Cosmo de La Fuente

L’arte di vivere e di sopravvivere

martedì 26 dicembre 2006.
 

di Cosmo de La Fuente

Erano i primi anni settanta, la ‘vieja Pancha’ amava parlare e stupire chi l’ascoltava. Nelle calde serate tropicali ci si radunava nel ‘patio’ di casa, intorno a quest’anziana donna dai crespi capelli bianchi e dalla voce tremolante. Originaria di Barlovento, si era trasferita a Caracas nel 1968. La vieja aveva appreso i segreti della magia barloventeña, un’ arte ‘brujera’ (stregoneria) tipica di quelle zone, si presentava alle riunioni fornita di foglie, di piante e di ramoscelli secchi che agitava in aria seguendo un rito stabilito. La vecchietta masticava foglie di tabacco che sputava un istante prima di comunicare, ad occhi chiusi, le sue predizioni. Quest’immagine affascinante e terrificante come gli horror giapponesi, è rimasta nella mia mente. La povertà e l’insicurezza in cui si viveva erano i motivi per cui ci si sentiva attratti da personaggi di questo tipo. Erano molte le persone che, prima di prendere decisioni importanti, si rivolgevano a lei vista come il mezzo per mediare con Dio. Pancha divenne una figura familiare per tutti gli abitanti di quel quartiere dal momento che era riuscita a dare speranza e sfogo a tanti disperati, il suo intervento era come quello di uno psicologo. La gente pianse sconfortata alla sua morte improvvisa causata da un infarto. Rimasero tutti orfani del suo volto, della sua voce, del suo profumo floreale, delle sue stravaganze e, soprattutto, delle sue parole di fiducia. Ero un ragazzino allora e oggi, malgrado non creda nei poteri soprannaturali, mi ritrovo ancora a pensare quella donna. A volte sogno Pancha che mi annuncia un evento che sta per accadere e, il fatto che regolarmente il fatto si avveri, mette a dura prova il mio scetticismo. Figuriamoci che effetto farebbe su quelle persone che ci credono intensamente. Non sono pochi i politici italiani e internazionali che si affidano alle carte di sedicenti cartomanti prima di fare delle scelte. Sono passati molti anni da allora , la prostrazione della maggior parte dei venezuelani si è accresciuta, l’unica voce che giunge è quella di Chavez, il nuovo messia. Una sorta di stregone ‘buono’ che si rivolge al popolo come un padre fa verso i propri figli, una specie di ‘vieja Pancha’ che ti parla attraverso la radio e la televisione. Dopo aver preso il posto di Bolivar, il comandante si sostituisce anche alla fede religiosa . La povera gente non ha termini di confronto ma si rasserena ascoltandolo, e si convince, sempre di più, che il nemico americano sta per invadere la loro patria. Ma il venezuelano è fiero di vivere e ama la musica, non si trasformerebbe mai in un kamikaze, nessuno potrebbe convincerlo. Intanto a Caracas, a Maracaibo e in altre città, la confusione regna sovrana, come ai tempi di Al Capone e di Lucky Luciano quando i padrini mafiosi, per conquistarsi il favore della gente, diventavano sindacalisti e allestivano mense per offrire pasti caldi ai bisognosi. Per il popolo va bene così, dove finirebbe il Venezuela senza un vero capo capace di riassettare le maglie di una società che rimane ambigua? Da una parte i ricchi e dall’altra i poverissimi. Ma è bellissimo così, se lasci la parte moderna della capitale, ti ritrovi nei rioni più antichi dove, venditori ambulanti, ti invitano ad acquistare succhi di canna da zucchero e ‘raspados’ (una sorta di granita tropicale), oppure ti fermi a la ‘arepera’ per mangiare una frittella di mais ripiena di formaggio mentre la musica al ritmo di salsa ti rilassa il cervello e poi.... ‘chi se ne frega della politica’. Quando prendi un aereo ti fidi del pilota e del comandante, lo stesso devi fare quando vivi in un paese del genere. Ci pensi il giorno del voto e poi affidi la tua esistenza a chi governerà il paese. Senza estremismi, senza pregiudizi politici che sono utili soltanto a chi la politica la fa. In questi giorni sto seguendo una sorta di documentario ambientato in Venezuela, una via di mezzo tra reality e fiction, si chiama ‘Laguna Blu’, su una rete satellitare, ‘Marcopolo’ che si occupa di viaggi e turismo. I protagonisti sono Gabriel e Valeria, lui di Caracas e lei italiana, proveniente dalla trasmissione della De Filippi ‘Saranno Famosi’. Con allegria e simpatia ci presentano un Venezuela molto turistico e affascinante. Sarà perché ho scritto, cantato e parlato molto del Venezuela, ma mi giungono centinaia di mail inerenti a questa trasmissione, con paragoni ai miei racconti e alle mie canzoni. Mi fanno sentire un po’ Vieja Pancha’ e tutto questo mi diverte e mi tocca nei sentimenti. Sarebbe bello anche un programma dove oltre al discorso turistico si approfondissero i lati folkloristici, lo sguardo dei venezuelani con il racconto proveniente dall’anima del popolo. Un giorno partirò con una telecamera e un microfono per realizzarlo, chissà che dal terzo mondo non ci giunga una nuova arte di vivere che possa insegnare, a qualcuno, come superare i momenti più bui della propria esistenza. I luoghi sono sicuramente meravigliosi ma la povertà dei ranchos (baracche) va esaminata a fondo. Proprio da una baraccopoli proveniva la vieja Pancha, e attraverso le sue parole, già molti anni fa, si riusciva ad avvertire l’insicurezza della vita di chi stava in quelle zone. Gli omicidi sono molto numerosi e per poter visitare i ‘barrios’ hai bisogno di qualcuno ben inserito che ti accompagni. Incredibilmente questa gente è felice: sorride, balla e ...uccide. Ogni settimana almeno 80 omicidi. A pochi chilometri di distanza, sempre a Caracas, c’è il ‘Sambil’, il centro commerciale più grande dell’America latina. E non è l’unico. Ma come fanno i venezuelani a fare acquisti proibitivi in questi centri? Qualcuno dice che siano i soldi investiti da parte dei narcotrafficanti, ma mi chiedo come faranno a tirare avanti i negozianti di questi centri. Per i poveri diavoli non importa non poter fare acquisti importanti, per loro è sufficiente ritrovarsi tra amici, bere qualche birra, ballare salsa e merengue e godersi i profumi del proprio paese. Soprattutto ora che sta per arrivare il Natale. Le donne si organizzano per preparare le ‘hallacas’: impasto di farina di mais, carne, canditi, avvolto in foglie di banana e bollito. Senza le hallacas non sarebbe Natale in Venezuela. Anche gli italiani che vivono in quel paese da moltissimi anni non ne fanno più a meno e sulle loro tavole, vicino alle lasagne e ai cannelloni ripieni, tovi le ‘hallacas’, le ‘arepas’ e le ‘empanadas’. Ma il ricordo si perde nella notte dei tempi e spesso ritorno bambino per le strade di Caracas e mi sembra di sentire ancora il caldo dell’asfalto sotto ai piedi nudi. Se per incanto mi ritrovassi nella mia città ad occhi bendati la riconoscerei dal profumo dei fiori, della strada e delle spezie. Mi definisco ‘ibrido’ perché in me convivono il piacere, l’orgoglio e i limiti di entrambi i paesi: Venezuela per nascita e Italia per origine. Sarà bello ritrovarmi vecchio nel paese in cui la mia mamma ‘campana’ mi portava per mano tra le bancarelle del vecchio mercato di ‘Quinta Crespo’, circondato da volti color caffè e tanta paura di vivere. Quando la paura di vivere fa parte della tua crescita, però, diventa un colore della tua esistenza. Non posso nemmeno immaginare il mio Venezuela senza l’agitazione di guardarsi intorno per verificare che non ci sia qualche malintenzionato. Come ovviare a questo ci penserà il governo, forse, aiutando la classe più povera e bisognosa. Nel frattempo siamo tutti ‘hermanos’. La cosa più importante è che i bambini possano vivere i loro primi anni nella serenità e che il futuro possa prospettarsi almeno ‘normale’ se non roseo. Ma quello dei bambini venezuelani è un discorso a parte che mi piacerebbe affrontare in un capitolo specifico. Telefono subito al fornitore per chiedere se è arrivato il pacco con la farina e le foglie per preparare le ‘hallacas’, alla prossima.


Rispondere all'articolo

Forum