SVOLTA USA. Riprendere il cammino della liberazione, insieme .... Yes, We can.

OBAMA BARACK. La sua filosofia consiste nel dire, anche se sgradevole, la verità - di Barbara Spinelli

domenica 10 febbraio 2008.
 
[...] Cosa significa quando Obama scandisce: yes we can - uno slogan che ha ammaliato i blog e, in Italia, Veltroni? Vuol dire che la politica si fa trascendendo le divisioni di razza, di genere e di schieramenti, ma non significa la cancellazione di differenze. Significa che il futuro, di nuovo centrale dopo un’era dominata dall’istante brevissimo, esige che ciascuno ripensi il domani senza inibizioni. Significa che si può riaprire alla speranza, e che la politica in quanto tale deve rioccupare lo spazio da cui per decenni è stata scacciata: non sono le lobby né gli imprenditori a dettare le strategie di governo, Obama su questo è intransigente. Così come non sono i sondaggi di popolarità. Chi fa propri i suoi slogan fa bene a saperlo: Obama non vuol piacere, anche se piace molto. Non vuol abolire l’alternanza, e se vuol conciliare destra e sinistra è perché ritiene ambedue inadatte. Nelle primarie ha detto cose impopolari, e la sua filosofia consiste nel dire, anche se sgradevole, la verità [...]

IL MOMENTO AMERICANO

Le verità scomode di Obama

di BARBARA SPINELLI (La Stampa, 10/2/2008)

Chi conosce la serie televisiva 24, mostrata dopo l’11 settembre in America, non considererà anormale quel che forse accadrà in novembre, quando sarà eletto il successore di Bush: un Presidente nero alla Casa Bianca, una finestra che si apre nella storia americana e del mondo. Oppure un Presidente donna, se sarà Hillary Clinton a vincere: anche questo accade, nel settimo ciclo di 24. Può darsi che simili prospettive impauriscano, e che gli elettori si rifugino infine nel sicuro, nello stabile: McCain è abbastanza indipendente, abbastanza estraneo all’esperienza Bush, da poter raccogliere consensi inattesi.

Tuttavia è così infiammata la sete di cambiamento, che tante fantasticherie diventano possibili. Dice la scrittrice Toni Morrison (Nobel della letteratura nel ’93) che questo è un momento americano molto singolare: chi lo ignorerà, lo farà a suo rischio e pericolo. Tuttavia non è qui la vera singolarità del momento americano. Non è l’approdo d’un cammino diritto che dal Sessantotto conduce all’oggi, concedendo finalmente i diritti all’affermazione distinta di generi e razze, di donne e neri.

Chi più incarna il nuovo nell’America odierna è Barack Obama, candidato democratico nero, e Obama non è semplicemente nipote del ’68 e dei diritti. Se è diventato un fenomeno, se accende una mania, se scompagina gli animi e tanti luoghi comuni, è perché rappresenta qualcosa di diverso da quel che conosciamo, Sessantotto compreso. La stessa Morrison, decidendo di sostenerlo in una lettera dello scorso gennaio, annuncia che non lo voterà in quanto nero. Fin dal ’98, d’altronde, la scrittrice sostiene che già c’è stato un Presidente nero: Clinton. Medesima è l’estrazione sociale, medesimo l’amore del sassofono e dei cibi junk, alla McDonald’s. Non sono la razza né il genere a secernere il Momento che elettrizza. Obama è figlio dell’11 settembre più che del ’68, e del declino americano succeduto a quel trauma. È figlio di un’America inferma, ed è il tentativo di rimediare all’infermità con parole che riempiano un vuoto sentito da tanti. Non sono in gioco i diritti di categorie. Qui si sta seppellendo il sogno inane dell’impero stile Bush con quello che l’ha accompagnato: l’insolenza violenta, l’incompetente e militante ignoranza, il messianesimo pseudoreligioso, la lotta al terrore vissuta come scontro, fallito, di civiltà.

Obama forse scomparirà, ma nel frattempo avrà lasciato una traccia profonda nella cultura americana. Nessun Presidente, nemmeno McCain, potrà fare come se non fosse esistito: con il suo messaggio di cambiamento, sulla fine della politica della paura e il futuro da riconquistare. Obama è anche il primo politico che non si limita ad ammodernare la propria tribù politica. D’un tratto le terze vie s’accartocciano come secche foglie, disperse da un soffio che annuncia ben altre mutazioni: mutazione del modo d’intendere la politica, la speranza, il domani. Obama è un candidato che scompiglia logore linee di divisione fra destra e sinistra. Colin Powell, ad esempio, ancora non si decide. Tutti trovano naturale che un conservatore possa scegliere Obama senza tradirsi, e non solo a causa del colore della pelle.

Questa speranza di futuro, Obama l’ha svegliata non solo fra i Neri, come in passato altri afro-americani. Ha trascinato i bianchi, e una straordinaria quantità di americani - soprattutto giovani - che solitamente s’astengono. Scrive lo storico David Greenberg (Washington Post, 13-1) che sulla sua figura s’addensa in primo luogo una speranza bianca: sono i bianchi a sognare una storia diversa, una sua redenzione in qualche modo, che corregga la terribile verità di una guerra civile combattuta nel seconda metà dell’800 per liberare i neri dalla schiavitù, e terminata con più di un milione di morti e il tradimento dell’originaria promessa: con i neri dotati ormai di diritti ma tuttora svantaggiati.

Ci sono nella storia questi momenti assetati di redenzione, come nella trilogia nei Sonnambuli in Hermann Broch. Questo è Obama ed è il motivo per cui il ’68 non spiega tutto. Non a caso il candidato, che del movimento dei diritti è erede, lo evoca spesso ma anche lo critica. «Le vittorie di allora, l’accesso di minoranze e donne a piena cittadinanza, l’estendersi delle libertà individuali, la sana volontà di mettere in questione l’autorità: certo hanno fatto dell’America un posto migliore.

Ma qualcosa in quel processo è andato perduto, va ricostituito: un insieme di convinzioni condivise, la fiducia reciproca, l’unità fra americani» (L’Audacia della Speranza, Rizzoli 2007). Non stupisce che il candidato spiaccia ad asiatici e ispanici, per i quali lo status quo di diritti acquisiti è un’ancora. Il Sessantotto è criticato infine per alcune forme pacifiste, non meno illusorie delle forme belliciste. Obama ammonisce: «È urgente uscire dall’Iraq. Ma non per questo smetteremo di esser bersaglio del terrore».

Cosa significa quando Obama scandisce: yes we can - uno slogan che ha ammaliato i blog e, in Italia, Veltroni? Vuol dire che la politica si fa trascendendo le divisioni di razza, di genere e di schieramenti, ma non significa la cancellazione di differenze. Significa che il futuro, di nuovo centrale dopo un’era dominata dall’istante brevissimo, esige che ciascuno ripensi il domani senza inibizioni.

Significa che si può riaprire alla speranza, e che la politica in quanto tale deve rioccupare lo spazio da cui per decenni è stata scacciata: non sono le lobby né gli imprenditori a dettare le strategie di governo, Obama su questo è intransigente. Così come non sono i sondaggi di popolarità. Chi fa propri i suoi slogan fa bene a saperlo: Obama non vuol piacere, anche se piace molto. Non vuol abolire l’alternanza, e se vuol conciliare destra e sinistra è perché ritiene ambedue inadatte. Nelle primarie ha detto cose impopolari, e la sua filosofia consiste nel dire, anche se sgradevole, la verità.

La verità è che l’America, così com’è ridotta, non è più potenza. È debole economicamente, a causa d’un liberismo degenerato in anomia. Ha perso forza d’attrazione: la diffidenza mondiale che suscita è tragica, dopo l’11 settembre e la striminzita pochezza dei suoi interventi bellici. Un impero che spasmodicamente continua a domandarsi «Perché ci odiano?», finisce col ripetersi senza costrutto. Obama prova una sua risposta, ed è significativo che anch’essa rompa con risposte passate. La potenza degli impotenti, teorizzata da Havel nelle rivoluzioni di velluto a Est, non corrisponde al dopo 11 settembre. L’impotenza perde l’aura irenica che aveva: si è visto come generi mostri e non solo velluto morbido.

Nella prefazione al suo primo libro, I Sogni di mio Padre, Obama constata: «Conosco, per averla vista, la disperazione disordinata degli impotenti: come essa storce le vite dei bambini nelle strade di Giacarta o Nairobi, allo stesso modo in cui storce quelle dei bambini a Sud di Chicago; come per tutti costoro sia stretto il sentiero tra umiliazione e furia scatenata; come sia facile scivolare nella violenza, nella disperazione. So che la risposta dei potenti a questo disordine - l’oscillare continuo fra ottusa acquiescenza e scriteriato, ripetuto uso della forza - è completamente inadeguata. So che l’indurirsi delle linee, la fuga nel fondamentalismo e nella tribù, minacciano noi tutti».

Un’altra verità è che non sarà liscio, il cambiamento trasformatosi in mantra della campagna. Obama non ha precisi programmi, ma precisi sono il metodo e la filosofia. Senza partecipazione dei cittadini - questo il messaggio - non si potranno fare le cose che urgono e però costano enormemente. Risanare il clima presuppone sacrifici, e in particolare prezzi rincarati dell’energia. L’assistenza sanitaria diffusa comporterà aumenti delle tasse, non la diminuzione di Bush confermata da McCain. Neppure in politica estera le soluzioni saranno facili, se si vorrà iniziare un’analisi del reale. Il terrorismo, ad esempio, è una forza malefica, ma che occorrerà un giorno capire e con cui urge parlare. Se c’è tanto risentimento in giro, qualche ragione ci sarà: non basta dire che la civiltà ha nemici nichilisti. Gli esclusi e impotenti possono esser tentati dalla collera, dal risentimento, dalla violenza. Obama sa cosa sia, avendo percorso il mondo come personaggio ibrido, meticcio: figlio di una donna del Kansas e di un keniota ateo di origine musulmana, convertito poi al cristianesimo. L’integralismo e l’identità unica denunciati dall’economista Amartya Sen sono un’illusoria, distruttiva appartenenza.

Contrario fin dal principio alla guerra in Iraq, Obama è divenuto fenomeno grazie a una società per lungo tempo invisibile: non l’America dei politici, dei giornali, di notiziari o dibattiti Tv, ma l’America che tende a contare di più: quella che s’informa e conversa su internet e nei blog. Il potere televisivo scema negli Stati Uniti, le prognosi di Beppe Grillo sono giuste. Sono i blog e non il lavoro di sperimentati giornalisti che hanno smascherato le menzogne di Bush sull’Iraq. È nei blog che Obama ha dipanato le sue reti sociali (il social network) e poi la campagna elettorale. Nelle conventicole di giornali e Tv sentiamo dire: «Questo o quello non interessa la gente». Chi l’ha detto? Da dove tanta scienza infusa? Una realtà diversa vive nei blog, affastellando interessi che le élite giornalistiche neppure immaginano, ignorandole.

Obama non è il primo candidato nero, anche se è il primo a poter vincere. È il primo candidato del postcomunismo, del dopo 11 settembre. Il suo curriculum gli permette di dire: la globalizzazione è la realtà, io ne sono un esemplare. È il primo che mette fine al lungo ciclo dominato dalla paura. Un ciclo che aveva, come unica ricetta, non il rinnovamento e i giorni a venire ma la restaurazione: il potere della Chiesa o delle lobby anziché il potere di sintesi laica della politica; la chiusa normalizzazione di ideologie o dogmi religiosi anziché l’apertura mentale e l’analisi dei fatti; le radici anziché la varietà. Obama riscopre il progresso e, anche se riferendosi spesso alle Sacre Scritture, la laicità basata sulle religioni molteplici e le appartenenze ibride. Può darsi che fallirà - non è improbabile - ma la sua campagna non sarà dimenticata.


Sul tema, nel sito, si cfr.:

"CHANGE WE NEED". BARACK OBAMA, SULLE ALI DELLO SPIRITO DI FILADELFIA E DI GIOACCHINO DA FIORE, HA GIA’ PORTATO GLI U.S.A. FUORI DAL PANTANO

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