Occorre stoppare il despota Hugo Chavez. La chiusura della più antica televisione venezuelano è il segnale di come stia male la democrazia e la libertà di pensiero nel paese.
Enrique è alla guida della vecchia jeep che ci porta verso Punto Fijo, cittadina nel nord ovest venezuelano, non lontana dalla laguna di Maracaibo, la zona petrolifera del nostro paese. Il mio amico guida nervosamente, si dice felice di rivedermi e durante il tragitto mi racconta come la sua famiglia e tutti i suoi parenti stiano vivendo l’attuale situazione venezuelana. Il padre di Enrique è di origini italiane mentre la madre è originaria di Maracaibo. Una vita fatta di piccoli sacrifici e voglia di raggiungere un posto al sole, una piccola azienda per la surgelazione di gamberi e frutti di mare che erano poi distribuiti in tutto il mondo. Un’azienda familiare che funzionava abbastanza bene e che improvvisamente ha conosciuto la crisi più nera. Il governo non permette che si prendano delle iniziative commerciali o quant’altro, qualsiasi piccolo imprenditore è costretto a stare con le mani legate e quindi a chiudere. Gli operai della “Mariscos Centilli” sono rimasti tutti senza lavoro, ognuno di loro ha una famiglia e dei figli, ma a nessuno importa che siano rimasti disoccupati, tanto meno al jefe che invece non fa altro che parlare di socialismo. Enrique guida e parla mentre le ruote del fuoristrada finiscono continuamente nelle numerose buche del manto stradale, sono quasi voragini, all’interno dell’abitacolo i sussulti sono talmente forti che, per non sbattere la testa da qualche parte, si è costretti a viaggiare tenendosi da qualsiasi appiglio disponibile. Sono contento, finalmente respiro di nuovo l’aria del mio paese e sento di nuovo i profumi dei fiori e delle spezie che arrivano alle narici mentre passiamo dai piccoli centri abitati, dove le donne, nell’impossibilità di acquistare carni pregiate e formaggi costosi, friggono i platanos e scaldano i fagioli neri speziati al cumino. Quasi leggendomi nel pensiero Enrique interrompe le mie riflessioni e mi dice: ‘questa gente non soffre per la mancanza di cibo, sono anni che vivono in questa situazione, la cosa peggiore, per loro, è la mancanza di libertà che cominciano ad avvertire, inizialmente avevano creduto alla rivoluzione sociale ma ora si rendono conto che la qualità è peggiorata moltissimo e che non esiste più sicurezza nemmeno di vivere”. Ricordo Enrique da adolescente, sempre allegro e ricco di iniziative, amante della musica e del ballo, sentire ora le sue parole mi intristiscono. In serata arriviamo a casa sua e incontro tutta la famiglia, i ricordi di quando eravamo ragazzi a Caracas, prima del trasferimento a Punto Fijo, ritornano tutti per regalarci qualche ora di serenità. Quando il padre di Enrico parla di Chavez abbassa la voce, come se temesse che anche in casa sua qualcuno lo possa spiare. Sorrido meravigliato per questo e lui, vecchio saggio, mi guarda dritto negli occhi e con la determinazione tipica del meridione italiano, con un linguaggio misto tra spagnolo e napoletano mi dice: “non sorridere, io questi comunisti li ucciderei tutti”. Vengo a conoscenza di fatti che da soli potrebbero riempire le pagine di un libro di suspence e dei thriller più scioccanti, storie di spionaggio e cose che in Venezuela non mi sarei mai aspettato che potessero accadere. Di fronte alla mia riluttanza e incredulità mi mettono sotto al naso la nuova costituzione bolivariana, fresca fresca, progettata dall’attuale governo che, mascherato da socialismo, in realtà nasconde un’anima comunista della peggiore specie. Le prime due leggi che mi vengono agli occhi si occupano del tradimento di pensiero, sono previsti, cioè, fino a sei anni di carcere per chi fa della propaganda contro il governo. Alla faccia della democrazia! Alla faccia di chi ha osato definire la trasformazione del Venezuela un risultato della democrazia più grande dell’America latina. Bugie! Solo bugie. Cosa significa la costituzione bolivariana? Bolivar è morto da tantissimi anni e non sapeva nemmeno cosa fosse la rivoluzione industriale. Improvvisamente pare che Simon e Chavez siano un connubio indissolubile, tanto che le parole di uno vengono confuse con quelle dell’altro e parlare di uno o dell’altro sia la stessa identica cosa. Simon Bolivar diventa incredibilmente un sostenitore di Carlo Marx, mentre Chavez è in realtà il ritorno in carne del libertador. Simon chiedeva, però, la vita e la libertà per la gente, viveva in povertà, mentre il presidente venezuelano vieta il libero pensiero e vive negli sfarzi come un nababboe che spenda milioni e milioni di dollari per pubblicizzare la sua corrente comunista. Un paese libero e sincero come il Venezuela diventa bersaglio di meschini sotterfugi per cancellare la memoria, la storia e la libertà d’espressione. Vengono censurati i libri di storia, le parole in tv, i giornali e non esiste alcuna possibilità di opposizione. I venezuelani all’estero, grazie anche a Internet, denunciano questo stato di cose e non possono rimanere impassibili di fronte alle false affermazioni per cui in Venezuela tutto starebbe andando per il meglio. Sia benedetto l’arrivo di Internet che diventa in questo momento l’unica possibilità d’espressione. Questa rivoluzione non è la nostra, questo è soltanto l’anticamera del comunismo cubano. In Italia si è liberi, non si viene perseguiti legalmente perché non approvi quello che fa il governo, non si va in galera perché dici quel che pensi o sei contrario al governo.
Cosmo de La Fuente
(articolo prelevabile citando fonte e autore)
VENEZUELA BOLIVARIANO: IL CHAVISMO VINCE ANCHE SENZA CHAVEZ *
37436. CARACAS-ADISTA. Le ha tentate tutte il leader dell’opposizione venezuelana Henrique Capriles per rovesciare il governo bolivariano: prima disconoscendo il risultato delle elezioni vinte da Nicolás Maduro con uno stretto margine di voti e scatenando un’esplosione di violenza dal bilancio pesantissimo; poi promuovendo una strategia mirata a destabilizzare il Paese - ribattezzata dai chavisti “guerra economica” - e a diffondere, soprattutto all’estero, l’immagine di un Venezuela ormai in rovina, e nello stesso tempo cercando con grande energia una sponda in Vaticano, fino a farsi ricevere in udienza da papa Francesco; infine, sicuro della vittoria, tentando di trasformare le elezioni municipali dell’8 dicembre in un plebiscito sul governo, per accelerarne la caduta.
Gli è andata malissimo: la netta vittoria del fronte chavista - sei punti di vantaggio, su base nazionale, rispetto alla coalizione di destra e oltre il 75% dei municipi conquistati (malgrado la dolorosa perdita di Barinas, Valencia e Barquisimeto) - gli si è rivoltata contro come un boomerang, cosicché, come ha indicato il diplomático venezuelano Arévalo Méndez Romero, «ad essere delegittimato non è stato il governante, ma l’oppositore aspirante tale», sconfitto per la quarta volta consecutiva in 15 mesi, e quest’ultima volta in maniera tanto più amara in quanto inattesa, pensando Capriles di poter far leva sullo scontento provocato dalle difficoltà economiche in cui si dibatte il Paese. Scontento, tuttavia, non abbastanza profondo da mettere a repentaglio le tante conquiste sociali realizzate dalla rivoluzione bolivariana, e a cui il governo Maduro ha dimostrato di saper dare continuità.
Tuttavia, come scrive il giornalista e militante bolivariano Rafael Rico Ríos su Rebelión (9/12), non si è trattato, propriamente, neppure di una vittoria del governo Maduro, a cui va anzi rimproverato più di un errore, in termini di inefficienza e di mancanza di programmazione: «Non è stata una vittoria del governo, ma una vittoria ideologica», scrive Rico Ríos evidenziando come il popolo venezuelano, benché orfano del suo leader storico, «abbia assimilato con grande maturità e chiarezza il significato della lotta di e della contrapposizione tra due modelli economici», mostrando di saper ben distinguere tra «la difesa degli interessi di da parte dell’oligarchia e i possibili errori commessi dall’attuale governo.
Pertanto, se qualcosa non può fare ora il presidente è adagiarsi sugli allori: chiedendo e ottenendo dall’Assemblea nazionale, nel novembre scorso, l’approvazione della Ley Habilitante (che, come previsto dalla Costituzione, gli conferisce la possibilità di governare per decreto per un anno) Maduro si è assunto il compito di fronteggiare l’assalto della destra contro l’apparato produttivo del Paese, condotto attraverso la speculazione, l’accaparramento dei beni di prima necessità, alimenti compresi, il contrabbando e il mercato nero delle valute, e di trovare soluzione ai problemi mai risolti, come la corruzione, l’insicurezza e una spaventosa inflazione (a cui però andrebbero aggiunti anche lo scarso impulso all’industra nazionale, l’eccessiva dipendenza dal petrolio, i guasti legati al modello estrattivista).
Già nei giorni precedenti alle elezioni, del resto, Maduro aveva lanciato un’offensiva - risultata determinante per la vittoria elettorale - contro «i responsabili della rapina ai danni del popolo», imponendo prezzi giusti per i generi di consumo, oggetto di speculazioni e aumenti ingiustificati, e intervenendo sui margini di profitto e sull’utilizzo dei dollari statunitensi che lo Stato concede alle imprese. E, all’indomani della vittoria, ha annunciato un nuovo impegno sul fronte della politica abitativa, della sicurezza e del miglioramento del sistema ospedaliero, nonché la ripresa di quel dialogo con la popolazione, ribattezzato “governo in strada”, intrapreso dal presidente appena tre giorni dopo il suo insediamento, quando percorse in lungo e in largo il Paese per discutere con il popolo di salute, educazione, politiche abitative, potere popolare.
Un cambio di passo, tuttavia, è quello che chiede Felipe Pérez Martí, già ministro della pianificazione economica nel governo Chávez negli anni 2002-2003 e convinto sostenitore degli ideali della Rivoluzione Bolivariana, secondo il quale, se Hugo Chávez «ha fatto molte cose bene», ha tuttavia anche commesso alcuni errori, a cominciare dalla sottovalutazione del tema della sostenibilità macroeconomica: quello che il governo è chiamato a fare ora, scrive (Financial Times, 11/12), è una profonda revisione della politica economica, mettendo mano all’enorme deficit fiscale, allo squilibrio cambiario e alla riforma del fisco. Se «Hugo Chávez è stato fonte di ispirazione per milioni di persone che, in Venezuela e nel mondo, credono che la giustizia sociale debba essere il cuore del contratto sociale di una società», il miglior modo «di preservare la sua eredità non è ignorare i problemi macroeconomici del Paese, ma porvi rimedio». (claudia fanti)
* Adista Notizie n. 45 del 21/12/2013
.-Venezuela, quarto mandato per Chavez
Il presidente si riconferma col 54,4%, Capriles al 44,4% *
CARACAS, 8 OTT - Il presidente venezuelano Hugo Chavez ha conquistato il suo quarto mandato consecutivo vincendo le presidenziali col 54,4% dei voti. Il suo sfidante Henrique Capriles ha avuto il 44,4% delle preferenze. ’’Grazie al mio amato Pueblo! Viva Venezuela! Viva Bolivar!’’, ha commentato a caldo su Twitter il leader bolivariano.
CHAVEZ O BARBARIE
di Fulvio Grimaldi *
Nella nostra condizione di schiavi coloniali non riuscivamo a vedere che la “Civiltà Occidentale” nasconde dietro alla sua scintillante facciata una muta di jene e sciacalli. E’ l’unico termine da applicare a chi si aggira per realizzare “compiti umanitari”. Una belva carnivora che si nutre di genti disarmate. Ecco cosa fa all’umanità l’imperialismo. (Che Guevara, all’Assemblea Generale dell’ONU, 1964)
* VEDI: CHAVEZ O BARBARIE | Informare per Resistere
http://www.informarexresistere.fr/2012/10/04/chavez-o-barbarie/#ixzz28dbk1Vuu
Nel tempo dell’inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario!
AMERICHE - mondo
Chávez sì, Chavez no. In Venezuela è arrivata l’ora della scelta
di Geraldina Colotti (il manifesto, 6.10.2012)
Domani 19 milioni di venezuelani potranno decidere se confermare per la quarta volta l’attuale capo di stato o puntare sul candidato dell’opposizione. "Fame zero" e classe media: entrambi gli schieramenti invadono il campo avverso Gli indecisi sarebbero circa il 30% dell’elettorato. Si vota con un sistema giudicato a prova di brogli
«Vigileremo a che tutto si svolga in pace e con allegria». Con queste parole, Tibisay Lucena, presidente del Consejo Nacional Electoral (Cne), ha ufficialmente chiuso la campagna politica per le elezioni presidenziali in Venezuela, a mezzanotte di giovedì. Domani, 18 milioni e 900.000 aventi diritto potranno decidere se riconfermare per la quarta volta l’attuale capo di stato, Hugo Chávez Frias, o puntare sul candidato di opposizione, Henrique Capriles Radonski, che corre per la coalizione di centrodestra Mesa de la unidad democratica (Mud). In ogni caso, affideranno le loro preferenze a un sistema elettorale automatizzato, unanimemente riconosciuto a prova di brogli.
Nella IV Repubblica - prima che Chávez venisse eletto, nel 1998, con il 56% delle preferenze - per votare bastava mostrare la tessera. Adesso, prima di entrare nell’urna, ogni elettore deve lasciare la propria impronta digitale, che viene confrontata con quella custodita nel database generale, utilizzato per il rilascio della carta d’identità. Poi, per evitare il doppio voto, l’impronta viene registrata nell’archivio telematico il cui software è criptato: prima di installarlo, sono stati convocati gli schieramenti politici, ognuno dei quali ha ricevuto una password. La conta dei voti si fa a riscontro con il calcolo della macchina.
Un sistema elettorale maturo
Il sistema elettorale oggi «è sufficientemente maturo da non richiedere osservatori internazionali», ha affermato Tibisay Lucena, e perciò il Cne non ha rivolto inviti in questa forma. In compenso - ha aggiunto - sarà presente l’Unione delle nazioni sudamericane (Unasur) per una «missione di accompagnamento» che implica «rispetto e considerazione tra pari». In questo quadro, il Partido socialista unido de Venezuela (Psuv) ha accreditato circa 51.000 invitati da ogni parte del mondo. L’opposizione, intorno ai 52.800.
Diversi rappresentanti della Mud si sono espressi contro la modalità di voto elettronico perché - dicono - intimorisce gli elettori. Però hanno scelto di utilizzare il sistema anche per le loro primarie interne. Un’ambivalenza che ha caratterizzato anche la campagna elettorale dell’opposizione. In quasi 14 anni, il governo "bolivariano" ha avuto il sostegno del voto popolare: 13 elezioni vinte e solo un referendum perso, per un pugno di voti. Per spazzarlo via, la destra ha giocato un po’ su tutti i tavoli: quello del golpe a guida Usa (2002) e della micidiale serrata petrolifera (2002-2003); quella del referendum per revocare Chávez (2004); quella del boicottaggio elettorale e del discredito, basato sul controllo che le deriva dai principali mezzi di informazione.
Sui siti della Mud, il modello delle «rivoluzioni arancioni» costruite nelle stanze dei poteri forti e i consigli di Gene Sharp che spiega nei suoi libri come innescarle, spopolano. Per quest’ultima tornata di elezioni (alle presidenziali seguiranno le regionali, a dicembre, e le comunali, ad aprile 2013), il blocco di centrodestra ha però deciso di rifarsi il look: avvalendosi - ha scritto la stampa di San Paolo - dei consigli del pubblicitario brasiliano Renato Pereira, capo strategia dell’impresa Prole.
Il volto presentabile del centro
Capriles - rampollo delle grandi famiglie, attivissimo nel golpe del 2002, uomo di destra proveniente dalle fila del partito Primero Justicia - si è presentato allora come il volto accettabile del moderatismo centrista: appetibile per i mercati internazionali e per quanti vedono come il fumo negli occhi qualunque tentativo di scalfire i grandi monopoli. Si è ammantato, anche, di un po’ di vernice progressista. Così, il programma della Mud («Petroleo para el progresso») che mira a riconsegnare il paese nelle mani dei grandi potentati economici, sostiene anche di voler mantenere (ma in termini assistenziali) alcune delle misure sociali portate avanti dal governo Chávez: non certo la nuova legge sul lavoro, che garantisce ampi diritti ai lavoratori e contro la quale si sono scagliate le imprese. Non la riforma tributaria, che prevede maggiori controlli fiscali e contro la quale i grandi imprenditori hanno già fatto ricorso alla Corte costituzionale. E tantomeno il piano di edilizia popolare della Mision vivienda. Si parla di un «Plan Hambre Cero», con un richiamo al programma «Fame zero» adottato in Brasile durante la presidenza di Lula da Silva. Capriles è d’altronde arrivato a dichiarare a più riprese la sua simpatia per l’ex presidente del Brasile, cercando di accreditare un presunto sostegno brasiliano alla sua linea politica. Solo che, in diretta dal Foro de São Paulo, dov’erano presenti tutte le sinistre latinoamericane, Lula ha espresso invece il sostegno totale del suo partito e il proprio personale alla candidatura di Hugo Chávez: «La sua vittoria sarà la nostra vittoria», ha dichiarato fra gli applausi Lula.
In basso a sinistra
Una politica della confusione, quella della destra, ben sintetizzata dallo slogan elettorale scelto da Radonski, «In basso a sinistra»: una indicazione per la scheda elettorale dov’è situato il suo simbolo, ma anche un richiamo (quantomai incongruo, dato il pedigree del personaggio e dei suoi alleati) alla campagna zapatista contro il verticismo dei governi.
Trasformismi per cacciare voti anche fra i ceti popolari, fidando sull’inevitabile usura del governo Chávez e sulla platea degli indecisi, valutata intorno al 30% dell’elettorato. Un dato enfantizzato oltremisura per delegittimare l’eventuale vittoria chavista, sostiene il campo della sinistra. In estate, persino un sondaggio di Datanalisis (appartenente a Vicente Leon, che sostiene l’opposizione) ha dichiarato che il 62% dei venezuelani considera positivo il bilancio del governo Chávez e lo rivoterebbe. Ma poi, altre inchieste di medesima provenienza hanno registrato una progressiva erosione del vantaggio tra l’attuale presidente e il suo sfidante.
Anche il governo bolivariano ha cercato di pescare nel campo avverso, mettendo fortemente l’accento sulle misure erogate a favore della classe media. Chávez ha peraltro condotto una campagna elettorale all’insegna del «Plan 1×10?», ovvero sull’impegno a moltiplicare per dieci ogni attivista bolivariano. E senza trionfalismi: «Vinceremo, ma non abbiamo ancora vinto. Non bisogna abbassare la guardia», ha affermato nell’ultima settimana di comizi. Entusiasmo da stadio
Per il discorso conclusivo di giovedì, Capriles ha scelto l’Avenida Venezuela di Barquisimeto, nello stato Lara, una delle più grandi strade del paese. Il mare di camicie rosse che sostiene «il processo bolivariano» ha invece invaso, simbolicamente, sette vie di Caracas, per affluire infine in Piazza Bolivar ad ascoltare il discorso di Chávez: «Il 7, sarà 7 a zero», dicevano i cartelli in piazza, sintetizzando l’entusiasmo da stadio che investe il paese a ogni tornata elettorale. Di fronte alla folla che lo acclamava sotto una pioggia battente, il "comandante" ha invitato questa «moltitudine bolivariana» a manifestarsi nelle urne: «In questo modo - ha concluso - gli daremo una bella batosta».
Il golpe tv di Chavez
di Maurizio Chierici *
C’è una notizia che non sembra importante, invece è importante perché le nuove generazioni possono guardare al futuro solo se informate con onestà. Niente di nuovo ma bisogna ripeterlo perché l’antenna selvaggia tira diritto. Da stamattina «Radio CaracasTv» non va in onda. Il governo Chavez ha tagliato la frequenza scaduta poche ore fa. È stata una delle televisioni che ha guidato il golpe contro Chavez nel 1992. Qualche mese dopo si è impegnata con bollettini di guerra per sostenere lo sciopero dei dipendenti della Pdvsa, società petrolifera statale di un Paese che vive di petrolio. Un modo per precipitare nel caos il presidente risorto dopo 36 ore di prigione militare; non importa le conseguenze economiche. Il Venezuela resta senza benzina, auto ferme, negozi chiusi per un mese borse e affari a picco. E la gente deve portare pazienza. Eppure ogni volta che si va a votare il 70 per cento vota Chavez e il 30 per cento vota contro.
Più o meno il rapporto tra miseria e benessere. Con populismo e demagogia (secondo l’opposizione) Chavez decide e impone con la foga di un militare in congedo. Ma se si tornasse a votare domenica, riavrebbe il 70 per cento dei consensi di chi ha voglia di sperare. La gente tocca con mano i primi cambiamenti sgraditi alle classi dominanti, come succede in ogni posto quando si rivedono i privilegi. Anche le soluzioni restano le stesse di ogni America Latina e di altri paesi che la grande economia ha colonizzato. O si eliminano le elezioni, o si torna alle vecchie abitudini care alle aristocrazie del potere e alle borghesie satelliti cresciute attorno: vogliono rispetto per il censo e tolleranza zero verso le classi emarginate e maleducatamente inquiete. Allora Chavez ha fatto bene? Chavez ha sbagliato. Non si spegne mai la voce di chi informa. In Italia è successo negli anni di Berlusconi: licenziati dalla Rai Biagi e Santoro colpevoli di testimoniare ogni realtà. Ma in Italia l’essere scacciati dalla Rai in obbedienza al proprietario Mediaset, azienda concorrente all’ente di Stato, voleva dire sparire per l’intera durata di un governo presieduto dal proprietario Mediaset, riesumazione elettronica dell’antico confino fascista. Cesare Pavese, Carlo Levi e ogni intellettuale o piccolo italiano che non sopportavano il regime, sono stati deportati in paesini sperduti dell’Italia senza strade, o chiusi a Lipari o in altre isole, come Pertini e i padri della democrazia. Dovevano tacere. Il dolore dei loro diari è arrivato alla gente dopo la caduta di Mussolini. Chavez ha sbagliato anche perché RadioTvCaracas stava aspettando il giudizio dell’Alta Corte alla quale ha fatto appello. Giudizio arrivato a poche ore dalla chiusura delle frequenze quando la nuova Tv di stato era ormai pronta a prendere il posto della Tv giubilata. Troppi sospetti per immaginare una sentenza al di sopra delle parti.
Ma a differenza degli ordini di ogni uomo forte, a differenza di ciò che è capitato a Biagi e Santoro oscurati fino a quando Palazzo Chigi non ha cambiato inquilino, RadioTvCaracas può continuare a trasmettere via cavo e sul satellite. I cavi abbracciano Caracas, zone rosa, ma anche ville e palazzi e residenze della città. Il satellite arriva su ogni tetto: quasi un milione di antenne copre il Venezuela. Fino a poche ore fa RadioTvCaracas era la seconda potenza radio-televisiva del Venezuela. Nasce nel 1929 dal gruppo Phelps, holding alla quale partecipa la Rca, casa discografica famosa nel mondo. Nel 1936 la Phelps cambia nome diventando Radio Caracas alla quale aggiunge la Tv: nel 1953: la dittatura del generale Jimenez ha bisogno di popolarità. Chiede un favore e i devoti non lo negano: vuol disporre di microfoni che facciano da stampella ad un regime tra i primi ad inaugurare la parola «desaparecidos». Il gruppo degli eredi della vecchia Phelps è guidato da Peter Bottone, azionista di maggioranza; Marcel Garnier è l’integrante della famiglia. Come succede un po’ ovunque, Peter Bottone non fa solo l’editore. Giro d’affari largo. Fra i tanti impegni, rappresenta la holding Usa che tredici anni fa ha venduto all’aviazione militare venezuelana caccia da guerra F16, affare finito nel turbinio di uno scandalo non ancora risolto: tangenti e milioni di dollari svaniti chissà dove. Ma l’etica dei proprietari non cambia il problema. Anche se non chiude la bocca a nessuno, negare una frequenza ad una televisione sul mercato è decisione che inquieta il laboratorio maleducato della democrazia venezuelana. Gli editori privati dell’opposizione (giornali, radio e Tv) controllano l’85 per cento della raccolta pubblicitaria. Portano notizie all’80 per cento dei venezuelani. Mentre si chiudeva RadioTv Caracas, venivano rinnovate le sequenze di tutte le altre concessioni private, sei Tv e 29 radio, sempre critiche verso Chavez. La legge sulle frequenze risale al 1987: l’ha voluta il presidente socialdemocratico Lusinchi «per adeguare la vita del paese alle regole della democrazia». Concede per vent’anni l’uso di un bene dello Stato, riservandosi di riconfermarlo alla scadenza «in assenza di gravi motivi».
Chissà se un golpe è grave. Restano attivi e contrari a Chavez i due colossi della comunicazione radiofonica e televisiva di una nazione dove «la maggioranza della popolazione si disinteressa delle informazionis scritte». Insomma, non legge giornali. Lo spiega al telefono Andrés Canizalez, ricercatore all’Università Cattolica Andrés Bello, una delle roccaforti antichaviste di Caracas. La Tv alla quale hanno tolto le frequenze è la seconda del paese. Il gruppo importante si chiama Venevision nelle mani di Gustavo Cisneros, comunicatore venezuelano principe nelle due americhe. È proprietario di Univision, catena radio-Tv la cui influenza diventa determinante nelle scelte della comunità latina che vota negli Stati Uniti. Qualche settimana fa ha pagato una multa di 24 milioni di dollari per aver trasmesso in ore “proibite” telenovelas non adatte ai bambini. I regolamenti Usa sono mannaie. Prevedono carcere immediato e rischio di sedia elettrica a chi invita a rovesciare il presidente votato dal popolo.
Garnier e Bottone erano destinati ad un’altra fine se avessero sceneggiato a Washington gli attacchi della Caracas ’92. Con Roberto Marinho, proprietario della Rede Globo brasiliana, Murdoch (Cnn) ed Emilio Azcarraga, miliardario che ha nel cassetto la Televisa messicana, Cisneros ha affittato un satellite per distribuire le trasmissioni nei due continenti. I suoi interessi si allargano un altri campi: petrolio, supermercati, banche Coca Cola e poi Pepsi. Gli affari lo legano a Bush padre; passano assieme le vacanze di pesca attorno a Los Roques, isole dei Carabi. Tifoso anti Chavez nei giorni del colpo di Stato e dello sciopero del petrolio quando la sua Venevision era uno dei retropalchi del golpe, si è ammorbidito dopo l’incontro con Chavez favorito dalla mediazione di Jimmy Carter. Le critiche (e durissime) al governo continuano, ma il linguaggio è cambiato: ospita “perfino” le risposte dei vari ministri. RadioTvCaracas le ha sempre rifiutate.
L’altro colosso che non ha problemi di rinnovo è Globovision: la legge dei vent’anni di concessione di Lusinchi le concede di andare fino al 2014. È una specie di megafono politico dell’opposizione radicale con venature xenofobe verso i settori popolari afrovenezuelani. Durante il colpo di stato ha trasmesso per due giorni i proclami che annunciavano «la fine della dittatura». Fra i proprietari, un’antica famiglia dell’oligarchia, ma la maggioranza delle azioni sarebbe da poco finita nel portafoglio di un gruppo nordamericano. Nel 2002 Globovision ha ignorato il ritorno di Chavez alla presidenza: si è limitata a trasmettere cartoni animati per bambini trascurando la notizia. È ancora li, libera di attaccare senza cambiare registro.
Un modo per suscitare disgusto nei paesi che contano è l’uso dei corrispondenti stranieri a Caracas. Spargere questa contrarietà nell’altra America e in Europa diventa lo strumento che permette di scandalizzare. E nelle redazioni di altri paesi si fa la conta su chi sta con noi e chi contro di noi. Venti giorni fa Alan Garcia, nuovo e vecchio presidente del Perù in eterna questua alla porta degli Stati Uniti, ha cancellato la frequenza di tre televisioni e non so quante radio oppositrici. Neanche una parola di qua e di là dal mare. L’anno prima delle elezioni, Uribe, presidente Colombia, ha tolto tre frequenze a due Tv non amiche e oscurato le frequenze di radio e Tv regionali e comunitarie. Come Chavez ha cambiato la Costituzione per poter essere rieletto; sta per ricambiarla per durare in eterno. Nessuno si scandalizza.
Alla vigilia delle elezioni messicane, l’ex presidente Fox ha presentato una legge approvata con un gioco pesante di ricatti - a destra e sinistra - raccontati dai giornali locali senza suscitare apprensioni al Congresso americano o nel Parlamento Europeo. Fox consegna al successore Calderon (stesso partito) un decreto su radio Tv che assegna il 90 per cento delle frequenze di Stato a Televisa di Emiliano Azcarraga (partner nel satellite con Murdoch, Cisneros e Marinho) e a Tele Atzeca dove più o meno si mescolano gli stessi interessi. Tutte le radio comunitarie, radio indigene e televisioni regionali non gradire, sono condannate al mutismo. Chi ha sentito una protesta alzi la mano. Nessun partito - democratici e repubblicani - si è mosso, ma per Chavez si. Due i motivi: Chavez ha sulle spalle la maledizione di tanto petrolio e nessuno gli perdona di influenzare il mercato. E poi Chavez è un presidente maleducato: parla tanto e non nasconde la polemica nei ricami della diplomazia. Linguaggio da caserma. Il secondo motivo inquieta: stiamo per essere avvolti da una rete destinata a controllare l’intero sistema della comunicazione, per il momento nelle americhe, il resto sta per venire: non è un caso che l’ex primo ministro spagnolo Aznar si sia messo a lavorare per Murdoch. E noi a guardare, schiacciando tranquillamente il bottone in attesa di notizie.
Che Caracas non sia lontana dall’Italia lo dimostra la strategia elaborata per accendere la protesta delle folle. Dagli studi di RadioTvCaracas è uscita qualche settimana fa una telenovelas al miele, mandata in onda in modo da far cadere le puntate cruciali nei giorni in cui lo stato si riprendeva la frequenza. Un bel numero di aficionados impazzisce e protesta: non sapranno se l’eroina sposerà il suo mascalzone azzurro dal quale aspetta un bambino. Colpa di Chavez. Ricordate il referendum che abbiamo votato, Berlusconi a remare contro agitando fantasmi? Con la lacrima sospesa ripeteva: se passa nessuno vedrà più Mike Bongiono, Dinasty e Beautifull. Migliaia di persone senza lavoro quando Emilio Fede e Rete 4 finiranno nel satellite. Anni lontani, ma non sono passati. Stiamo ancora limando il conflitto d’interessi. Ma a differenza di Chavez parliamo in punta di forchetta.
mchierici2@libero.it
* l’Unità, Pubblicato il: 28.05.07, Modificato il: 28.05.07 alle ore 8.39
Non sono per nulla daccordo col contenuto dell’articolo. Mi chiedo che senso abbia scrivere fregnacce su internet, quando facilmente si possono confrontare varie fonti.
Io fossi giornalista mi preoccuperei seriamente della condizion dell’informazione in italia, o forse avrei troppa paura per farlo?!?!
Sta malissimo l’informazione, caro Riggio, in Italia.
Ma qui, da queste parti, a Sud, può scrivere chiunque. Ci mandi il suo pezzo.
Emiliano Morrone
E allora?
Che cosa è la democrazia?
Emiliano Morrone
Rispondo solo in un modo. La manifestazione contro questa chiusura obbligata, contava migliaia e migliaia di persone, per le strade. Quella fittizia a favore contava solo 80 persone. Vorrei vedere voi se al governo arrivasse qualcuno, un comandante supremo, che cancella la costituzione e decide di eliminare la libertà di stampa e di pensiero, chiudesse tutto, anche questo libero sito in internet, se vi piacerebbe. In perfetto stile despota medio orientale proibisce persino minigonna, tinture ai capelli, uso di pannolini e assorbenti usa e getta. Si sta insinuando nella mente e nella vita di tutti. E’ soltanto un mostro, quindi, tutta la demagogia fatta sulla pelle degli altri mentre siamo qui in Italia con le gambe comode e i piedi inseriti in mordite ciabattine, non potrà cambiare la realtà, domandatelo ai venezuelani liberi di parlare. In Venezuela, nel mio paese, si respira aria dispotica ed è iniziata l’agonia della libertà di pensiero, della libertà di parola. Questo non è socialismo, questo è solo una folle tirannia. Occorre cacciarlo! Che sia maledetto.
Cosmo de La Fuente
http://www.noipress.it/attualita/DettaglioNews.asp?ID_News=4075
No vale yo no creo A furia di non credere ci stanno distruggendo il paese http://www.youtube.com/watch?v=o1kE0moMp6U
http://www.adnkronos.com/IGN/Esteri/?id=1.0.980493679
Da adnkronos!
http://www.arcoiris.tv/modules.php?name=Search&testo=puente+llaguno&tipo=testo
forse capirete il golpe mediatico del venezuela