Cipputi, il giorno della rivincita
di PAOLO BARONI *
ROMA Scomparsi dalla scena sociale e mediatica? Magari proprio no, ma gli Anni 70 sono lontani. Niente più mega-fabbriche e grandi scioperi di massa, niente più operai-modello o piazze stracolme che urlano «E’ ora, è ora di cambiare: la classe operaia deve governare». Via dai tg e dall’immaginario collettivo almeno fino a poche settimane fa, quando i fischi di Mirafiori contro i leader sindacali (e le successive dichiarazioni del presidente della CameraBertinotti) hanno confermato a tutti che il nostro Cipputi sarà anche malridotto, a causa di salari in caduta libera e condizioni di lavoro sempre più difficili, ma è vivo. E non si da per vinto.
«Non è un caso che alla Fiat ci sia stata quella protesta - spiega oggi il segretario Fiom Rinaldini -. La gente è proprio incazzata: le condizioni di lavoro sono peggiori e dal punto di vista retributivo c’è una perdita netta del potere d’acquisto». Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, nel suo discorso di fine anno, ha puntato il dito contro le «condizioni pesanti» e i «salari inadeguati» degli operai dell’industria e contro i troppi incidenti sul lavoro suscitando commenti positivi dai sindacati e da tutta la sinistra: «Il capo dello Stato ha colto nel segno».
Salari al palo
In media un operaio dell’industria guadagna all’incirca 1.000-1.100 euro al mese. E per arrivare a quota 1300, come ricorda spesso il ministro del Lavoro Cesare Damiano, deve farsi 35 anni di turni alla catena di montaggio. Del resto, come conferma una un’indagine Ires-Cgil, la media dei salari netti dei lavoratori dipendenti in Italia è pari a 1.109 euro, che scendono però a 960 nel Mezzogiorno e addirittura a 788 per i giovani sotto i 24 anni. Ben il 68,6% degli intervistati guadagna meno di 1300 euro al mese ed il 35% sta sotto quota mille (il 49% tra le donne).
I lavoratori dell’industria, 6,9 milioni (5,4 uomini) su 22,5 milioni di occupati, non si discostano molto da queste medie. «Dagli Anni 80 ad oggi - ricorda il segretario Fiom - l’incidenza sul Pil delle risorse destinate al lavoro è calata del 10%, cosa che non ha eguali nei Paesi simili al nostro». E di pari passo è aumentata anche la forbice tra operai e dirigenti. I primi bloccati sotto il tetto dell’inflazione programmata, i secondi premiati con ricchissime stock options.
Sulla condizione operaia l’economista Giuseppe Berta invita però a non generalizzare: «Un conto è parlare di grandi imprese, o ancora meglio, di medie imprese dinamiche e di distretti, ed un altro discorso è parlare di piccole imprese: la situazione in Italia è molto disomogenea». E quindi, citando un recente saggio di Mauro Magatti e Mario de Benedittiis («I nuovi ceti popolari. Chi ha preso il posto della classe operaia?») pubblicato da Feltrinelli, spiega che l’operaio medio italiano non è scomparso, ma negli anni è progressivamente rifluito verso gli strati bassi della società, dove oltre reddito scarseggia anche il livello di istruzione. Colpa della flessibilità e della terziarizzazione, sostengono in molti.
La nuova geografia
«Gli operai sono ancora tanti, ma distribuiti in modo diverso spiega Rinaldini. A guidare la classifica degli occupati c’è sempre la Lombardia (1.618.000), mentre il Piemonte in affanno ha dovuto cedere il passo a Veneto ed Emilia Romagna. E’ cambiata la geografia dell’industria e l’articolazione di tanti settori: molte attività, come la logistica, sono emigrate verso il terziario e dopo la chimica sono scomparse anche elettronica e telecomunicazioni.
«Un tempo la classe operaia era vista come un momento quasi messianico, in grado di cambiare la società - spiega Salvatore Buglio ex operaio poi deputato -. Io ricordo di essere partito dalla Sicilia per essere assunto dalla Fiat e quando arrivai a Torino mi si aprirono quasi le porte del Paradiso». Oggi non è più così: «E’ venuta meno la missione. La mitica classe operaia è stata messa in disparte, si è seduta in panchina, ed ha perso potere contrattuale. E’ sparita la fabbrica-comunità e il lavoro si è polverizzato». E anche Cipputi ha finito per perdere la bussola.
* La Stampa, 02.01.2007 (7:48)
Il capo dello Stato invia un video messaggio alla conferenza in corso a Napoli. Stigmatizzata la mancanza di garanzie per i lavoratori
Napolitano contro il precariato "Causa principale delle morti bianche"
"Non bastano più le denunce indignate. Occorrono misure efficaci" *
ROMA - La precarietà e la mancanza di garanzie dei lavoratori "sono in effetti le cause principali dell’abnorme frequenza e gravità degli incidenti, anche mortali, sul lavoro". Lo dice il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano in un video-messaggio inviato alla seconda Conferenza Nazionale su Salute e sicurezza sul lavoro, che si è aperta oggi a Napoli.
Nel messaggio il presidente punta l’indice sul lavoro nero ("così diffuso nel Mezzogiorno"), minorile e degli immigrati. Proprio ieri l’Anmil aveva fornito i dati dei primi 9 mesi dell’anno: 1141 vittime di incidenti mortali e sempre grave la casistica delle malattie professionali con altre centinaia di decessi, molti riconducibili all’amianto.
"Non ci si può limitare alla denuncia commossa e indignata", aggiunge Napolitano sollecitando ad "adottare misure realmente efficaci": quelle previste nel cosiddetto "pacchetto sicurezza" inserito nel Decreto per il rilancio economico, approvato lo scorso luglio, e quelle del Testo unico sulla salute e sulla sicurezza del lavoro e del nuovo Codice degli appalti. "Spero che vedano presto la luce", auspica constatando la "fruttuosa collaborazione fra maggioranza e opposizione" che si è delineata su questi temi e ha portato all’istituzione della commissione parlamentare d’inchiesta sugli infortuni.
Altrettanto importanti sono però, sottolinea il capo dello Stato, "i controlli da compiere sistematicamente sull’osservanza delle leggi e di tutte le misure di garanzia".
In questo campo, fa osservare, non siamo all’anno zero: "in questi mesi si sono dati dei buoni esempi, e si è deciso anche un primo adeguamento delle risorse di personale necessarie per i controlli".
Napolitano ritiene di rivolgere un appello anche alla società civile e ai giornali: "si elevi il livello di attenzione, anche sui mezzi di informazione, per questi fatti e e questi problemi, si elevi il livello di comune sensibilità sociale e civile".
L’intervento del capo dello Stato non giunge inatteso. Come ricorda egli stesso nel messaggio, fin dal giorno del suo insediamento ha invitato a guardare con più attenzione "al valore del lavoro, come base della Repubblica democratica", e a fare di più per tutelare la sicurezza sui posti di lavoro. Le morti e gli incidenti sul lavoro, conclude, costituiscono "una piaga", ma questo "non è un prezzo inevitabile da pagare, come in qualsiasi altro grande Paese con milioni di occupati".
* la Repubblica, 25-01-2007.