’amata Lili Marlen: solo i fantasmi della riserva in una cerimonia quasi familiare. Forse verrà sepolto fra gli alti ufficiali oppure «in una tomba qualsiasi» del cimitero centrale dove riposano Salvador Allende e Beatriz, figlia suicida a Cuba. Non sopportava il dolore per il padre perduto così.
* l’Unità, Pubblicato il: 11.12.06 Modificato il: 11.12.06 alle ore 9.58
C’è poco di che essere felici
di Giovanni Sarubbi *
Giovanni Paolo II con Pinochet *
La morte di Pinochet ha scatenato in queste ore in Cile opposte reazioni su cui occorre riflettere. Da un lato manifestazioni di cordoglio fra i sostenitori del dittatore cileno che ha commesso orrendi crimini contro il suo popolo, dall’altro manifestazioni di gioia per la sua morte che si sono poi trasformate in scontri con la polizia. La televisione ci ha poi fatto vedere le immagini di un cardinale, il vescovo di Santiago e primate del Cile, che benediceva la salma di Pinochet. Prima ancora che vedessimo queste immagini ci erano venute alla mente le foto (che riproduciamo) dell’incontro caloroso fra Giovanni Paolo II e Pinochet, quando questi era al potere in Cile, e dei ripetuti messaggi e benedizioni elargiti nei suoi confronti non da un prete qualunque ma da colui che si dichiara “vicario di Cristo” in terra.
C’è poco di che essere felici e sinceramente non comprendiamo come si possa festeggiare la morte di Pinochet. Non lo comprendiamo perché il sistema di potere violento ed oppressivo incarnato per trent’anni da Pinochet è tuttora vivo e vegeto, non solo in Cile e non solo in Sud America. E’ morto Pinochet ma non ciò che lui ha incarnato, come dimostrano gli scontri di piazza che in queste ore si susseguono in Cile e la lunga fila di suoi sostenitori che vanno a rendergli omaggio. Ed è tuttora in piedi quella commistione perversa fra gerarchie vaticane ed i peggiori sistemi oppressivi che via via si sono avvicendati alla guida degli stati in giro per il mondo ed in particolare in Sud America. Bastava un prete, ci ha fatto notare un amico, per benedire la salma di Pinochet. Se si è inviato un cardinale si è compiuta una scelta politica precisa, si è voluta affermare una scelta di campo, schierandosi dalla parte di chi ha messo in atto e ha intenzione di continuare a mettere in atto azioni violente nei confronti dei poveri, per mantenere intatto il proprio potere politico, economico, militare oppressivo e liberticida. Fino a quando non capiremo che dobbiamo gioire per la vita, non riusciremo a sconfiggere la morte che i vari dittatori di turno incarnano.
Solo la nonviolenza potrà porre fine alla violenza. Solo il bene potrà sconfiggere il male e concretizzare un mondo senza più sfruttati e sfruttatori, dove ci sarà cibo e vita per tutti e dove nessuno subirà violenza a motivo delle sue idee, del suo colore della pelle, del suo sesso, della sua religione.
Giovanni Paolo II con Pinochet con una vignetta dove alla madri dei desaparecidos viene detto: "Un po’ di pazienza, stiamo già preparando le pratiche: nel prossimo anno santo i vostri desaparecidos saranno beatificati". *
Sostenitori di Pinochet*
* www.ildialogo.org/editoriali, Martedì, 12 dicembre 2006