IL MOMENTO AMERICANO
Le verità scomode di Obama
di BARBARA SPINELLI (La Stampa, 10/2/2008)
Chi conosce la serie televisiva 24, mostrata dopo l’11 settembre in America, non considererà anormale quel che forse accadrà in novembre, quando sarà eletto il successore di Bush: un Presidente nero alla Casa Bianca, una finestra che si apre nella storia americana e del mondo. Oppure un Presidente donna, se sarà Hillary Clinton a vincere: anche questo accade, nel settimo ciclo di 24. Può darsi che simili prospettive impauriscano, e che gli elettori si rifugino infine nel sicuro, nello stabile: McCain è abbastanza indipendente, abbastanza estraneo all’esperienza Bush, da poter raccogliere consensi inattesi.
Tuttavia è così infiammata la sete di cambiamento, che tante fantasticherie diventano possibili. Dice la scrittrice Toni Morrison (Nobel della letteratura nel ’93) che questo è un momento americano molto singolare: chi lo ignorerà, lo farà a suo rischio e pericolo. Tuttavia non è qui la vera singolarità del momento americano. Non è l’approdo d’un cammino diritto che dal Sessantotto conduce all’oggi, concedendo finalmente i diritti all’affermazione distinta di generi e razze, di donne e neri.
Chi più incarna il nuovo nell’America odierna è Barack Obama, candidato democratico nero, e Obama non è semplicemente nipote del ’68 e dei diritti. Se è diventato un fenomeno, se accende una mania, se scompagina gli animi e tanti luoghi comuni, è perché rappresenta qualcosa di diverso da quel che conosciamo, Sessantotto compreso. La stessa Morrison, decidendo di sostenerlo in una lettera dello scorso gennaio, annuncia che non lo voterà in quanto nero. Fin dal ’98, d’altronde, la scrittrice sostiene che già c’è stato un Presidente nero: Clinton. Medesima è l’estrazione sociale, medesimo l’amore del sassofono e dei cibi junk, alla McDonald’s. Non sono la razza né il genere a secernere il Momento che elettrizza. Obama è figlio dell’11 settembre più che del ’68, e del declino americano succeduto a quel trauma. È figlio di un’America inferma, ed è il tentativo di rimediare all’infermità con parole che riempiano un vuoto sentito da tanti. Non sono in gioco i diritti di categorie. Qui si sta seppellendo il sogno inane dell’impero stile Bush con quello che l’ha accompagnato: l’insolenza violenta, l’incompetente e militante ignoranza, il messianesimo pseudoreligioso, la lotta al terrore vissuta come scontro, fallito, di civiltà.
Obama forse scomparirà, ma nel frattempo avrà lasciato una traccia profonda nella cultura americana. Nessun Presidente, nemmeno McCain, potrà fare come se non fosse esistito: con il suo messaggio di cambiamento, sulla fine della politica della paura e il futuro da riconquistare. Obama è anche il primo politico che non si limita ad ammodernare la propria tribù politica. D’un tratto le terze vie s’accartocciano come secche foglie, disperse da un soffio che annuncia ben altre mutazioni: mutazione del modo d’intendere la politica, la speranza, il domani. Obama è un candidato che scompiglia logore linee di divisione fra destra e sinistra. Colin Powell, ad esempio, ancora non si decide. Tutti trovano naturale che un conservatore possa scegliere Obama senza tradirsi, e non solo a causa del colore della pelle.
Questa speranza di futuro, Obama l’ha svegliata non solo fra i Neri, come in passato altri afro-americani. Ha trascinato i bianchi, e una straordinaria quantità di americani - soprattutto giovani - che solitamente s’astengono. Scrive lo storico David Greenberg (Washington Post, 13-1) che sulla sua figura s’addensa in primo luogo una speranza bianca: sono i bianchi a sognare una storia diversa, una sua redenzione in qualche modo, che corregga la terribile verità di una guerra civile combattuta nel seconda metà dell’800 per liberare i neri dalla schiavitù, e terminata con più di un milione di morti e il tradimento dell’originaria promessa: con i neri dotati ormai di diritti ma tuttora svantaggiati.
Ci sono nella storia questi momenti assetati di redenzione, come nella trilogia nei Sonnambuli in Hermann Broch. Questo è Obama ed è il motivo per cui il ’68 non spiega tutto. Non a caso il candidato, che del movimento dei diritti è erede, lo evoca spesso ma anche lo critica. «Le vittorie di allora, l’accesso di minoranze e donne a piena cittadinanza, l’estendersi delle libertà individuali, la sana volontà di mettere in questione l’autorità: certo hanno fatto dell’America un posto migliore.
Ma qualcosa in quel processo è andato perduto, va ricostituito: un insieme di convinzioni condivise, la fiducia reciproca, l’unità fra americani» (L’Audacia della Speranza, Rizzoli 2007). Non stupisce che il candidato spiaccia ad asiatici e ispanici, per i quali lo status quo di diritti acquisiti è un’ancora. Il Sessantotto è criticato infine per alcune forme pacifiste, non meno illusorie delle forme belliciste. Obama ammonisce: «È urgente uscire dall’Iraq. Ma non per questo smetteremo di esser bersaglio del terrore».
Cosa significa quando Obama scandisce: yes we can - uno slogan che ha ammaliato i blog e, in Italia, Veltroni? Vuol dire che la politica si fa trascendendo le divisioni di razza, di genere e di schieramenti, ma non significa la cancellazione di differenze. Significa che il futuro, di nuovo centrale dopo un’era dominata dall’istante brevissimo, esige che ciascuno ripensi il domani senza inibizioni.
Significa che si può riaprire alla speranza, e che la politica in quanto tale deve rioccupare lo spazio da cui per decenni è stata scacciata: non sono le lobby né gli imprenditori a dettare le strategie di governo, Obama su questo è intransigente. Così come non sono i sondaggi di popolarità. Chi fa propri i suoi slogan fa bene a saperlo: Obama non vuol piacere, anche se piace molto. Non vuol abolire l’alternanza, e se vuol conciliare destra e sinistra è perché ritiene ambedue inadatte. Nelle primarie ha detto cose impopolari, e la sua filosofia consiste nel dire, anche se sgradevole, la verità.
La verità è che l’America, così com’è ridotta, non è più potenza. È debole economicamente, a causa d’un liberismo degenerato in anomia. Ha perso forza d’attrazione: la diffidenza mondiale che suscita è tragica, dopo l’11 settembre e la striminzita pochezza dei suoi interventi bellici. Un impero che spasmodicamente continua a domandarsi «Perché ci odiano?», finisce col ripetersi senza costrutto. Obama prova una sua risposta, ed è significativo che anch’essa rompa con risposte passate. La potenza degli impotenti, teorizzata da Havel nelle rivoluzioni di velluto a Est, non corrisponde al dopo 11 settembre. L’impotenza perde l’aura irenica che aveva: si è visto come generi mostri e non solo velluto morbido.
Nella prefazione al suo primo libro, I Sogni di mio Padre, Obama constata: «Conosco, per averla vista, la disperazione disordinata degli impotenti: come essa storce le vite dei bambini nelle strade di Giacarta o Nairobi, allo stesso modo in cui storce quelle dei bambini a Sud di Chicago; come per tutti costoro sia stretto il sentiero tra umiliazione e furia scatenata; come sia facile scivolare nella violenza, nella disperazione. So che la risposta dei potenti a questo disordine - l’oscillare continuo fra ottusa acquiescenza e scriteriato, ripetuto uso della forza - è completamente inadeguata. So che l’indurirsi delle linee, la fuga nel fondamentalismo e nella tribù, minacciano noi tutti».
Un’altra verità è che non sarà liscio, il cambiamento trasformatosi in mantra della campagna. Obama non ha precisi programmi, ma precisi sono il metodo e la filosofia. Senza partecipazione dei cittadini - questo il messaggio - non si potranno fare le cose che urgono e però costano enormemente. Risanare il clima presuppone sacrifici, e in particolare prezzi rincarati dell’energia. L’assistenza sanitaria diffusa comporterà aumenti delle tasse, non la diminuzione di Bush confermata da McCain. Neppure in politica estera le soluzioni saranno facili, se si vorrà iniziare un’analisi del reale. Il terrorismo, ad esempio, è una forza malefica, ma che occorrerà un giorno capire e con cui urge parlare. Se c’è tanto risentimento in giro, qualche ragione ci sarà: non basta dire che la civiltà ha nemici nichilisti. Gli esclusi e impotenti possono esser tentati dalla collera, dal risentimento, dalla violenza. Obama sa cosa sia, avendo percorso il mondo come personaggio ibrido, meticcio: figlio di una donna del Kansas e di un keniota ateo di origine musulmana, convertito poi al cristianesimo. L’integralismo e l’identità unica denunciati dall’economista Amartya Sen sono un’illusoria, distruttiva appartenenza.
Contrario fin dal principio alla guerra in Iraq, Obama è divenuto fenomeno grazie a una società per lungo tempo invisibile: non l’America dei politici, dei giornali, di notiziari o dibattiti Tv, ma l’America che tende a contare di più: quella che s’informa e conversa su internet e nei blog. Il potere televisivo scema negli Stati Uniti, le prognosi di Beppe Grillo sono giuste. Sono i blog e non il lavoro di sperimentati giornalisti che hanno smascherato le menzogne di Bush sull’Iraq. È nei blog che Obama ha dipanato le sue reti sociali (il social network) e poi la campagna elettorale. Nelle conventicole di giornali e Tv sentiamo dire: «Questo o quello non interessa la gente». Chi l’ha detto? Da dove tanta scienza infusa? Una realtà diversa vive nei blog, affastellando interessi che le élite giornalistiche neppure immaginano, ignorandole.
Obama non è il primo candidato nero, anche se è il primo a poter vincere. È il primo candidato del postcomunismo, del dopo 11 settembre. Il suo curriculum gli permette di dire: la globalizzazione è la realtà, io ne sono un esemplare. È il primo che mette fine al lungo ciclo dominato dalla paura. Un ciclo che aveva, come unica ricetta, non il rinnovamento e i giorni a venire ma la restaurazione: il potere della Chiesa o delle lobby anziché il potere di sintesi laica della politica; la chiusa normalizzazione di ideologie o dogmi religiosi anziché l’apertura mentale e l’analisi dei fatti; le radici anziché la varietà. Obama riscopre il progresso e, anche se riferendosi spesso alle Sacre Scritture, la laicità basata sulle religioni molteplici e le appartenenze ibride. Può darsi che fallirà - non è improbabile - ma la sua campagna non sarà dimenticata.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Il candidato democratico fa sognare la folla radunata a Berlino
E ai microfoni di Sky Tg 24 dice: "Verrò presto in Italia"
Obama: "Abbattere tutti i Muri
che dividono popoli e razze"
Il discorso davanti a oltre 100 mila persone entusiaste
Grande enfasi sulla collaborazione tra Usa e Unione europea *
BERLINO - Barack Obama verrà presto in Italia: "La amo, un Paese meraviglioso, prometto che verrò appena possibile", dice il candidato democratico ai microfoni fi Sky Tg 24. Proprio nel giorno in cui, da Berlino, pronuncia un trionfale discorso davanti alla Colonna della Vittoria, applaudito da oltre centomila tedeschi entusiasti: "L’America non può isolarsi, l’Europa neanche. E’ arrivato il momento di costruire nuovi ponti, di abbattere i Muri che dividono popoli e razze".
"Vogliamo una Unione europea forte - sostiene il senatore dell’Illinois - l’Europa è il migliore partner degli Usa". E allora, prosegue, "insieme bisogna unirci per salvare il pianeta". Abbattendo tutte le diversità: tra neri e bianchi, tra musulmani e ebrei, tra ricchi e poveri. "Usa e Europa dovranno fare di più per questo - aggiunge - non vi parlo da candidato americano - ha aggiunto - ma da cittadino del mondo. Non assomiglio agli americani che hanno parlato qui prima di me, la mia storia personale è diversa, una storia americana. Il padre di mio padre era un servo degli inglesi, un cuoco".
"Ringrazio la Merkel e il ministro degli Esteri Steinmeier per il benvenuto che mi hanno dato - dice ancota Obama - ma ringrazio soprattutto Berlino. Questa città come molte altre conosce il sogno della Libertà". E ancora: "Persone del mondo guardate Berlino, dove il Muro è caduto e dove la storia ha provato che non c’è una sfida che non si può combattere per il mondo unito".
Tra i suoi passaggi più politici, da segnalare quelli sull’Iran ("deve abbandonare le sue ambizioni nucleari militari") e sull’Afghanistan: "L’America non può farlo da sola, il popolo afghano ha bisogno delle nostre truppe e delle vostre truppe (europee, ndr)".
In definitiva, per Obama, un grande successo. In questo tour europeo che prosegue a Parigi, e che segue le trasferte in Afghanistan e in Israel. E con la capitale tedesca caduta in piena obamamania. E se nel 1963 John Kennedy è passato alla storia per la celebre frase "Ich bin ein berliner", oggi l’aspirante presidente ha conquistato tutti con un semplice "I love Berlin".
La frase è stata pronunciata al termine dei suoi colloqui con il ministro degli Esteri tedesco Frank Walter Steinmeier. Dopo gli incontri con le autorità, tra cui questa mattina il ricevimento in Cancelleria del capo di governo tedesco Angela Merkel, Obama ha fatto una scappata all’hotel di lusso Ritz Carlton, per fare un’oretta di fitness. Poi, il bagno di folla, con circa 100 mila persone pronte a seguire il suo discorso alla Siegessaeule, la Volonna della vittoria, che sorge al centro del Tiergarten.
Il candidato meticcio
di Barbara Spinelli (La Stampa, 8/6/2008)
D’un tratto tutto quello che in Europa aveva l’aria d’essere la modernità si sfalda e ingrigisce e invecchia, messo a confronto con quello che accade nelle presidenziali americane: un po’ come succede al Centro Pompidou di Parigi che nei primi Anni 70 fu avanguardia assoluta, con i suoi furibondi colori e i suoi tubi d’acciaio, e presto divenne stranamente decrepito, troppo decifrabile. L’ascesa di Barack Obama e la sua vittoria sulla casa Clinton nelle primarie democratiche ha questo, di inatteso e scompaginante: fa invecchiare d’improvviso quello che sembrava ineluttabilmente vincente, smentisce credenze cui tanti si erano conformati, a destra e sinistra. L’idea che esista un’unica via liberista per aggiustare l’economia, che la globalizzazione possa esser governata con vecchi politici nazionali e vecchie identità monocolori, che l’intervento dello Stato nell’economia sia sempre sciagurato, che nei governanti non conti più l’etica, che l’uso politico della paura e della xenofobia siano redditizi: tutti questi convincimenti sono sbriciolati da un candidato americano e globale al tempo stesso, figlio di un africano keniota, cresciuto in Indonesia, rientrato nelle migliori università statunitensi. Il suo esser meticcio fa impressione nel piccolo universo bianco, ma tre quarti della terra gli somigliano.
Forse il candidato nero non vincerà contro McCain, ma il mero fatto di correre per la Casa Bianca scompagina i manuali del successo. Scompagina due certezze, in particolar modo. La certezza che gli Anni 60 e il ’68 siano un angolo morto della storia, da deplorare senza fine. E la certezza che l’impero Usa sia qualcosa di rigido, non esposto a mutazioni profonde. È invece un oggetto bizzarro, debole e però straordinariamente elastico. Una lunga pratica di arroganza l’ha sfibrato, sino a produrre l’anticorpo Obama. La sua duttilità è unica perché crea tali anticorpi, e restituisce fascino alla democrazia e alla convivenza etnico-razziale.
Son scombussolati in primo luogo gli stereotipi sul Sessantotto: in Europa è di grandissima moda denigrarlo, l’Italia lo sa e anche la Francia, dove Sarkozy ha costruito una carriera su simile denigrazione. In America la maldicenza è più antica: l’offensiva contro i liberal degli Anni 60 cominciò con Nixon e proseguì nel ’94 con la rivoluzione conservatrice di Newt Gingrich e la vittoria repubblicana alle legislative. Bush e i neo-conservatori sono figli di questa rivoluzione dell’acrimonia. Molti acrimoniosi hanno partecipato al ’68 ma poi si sono trasformati, adeguandosi al più moderno spirito dei tempi: spesso si son fatti stranamente beghini e falsamente virtuosi, come accade a chi si congeda da una gioventù scapestrata. Somigliano alla vereconda madama Pernelle, che nel Tartufo di Molière insulta ogni sorta di libertà. L’età «ha messo nella sua anima uno zelo ardente» che l’induce a denigrare la spregiudicatezza dei giovani, e a difendere il devoto ipocrita Tartufo. «Col velo pomposo di un’alta saggezza dissimula la miseria delle sue tramontate seduzioni», così è derisa dalla servetta Dorine. Parecchi neo-conservatori denunciano il ’68 allo stesso modo: un ardente zelo li porta a cancellare un’epoca intera, senza la quale Obama oggi non sarebbe dov’è.
Obama non è un sessantottino, in più modi lo fa capire. Se ha vinto alle primarie contro Hillary Clinton è perché ha sormontato quella che vien chiamata l’iconografia del ’68: le battaglie di liberazione dei neri o delle donne viste come fini in sé, da ottenere solo per la propria classe o razza o genere. Schiava del ’68 si è rivelata Hillary, e non le è stato d’aiuto. Ma Obama è pur sempre il prodotto di un movimento favorevole alla varietà e all’incrocio col diverso, anche se di esso non è preda. In Europa possiamo continuare a credere che l’avvenire appartenga a chi liquida gli Anni 60: le battaglie di emancipazione, giustizia, uguaglianza; le canzoni di Moustaki sul métèque. In America quest’iconoclastia è già finita, sia che Obama vinca sia che perda.
La seconda idea scompaginata concerne l’impero americano e il suo degradarsi. Anche qui Obama è specchio del male e anticorpo che il male ha saputo secernere: è un annunziatore estremamente realistico della crisi, anche se non sempre è disposto a guardarla davvero traendone tutte le conseguenze. Dice che la guerra al terrorismo si è sfracellata in Iraq, sbrecciando in maniera enorme e durevole l’immagine mondiale dell’America e la sua capacità di influenzare gli eventi, soprattutto nel mondo arabo e musulmano. Con le sue mani, Washington ha fabbricato il Golem che è Ahmadinejad e l’ambizione iraniana all’egemonia nella regione più conflittuale del pianeta. Alcuni, come Niall Ferguson, parlano già di breve impero americano: ben più breve dell’antica Roma che i neo-conservatori sognavano d’emulare.
Non è chiaro se Obama sappia fino in fondo l’infermità che annunzia. Sia lui che McCain la descrivono con severità, sperano di riparare, correggere. Ma in America le presidenziali hanno spesso questo tono: i candidati lamentano il declino di una nazione che continuano a vedere come eletta, impareggiabile. Anche oggi rischia di esser così, Stephen Sestanovich lo spiega bene in un articolo su Slate online del 2 giugno. Ambedue i candidati, scrive, coltivano la speranza che non sia vero quel che dicono: che non sia vero che l’America è più che mai debole, inascoltata. Quando McCain propone una nuova comunità occidentale, quando vuol escludere la Russia dal Gruppo degli Otto, non sa la differenza fra il dire e il poter fare: non sa le diffidenze europee, non sa che la Russia sarà difficile metterla alla porta con un ukase americano.
Obama è assai più realista, specie sul disastro iracheno, ma l’illusione assedia anche lui. Non basta parlare con Ahmadinejad per indurlo alla ragione, per il semplice fatto che il suo regime ha sin d’ora una razionalità, diversa dall’occidentale. L’Iran di Ahmadinejad è un po’ come la Prussia di Federico il Grande, nella seconda metà del ’700: tutte le potenze nell’Europa continentale si coalizzarono per abbatterlo, ma attraverso la guerra e l’isolamento la Prussia, da parvenu che era, divenne nazione cruciale. La convinzione dei politici americani è che se solo usi razionalmente la tua testa, diventi subito filo-americano e filo-occidentale: altrimenti devi esser pazzo. È la presunzione imperiale che genera queste chimere, e che spiega alcuni cedimenti di Obama all’unilateralismo conservatore.
I nipoti del ’68 hanno superato le scarsezze e perentorietà dei nonni ma hanno un bisogno esistenziale di legittimità, e questo frequentemente li intimidisce. Pensano che per esser accettati devono mostrarsi più centristi, cioè di destra (sono «mercanti di razze» e «prigionieri della politica dell’identità», secondo Shelby Steele, scrittore nero e conservatore) e il loro incubo è Israele, che in America è tra i massimi dispensatori di certificati di legittimazione. Anche questo cambierà, e non necessariamente in meglio per gli ebrei della diaspora e neppure per Israele. Ma per ora, l’imprimatur dei gruppi di pressione ebraici (dell’Aipac in primis - American Israel Public Affairs Committee - più conservatore del governo israeliano) è essenziale. È all’Aipac che Obama ha fatto una promessa ritenuta eccessiva dallo stesso Dipartimento di Stato, il 4 giugno: la difesa di Gerusalemme «capitale indivisa d’Israele».
Chi viene dal ’68 sente di dover continuamente scusarsi, anche se i difetti del ’68 li ha superati tutti. Obama rischia di sperdersi nel trasformismo, a forza di scusarsi. Rischia di ripetere l’esperienza Hillary: troppo sicura all’inizio, troppo underdog alla fine, quando per scelta s’è trasformata in emblema di chi per mestiere o destino è un perdente.
Hillary Clinton dà pieno appoggio
a Obama: "Facciamolo eleggere"
WASHINGTON - "Il modo migliore per continuare la nostra lotta e raggiungere i nostri scopi è che i nostri sforzi siano diretti a far eleggere Barak Obama alla presidenza degli Stati Uniti. Gli faccio le mie congratulazioni, e gli dò il mio pieno sostegno, e chiedo a tutti voi di unirvi a me e di lavorare sodo per Barak Obama così come avete fatto per me". Con queste parole Hillary Clinton ha annunciato la chiusura della sua campagna presidenziale, dando contestualmente pieno appoggio al rivale Barak Obama.
Applaudita da migliaia di sostenitori al National Building Museum, Hillary Clinton ha avuto parole di apprezzamento pieno per Obama: "Sono stata con lui in Senato per quattro anni e in questa campagna per 16 mesi: ho visto la sua forza, la sua determinazione. Con la sua vita Barak Obama ha vissuto il sogno americano: questo sogno dev’essere realizzato. Quando ho iniziato questa campagna volevo che riottenessimo la Casa Bianca, con un presidente che promuovesse la pace e il progresso, ed è questo che faremo sostenendo Barak Obama".
La senatrice Clinton ha ribadito l’importanza dei propri obiettivi, a sostegno dei più deboli, e ha ringraziato più volte i suoi sostenitori: "Questa non è proprio la festa che avevo in programma, - ha ammesso - ma mi piace la compagnia. Vorrei dirvi quanto sono grata a tutti coloro che hanno messo il cuore il questa campagna, che hanno fatto chilometri, che hanno mandato email, contributi, e che hanno investito così tanto nella nostra impresa".
"Un giorno vivremo in un’America in cui ci sarà una classe media più forte. Vivremo in un’America alimentata da energie alternative, un’America più forte: per questo dobbiamo eleggere Obama presidente. Dobbiamo riportare a casa le truppe: un giorno vivremo in un’America più leale con i suoi soldati. Per questo dobbiamo far eleggere Obama presidente", ha ripetuto Hillary Clinton.
"Quando abbiamo cominciato ci siamo fatti una domanda: potrà una donna essere comandante a capo? Abbiamo risposto a questa domanda. E poi ci siamo posti un’altra domanda: potrà un nero essere presidente? Abbiamo risposto anche a questa", ha detto ancora la senatrice democratica.
"Io sono una donna, e come milioni di donne so che ci sono delle barriere e dei pregiudizi, involontari a volte. A differenza di mia madre, ho avuto quest’opportunità, e voglio lasciare un’America migliore a mia figlia: un luogo dove le donne possano godere degli stessi diritti, della stessa paga e dello stesso rispetto. Lavoriamo per raggiungere questi scopi - ha ribadito - non ci sono limiti accettabili, e non ci sono pregiudizi accettabili.
* la Repubblica, 7 giugno 2008
LUTER KING 40 ANNI DOPO
Obama il sogno avverato
di BORIS BIANCHERI (La Stampa, 31/3/2008)
Sono passati quarant’anni da quella sera di aprile in cui Martin Luther King, mentre stava sul balcone di un modesto motel della città di Memphis nel Tennessee, venne assassinato da un fanatico del quale, come in altri celebri omicidi politici negli Stati Uniti, non sono state forse ancora accertate l’identità e le vere motivazioni. Scomparve con lui uno dei grandi protagonisti della storia americana del secolo, forse la prima figura in tutto il mondo occidentale a far proprio in modo sistematico il principio della non violenza appreso da Gandhi e ad applicarlo alla causa dei diritti civili e dell’integrazione razziale.
La vita di Martin Luther King era stata una breve, scintillante cometa: un ragazzo vivacissimo, figlio di un pastore protestante da cui aveva ereditato il dono di una retorica emotiva tipica delle chiese nere del Sud, uno studente brillante e popolare, pronto a lanciarsi subito alla rincorsa di grandi e lontani ideali. Aveva appena ventisei anni quando si gettò in un’azione che lo fece conoscere all’America intera. Una donna di colore che viaggiava su un autobus della città di Montgomery era stata arrestata per aver rifiutato di cedere il suo posto a un passeggero bianco, come prescriveva il regolamento. Martin Luther King organizzò un boicottaggio degli autobus che fu seguito massicciamente dalla cittadinanza nera e che si protrasse per 380 giorni, fin quando una Corte distrettuale non abolì la discriminazione razziale nel trasporto pubblico dell’Alabama. Seguì una lunga serie di raduni, di manifestazioni e di iniziative di sostegno in favore di lavoratori neri che chiedevano parità di trattamento.
Sino a quel capolavoro che fu la grande marcia su Washington per i diritti civili del 1963 nella quale pronunciò il celebre discorso «io ho un sogno», in cui riassunse la sua visione di un paese dove tutti vivono in fraternità sotto le stesse leggi. La marcia fu uno straordinario successo politico e mediatico e l’anno successivo gli venne conferito il Premio Nobel per la pace. Dopo altri quattro fu ucciso.
Il ricordo di Martin Luther King fa pensare istintivamente alla figura di colore apparsa ora sulla scena politica americana, quella di Barack Obama, la prima, dopo quegli anni lontani, che abbia una connotazione razziale assieme a una notorietà trasversale che va dal Nord al Sud, da una comunità etnica e culturale all’altra, dentro e fuori degli Stati Uniti. E ci si pone una domanda: si possono intravedere delle affinità tra il protagonista delle campagne sui diritti civili di ieri e quello della campagna presidenziale di oggi? O le condizioni di fondo della società americana sul tema razziale sono talmente mutate in quarant’anni da rendere un paragone improponibile?
Alcune affinità tra i due, oltre al colore della pelle, sono evidenti. Sia Obama che King hanno avuto studi e carriere folgoranti e hanno offerto dei volti giovani all’opinione pubblica: il primo già da senatore dell’Illinois, il secondo diventando addirittura il più giovane Nobel per la pace della storia. Entrambi hanno avuto in dono eccezionali capacità oratorie. Certi loro discorsi, come quelli di Martin Luther King a Washington o quello di Obama alla Convenzione democratica del 2004, sono dei veri punti di riferimento e taluni passaggi vengono citati a memoria da milioni di americani. In loro il sentimento religioso si è tradotto anche in doti da predicatore. L’uno e l’altro, poi, hanno menti che corrono verso il futuro, verso il progetto, verso la speranza; non si presentano come esperti amministratori ma come audaci architetti.
Vi è però tra loro una differenza profonda, che è tanto un prodotto quanto un segno delle trasformazioni dell’America. Martin Luther King è il frutto di una famiglia nera e di una educazione nera in un quartiere nero di Atlanta. Obama è nato nelle Hawaii da un padre nero e da una madre bianca e ha vissuto parte della sua infanzia in Indonesia. La loro visione della società e del loro ruolo in essa è necessariamente diversa. Martin Luther King si sentiva ed era uomo di lotta, sebbene non violenta; Obama si sente ed è uomo di conciliazione e pace. King diceva: l’America è divisa e dobbiamo colmare la frattura esistente. Obama dice: l’America è unita e dobbiamo conservarne l’unità. Egli non nega che secoli di segregazione alle spalle siano per la comunità di colore un’eredità pesante in termini di opportunità e di benessere. Ma il progresso sarà raggiunto costruendo insieme e non rivendicando agli uni ciò che gli altri non hanno.
Basta una cosa a dire quanto sia cambiata l’America da quel 4 aprile 1968. Il «sogno» che Martin Luther King espresse nel suo famoso discorso di Washington era questo: che i suoi quattro figli fossero valutati per quanto avrebbero detto e fatto e non giudicati in base al colore della pelle. Barack Obama appartiene alla loro generazione. È nato anzi lo stesso anno del terzo figlio di Martin Luther King. Oggi viene giudicato per ciò che dice e fa ed è su questa base che si guarda a lui come a un possibile presidente della nazione americana. Se quello era un sogno, esso si è avverato.
Ansa» 2008-02-13 08:44
PRIMARIE POTOMAC: OBAMA SUPERA HILLARY, MCCAIN VOLA
WASHINGTON - Altre tre vittorie, con relativo tesoro di delegati, arricchiscono il medagliere sempre piu’ scintillante di Barack Obama. Il senatore nero dell’Illinois ha proseguito la serie d’oro di successi inanellati dal Super Martedi’ della settimana scorsa, battendo in modo schiacciante Hillary Clinton in Virginia, Maryland e nel Distretto di Columbia - dove sorge la capitale Washington - ed e’ passato a condurre nettamente nel conto dei delegati per la convention.
Le primarie del Potomac, il fiume che attraversa l’area della capitale, hanno confermato che il senatore nero ha il vento il poppa e la Clinton e’ in crisi. Obama si e’ aggiudicato buona parte dei delegati in palio nella notte elettorale e, come bonus inatteso, ha ricevuto i risultati finale del caucus nello stato di Washington celebrati nel fine settimana, che gli hanno assegnato 56 dei 78 delegati in palio.
Anche nel conteggio ’prudente’ della Cnn, che assegna alla Clinton un vantaggio di 234 a 156 in termini di ’superdelegati’ (gli esponenti di partito non vincolati nel voto), Obama dopo il voto sul Potomac conduce in modo netto: 1.195 a 1.178 delegati in totale sono ora allineati con il senatore nero. Per vincere la nomination ne occorrono 2.025 e la Clinton, per farcela, secondo i calcoli della Nbc deve aggiudicarsi almeno il 56% dei delegati ancora in palio.
’’I cinici adesso non possono piu’ dire che la nostra speranza e’ falsa’’, ha detto Obama, parlando a una folla a Madison, in Wisconsin. ’’Abbiamo vinto a est e a ovest, a nord e a sud - ha aggiunto -. Abbiamo vinto in Maryland, in Virginia, e sebbene abbiamo vinto anche a Washington questo movimento non si fermera’ fino a quando non porteremo il cambiamento a Washington’’.
’’Lo status quo non vincera’, non stavolta, non quest’anno’’, ha concluso, senza fare il nome di Bill e Hillary Clinton, ma riferendosi a loro oltre che ai repubblicani.
La tripletta di Obama era attesa, ma e’ stata la sua portata a stupire gli osservatori. In Virginia il senatore ha vinto 63-36% (con il 93% dei voti scrutinati). I dati parziali del Maryland indicano una vittoria analoga, mentre nella citta’ di Washington, dove i Clinton sono di casa da anni, e’ stata una valanga per Obama: 76 a 24% (con l’89% dei voti scrutinati).
Altri dati della Virginia, dove le donne e i neri si sono spostati decisamente verso Obama e dove anche gli elettori bianchi della classe media sembrano aver tradito Hillary, offrono una serie di segnali d’allarme per l’ex First Lady. L’elenco di scuse con cui la Clinton ha reagito alle sconfitte dell’ultima settimana va esaurendosi e la strategia di attendere il voto in stati popolosi puo’ essere rischiosa.
La senatrice sapeva che sarebbe stata un’altra serata nera ed e’ andata ad attendere i risultati in Texas, lo stato di George W.Bush da dove spera a marzo di lanciare la rimonta. Ma prima ancora di partire per il West, aveva ricevuto la lettera di dimissioni del numero due della sua campagna, Mike Henry, la cui testa e’ la seconda a cadere dopo quella della manager Patti Solis Doyle. Un altro segnale della crisi in corso dentro lo staff.
A El Paso, dove ha incontrato gli elettori nelle ore in cui chiudevano i seggi sulla costa est, la Clinton ha evitato qualsiasi commento sul voto appena concluso, concentrandosi su quelli in arrivo.
REPUBBLICANI: TRIPLA VITTORIA PER MCCAIN - Il senatore John McCain si e’ avvicinato ulteriormente martedi’ notte alla candidatura repubblicana vincendo in modo netto le primarie in Maryland e nel Distretto di Columbia (dove si trova la capitale Washington) e imponendosi anche, ma in modo piu’ sofferto, in Virginia dopo una lotta testa a testa col suo rivale Mike Huckabee.
Con le tre vittorie McCain si e’ portato oltre gli 800 delegati ma per avere la certezza matematica della nomination repubblicana dovra’ raggiungere quota 1.191.
L’ex-predicatore Huckabee, pur deluso per una serata senza successi , ha detto che intende restare nella battaglia finche’ l’avversario non avra’ raggiunto la quota delegati vincente.
’’Ognuno ha diritto a votare - ha detto - Tutti devono avere la possibilita’ di effettuare una scelta. Molti stati devono ancora votare e molti delegati sono ancora in palio’’.
La difficolta’ del successo di McCain in Virginia, dove ha ottenuto solo il 50 per cento dei voti repubblicani, contro il 41 per cento per Huckabee ha confermato che i conservatori del suo partito preferiscono appoggiare il suo rivale perche’ non amano alcune delle sue scelte politiche (come quelle sulla riforma delle norme sulla immigrazione).
Nelle settimane passate Huckabee aveva vinto una serie di elezioni sfruttando la sua forza nel sud, tra i conservatori e tra gli attivisti religiosi.
Il senatore McCain, considerando ormai vinta la battaglia per la nomination, ha cercato negli ultimi giorni di ricucire l’unita’ nel partito repubblicano ottenendo il sostegno del presidente George W. Bush.
I rapporti personali tra i due hanno lasciato a desiderare in diverse occasioni in passato ma tutto e’ stato dimenticato adesso per la causa cxomiune di vincere le elezioni e lasciare il partito repubblicano alla Casa Bianca.
McCain ha detto martedi’ sera , dopo la triplice vittoria, che intende ’’cercare la presenza con umilta’’’. Strappando lo slogan ad uno dei suoi avversari democratici, Barack Obama, l’eroe del Vietnam ha detto, con una allusione ai suoi lunghi anni di prigionia in mano ai vietcong, che ’’la speranza e’ un bene prezioso: penso di saperne qualcosa’’. McCain ha chiuso il suo discorso di vittoria con un altro slogan di Obama: ’’Sono pieno di entusiasmo e pronto all’azione’’.
Il senatore continua la sua avanzata e sconfigge Hillary Clinton
nei tre Stati. Fra i repubblicani a sorpresa Huckabee batte McCain
Primarie Usa, Obama trionfa
in Nebraska, Louisiana e Washington
WASHINGTON - Una notte trionfale per il senatore Barack Obama che ha vinto in modo schiacciante le tre competizioni democratiche in programma - in Louisiana, Nebraska e nello stato di Washington - mentre in campo repubblicano l’imprevedibile Mike Huckabee ha umiliato il senatore John McCain ottenendo il doppio dei suoi voti in Kansas e sconfiggendolo inoltre nelle primarie della Louisiana.
Le tre vittorie consentono a Obama di ridurre ulteriormente il suo scarto di delegati nei confronti della rivale Hillary Clinton, confermando l’estrema incertezza della sfida tra i due senatori democratici per ottenere la nomination del loro partito alla Casa Bianca, conquistando la maggioranza dei 158 delegati in palio nei tre stati.
Il senatore nero si è imposto in modo nettissimo nei due caucus, nello stato di Washinghton e nel Nebraska, ottenendo in entrambi gli stati il 68 per cento dei voti, cioè oltre il doppio di quelli conquistati dalla Clinton. Più incerta è stata la lotta nelle primarie della Louisiana dove gli afroamericani di New Orleans hanno appoggiato in massa Obama, che ha ottenuto il 56 per cento dei voti, contro il 37 per cento per Hillary. Il complesso conto dei delegati è al momento di 1.100 per la Clinton e di 1.039 per Obama, secondo il computo della Cnn.
In campo repubblicano il ritiro del miliardario mormone Mitt Romney dalla competizione ha rafforzato la posizione di Huckabee, l’unico conservatore rimasto in lizza. Nel caucus del rurale Kansas l’ex-predicatore ha conquistato il 60 per cento dei voti mentre il senatore McCain si è fermato al 24 per cento. Huckabee si è imposto anche nelle primarie della Louisiana, pur se con uno scarto minimo, mentre è impegnato in una lotta al coltello nel caucus di Washington.
"La partita è ancora aperta - ha dichiarato Huckabee - Non intendo abbandonare la gara nonostante le pressioni di alcuni esponenti repubblicani. Il nostro partito ha tutto da guadagnare dalla competizione. Gli elettori di 27 stati Usa devono ancora esprimersi. La scelta del candidato repubblicano deve essere una votazione e non una incoronazione".
McCain può contare su oltre 700 delegati mentre Huckabee ne ha poco più di 200. Il numero magico per la certezza della nomination è di 1.191 delegati. Sul piano numerico non c’è molto che Huckabee possa fare per bloccare il rivale. Ma sul piano politico ha ampie opportunità, continuando a vincere primarie col sostegno dei conservatori, per mettere in risalto il sostegno incerto dei repubblicani per il senatore eroe del Vietnam.
* la Repubblica, 10 febbraio 2008.
E’ l’arte di comunicare che fa il leader
di JOSEPH S. NYE (la Stampa, 5/9/2009)
Il miglior esempio attuale di leadership basata sull’abilità di comunicare è forse Barack Obama che, a questo punto della presidenza, ha dato tre volte più interviste di George W. Bush e tenuto quattro volte più conferenze di Bill Clinton nello stesso periodo. Alcuni critici si stanno ora chiedendo se tutto questo parlare sia una buona cosa. Tutti i leader capaci di ispirare comunicano in modo efficace. Winston Churchill attribuì spesso il suo successo alla padronanza delle frasi inglesi. I greci antichi avevano scuole di retorica per affinare le loro capacità. Cicerone lasciò il segno nel senato romano dopo aver studiato l’arte oratoria.
Le doti retoriche aiutano a creare il «soft power», la capacità di attrarre e persuadere con la cultura e gli ideali politici. Martin Luther King jr trasse vantaggio dall’essere cresciuto nella tradizione di una Chiesa afro-americana, ricca di ritmi e parole dette ad alta voce. Clinton era capace di combinare il senso teatrale con l’arte di raccontare storie e una generica abilità di comunicare un argomento.
L’eloquenza e la retorica ispirata, però, non sono le uniche forme di comunicazione con cui i leader formulano i temi e creano senso per i loro seguaci. Alan Greenspan, l’ex capo della Federal Reserve, non era certo un parlatore ispirato, ma i mercati e i politici pendevano da ogni sua parola, e lui adattava le sfumature del suo linguaggio per rafforzare la direzione in cui voleva pilotare la politica monetaria. Purtroppo, come ha dimostrato la crisi del 2008, sarebbe stato meglio se il Congresso avesse cercato di farlo comunicare in modo più chiaro.
Anche i segnali non-verbali sono importanti. Simboli ed esempi possono essere molto efficaci. Alcuni leader capaci di ispirare il loro pubblico non sono grandi oratori: non lo era il Mahatma Gandhi, ma il simbolismo del suo abito contadino bianco e del suo stile di vita parlavano più delle parole. Se si confrontano quelle immagini con le foto giovanili di Gandhi, vestito come un avvocato inglese, si vede bene come avesse perfettamente compreso la comunicazione simbolica. Quando organizzò la famosa Marcia del Sale del 1930, si assicurò che venisse mantenuto un passo lento, che permetteva di far crescere il dramma e la tensione. La marcia era stata progettata per comunicare, e non per l’apparente ragione di opporsi al monopolio del governo coloniale sulla produzione del sale.
Anche T. E. Lawrence (Lawrence d’Arabia) aveva capito come si comunica con i simboli. Quando, finita la prima guerra mondiale, andò alla Conferenza di Pace di Parigi, indossò abiti beduini per drammatizzare la causa araba. Un anno dopo, alla Conferenza del Cairo dove si negoziavano i confini della regione, passò all’uniforme dell’ufficiale britannico.
I leader devono però saper comunicare anche a tu per tu o nei piccoli gruppi. In alcuni casi, la comunicazione ravvicinata è più importante della retorica pubblica. Le capacità organizzative - cioè l’abilità di attirare e ispirare una cerchia ristretta ma efficace di seguaci - può compensare l’insufficienza retorica, esattamente come una retorica pubblica efficace può parzialmente compensare modeste capacità organizzative. Hitler era abilissimo nel comunicare sia con un pubblico lontano sia con la cerchia degli intimi. Stalin faceva assegnamento soprattutto su questi ultimi. Harry Truman era un oratore modesto, ma abilissimo ad attrarre e gestire eccellenti consiglieri.
Una buona capacità narrativa è una grande fonte di «soft power», e la prima regola che gli scrittori imparano è: «mostrare, non raccontare». Franklin Roosevelt usava la storia della canna per innaffiare il giardino, prestata al vicino la cui casa andava a fuoco, per spiegare agli americani, prima della seconda guerra mondiale, il complesso patto lend-lease, con cui avrebbe fornito materiale da guerra agli alleati. Ronald Reagan era un maestro negli aneddoti ben scelti.
Fare l’esempio giusto è un’altra forma cruciale di comunicazione. Quando Singapore, nel 2007, alzò gli stipendi dei funzionari di governo, il primo ministro Lee Hsien Loong annunciò che lui personalmente vi avrebbe rinunciato, anticipando così le perplessità del pubblico. Dopo la recente crisi finanziaria, alcuni manager si sono ridotti i compensi per comunicare le loro preoccupazioni per i dipendenti e l’opinione pubblica.
Durante la campagna elettorale 2008, Obama si è rivelato un comunicatore di grande talento. Non solo il suo stile retorico era efficace ma, dopo che alcuni commenti incendiari del suo pastore avevano minacciato di far deragliare la campagna, fece uno dei più bei discorsi sulla razza dai tempi di King. Anche adesso continua a comunicare in modo efficace, ma un presidente americano ha un problema di doppio pubblico. A volte la retorica che funziona bene in patria - come il secondo discorso inaugurale di Bush - suona ipocrita a orecchie straniere. Il discorso inaugurale di Obama, invece, è stato recepito bene sia in patria sia all’estero.
I sondaggi hanno dimostrato che, con una serie di discorsi di politica estera - in particolare quello del Cairo al mondo musulmano - Obama è riuscito a riprendere una parte del «soft power» americano. Ma una leadership efficace è comunicata anche da azioni e politiche. A questo punto, è troppo presto per capire se le politiche di Obama rafforzeranno o ridurranno gli effetti delle sue parole. Aspettando i risultati, ci aiuta ricordare la complessità del rapporto tra leadership efficace e comunicazione.
© Project Syndicate 2009