Gentile direttore,
nella nuova Enciclica il Papa ribadisce un concetto già espresso nel suo libro su Gesù: il mondo va in rovina là dove non c’è fede in Dio. Esponenti di altre religioni e sette commettono lo stesso errore. La realtà però è ben diversa. Moltissime degnissime persone, pur non avendo fede, si adoperano per il bene della società, per un mondo migliore, e alle volte senza neppure saperlo fanno la volontà di Dio. Per contro esistono persone che credono in Dio, ma mandano il mondo in rovina e non fanno la volontà di Dio.
Il Pontefice scrive: "Dio è il fondamento della speranza...quel Dio che possiede un volto umano e che ci ha amati sino alla fine". L’Enciclica però sembra voler togliere la speranza ai credenti che hanno sempre avuto fiducia che quel Dio dal volto umano non abbandoni mai le sue creature, anche se non lo conoscono o non credono in lui; a coloro che hanno sempre sperato che gli uomini credenti e non credenti possano perseguire il bene grazie a quei "Comandamenti iscritti nel cuore dell’uomo come Legge morale universale, valida in ogni tempo e in ogni luogo" (cf. Discorso di Giovanni Paolo II - Celebrazione della Parola al Monte Sinai - 26/2/2000).
Il Pontefice profetizza la rovina del mondo qualora non si creda in Dio; molti credenti sperano che Dio impedisca in ogni caso la rovina del mondo. Secondo il Pontefice la divina Provvidenza è condizionata dal fatto che gli uomini siano credenti o non credenti nel Dio dal volto umano, ma secondo il Concilio Vat.1, "Dio, con la sua provvidenza protegge e governa tutto ciò che ha creato"; e Gesù disse: "Non si vendono forse due passeri per un soldo? Ebbene, uno solo di essi non cadrà senza il volere del Padre vostro" (Mt 10,29).
Renato Pierri
Enciclica Spe Salvi
La liberazione nella sofferenza
di Gianni Vattimo (il manifesto, 01.12.2007)
Non si fa dell’ironia gratuita se si dice che anche questa ultima enciclica di Benedetto XVI dedicata appunto alla speranza, non riesce ad apparirci solo come un ennesimo documento proveniente da una cattedra di conservazione sociale, di banalizzazione delle aspettative etiche, di sostanziale ipocrisia, tratti che troppo spesso siamo legittimati ad attribuire all’insegnamento della Chiesa post e anticonciliare dei nostri giorni. Ogni volta rinasce in noi la speranza che appaia un segno di cambiamento capace di ridarci il gusto di appartenere alla chiesa di Cristo. L’enciclica pubblicata oggi poteva essere una grande occasione di risuscitare questa speranza
Abbiamo subito pensato agli anni trascorsi del prof. Ratzinger a Tubinga quando vi insegnava, se non sbagliamo, anche Ernst Bloch, autore di quel monumentale Principio Speranza che Benedetto XVI non ricorda affatto nelle sue numerose citazioni, del resto prevalentemente riferite ai Padri della chiesa e accuratamente prive di ogni richiamo alla teologia contemporanea. Illusione e delusione, dunque, sono le prime impressioni che ricaviamo dalla lettura che abbiamo potuto fare del testo. Ammiriamo sempre l’aspetto dotto, quasi «scientifico», dei discorsi teologici che possono giovarsi di una tradizione testuale e interpretativa così vasta, che non possiamo mai ridurre alla semplice «astuzia dei preti», come farebbe qualche autore ateo di successo. Quelle pagine e quegli autori sono tracce di esperienze autenticamente vissute e spesso di vere e proprie vite di santità che non riusciamo a banalizzare. Ma allora perché delusione? Si riassume nella già notata assenza di Bloch - che potremmo anche accettare, visto che non è un teologo cristiano.
Ma che dire dell’assenza della teologia della liberazione, o di autori come Moltmann e altri che hanno cercato di dare un contenuto non puramente «spiritualistico» alla dottrina cristiana della speranza? Qui si tocca il senso stesso della trattazione ratzingeriana. Che mette subito le mani avanti, nel paragrafo 4 del testo, dove dice che «il cristianesimo non aveva portato un messaggio sociale-rivoluzionario come quello con cui Spartaco, in lotte cruente, aveva fallito». Non si esagera se si vede in questa frase, compresa la sua conclusione, la vera e propria cifra del discorso papale. Importa sottolineare la conclusione. Che la speranza portata da Gesù al mondo non possa e debba essere letta in termini di rinnovamento politico-sociale - come verosimilmente fu letta anzitutto da coloro che se ne vollero sbarazzare mettendolo in croce - è come dimostrato dal fallimento storico di rivolte come quella di Spartaco.
Più avanti (per esempio, paragrafo 21), sarà questa la ragione per rifiutare il messaggio rivoluzionario di Marx, al quale viene rivolta l’obiezione, invero ormai piuttosto frusta, per la quale il comunismo sarebbe una pretesa di realizzare il regno di dio sulla terra, impresa evidentemente (?) impossibile e quindi destinata fatalmente a degenerare in violenza. Nelle stesse righe in cui si obietta a Marx di aver dimenticato l’uomo, «che rimane sempre uomo» (e cioè imperfetto e incapace di uscire dallo stato di imperfezione: la ballata del vescovo di Ulm di Bertolt Brecht!), si dice anche che Marx ha ispirato bensì il rovesciamento del vecchio ordine, ma non ha indicato come procedere oltre, sicché il povero Lenin dovette rassegnarsi a sperare che lo stato si dissolvesse da sé.
Già, sia detto di passata: ma quali indicazioni pratiche ci sarebbero nella «vera» speranza cristiana? La preghiera, lo sguardo al giudizio finale dove dio ristabilirà la giustizia, e «agire e soffrire come luoghi di apprendimento della speranza». Anche in queste pagine conclusive - dove forse una grande novità ci sarebbe, nel senso che il papa dà buone ragioni per non credere più alle fiamme dell’inferno e nemmeno all’eternità della pena per i dannati (un inferno «purgatorizzato», diremmo, paragrafo 47) - si risente il limite di puro spiritualismo che conferisce un senso del tutto astratto e forse retorico alla dottrina ratzingeriana della speranza. Agire e soffrire sono esercizi di speranza, e di speranza condivisa, in quanto il cristiano soffre con il prossimo e non si sente mai solo. Ma non sarebbe giusto accentuare un po’ di più l’agire, oltre al soffrire? E’ invece su quest’ultimo che si pone sempre l’accento, secondo una linea che del resto domina la tradizione cristiana nella quale - ma ormai non pochi teologi cominciano a dubitarne - Gesù soffre in croce perché è la vittima capace di soddisfare l’ira del Padre a causa del peccato originale.. Di qui l’esaltazione della sofferenza come merito. E agire con gli altri e soffrire con loro non ha mai - come dovrebbe - il senso di una lotta comune contro ciò che produce sofferenza. Anche se il solo esempio evangelico di giustizia divina che il papa cita è quello del ricco Epulone che dovrebbe espiare la sua tracotanza e il suo attaccamento ai bei terreni, non è nemmeno sfiorato dal sospetto che bene e male abbiano da fare con l’ineguale distribuzione delle ricchezze e del potere. Dimenticare Bloch non è stata effettivamente una buona idea.
NON C’E’ PIU’ SPERANZA? *
Non ancora riesco a leggere l’enciclica di Benedetto XVI° sulla speranza, ma ho il sentore di andare verso una grande delusione. Ho l’impressione che la chiesa si ritrovi un papa "cortocircuitato": tutto preso dalla stretta delle sue ossessioni, prigioniero della sua "razionalità filosofica" scambiata per "Ragione di fede"!
Nel capitolo 21, versetto 11, di Isaia c’è una domanda alla quale, purtroppo, nemmeno più la Chiesa, questa chiesa, sa dare una risposta: “Sentinella, quando finisce la notte? Dimmi, quanto manca all’alba?” .
Don Giorgio Morlin, parroco di Mogliano Veneto (Treviso) fa una descrizione del cattolicesimo italiano da far cader le braccia! Eppure tale è! E di fronte a questa realtà, il papa e i nostri vescovi continuano a tener chiusi gli occhi e sordo il cuore.
Scrive don Giorgio:
Si registra un cattolicesimo italiano mediaticamente e politicamente imponente ma profeticamente fragilissimo. E’ un cattolicesimo, ad esempio, che, il 12 maggio 2007, riesce a radunare un milione d’italiani per il «Family day» a Roma ad affermare con forza: “No ai DICO!” ma che non riesce a mobilitare nemmeno qualche migliaio di cittadini credenti, nelle piazze di Palermo o di Napoli o di Milano o di Venezia, per proclamare, con altrettanta forza, “No alla mafia!”.
Un cattolicesimo nazionale che è richiamato dall’autorità ecclesiastica, giustamente ma anche ossessivamente, all’osservanza del VI° comandamento (non commettere adulterio: quindi, no alle coppie di fatto!) ma che, allo stesso tempo, in merito ai due comandamenti contigui nell’elenco del decalogo, brilla per il suo grande silenzio: ad esempio sul V° (non uccidere”: quindi, no alla guerra, no alla mafia, no alla camorra...) e sul VII° (non rubare: quindi, no all’evasione fiscale, no alla cultura dell’illegalità...). Si verificano situazioni, paradossali e ridicole allo stesso tempo, in cui, ad esempio, i quattro principali leaders politici del centrodestra (Berlusconi, Bossi, Casini, Fini) che si dichiarano pubblicamente cattolici molto ossequienti al papa e strenui difensori della sacralità del matrimonio monogamico, in realtà risultano tutti e quattro divorziati.
Una cultura cattolica come questa, chiaramente strumentale e schizofrenica, spegne la speranza e la profezia. E’ una schizofrenia, comunque, che si registra in molti ambiti della vita civile e religiosa. Da un punto di vista strettamente religioso e popolare, il mondo cattolico, mentre riesce ogni anno a portare da ogni parte d’Italia circa 6 milioni di pellegrini alla tomba di Padre Pio a San Giovanni Rotondo, non solo è incapace a mobilitarsi ma anche incapace ad esprimere un minimo di ribellione morale quando, ad esempio, i servitori della giustizia (come i giudici Costa, Chinnici, Livatino, Falcone, Borsellino, ecc...) sono ammazzati dalla mafia o dalla camorra o dalla ’ndrangheta. E’ uno strazio devastante che si abbatte con furia non solo sulla vita dei cittadini ma anche sulla vita della natura stessa attraverso gli incendi dolosi a ripetizione, mirati masochisticamente all’autodistruzione ecologica, economica e urbana delle meravigliose terre del sud.
Tutto questo, tra l’altro, accade con l’omertà colpevole di quelle popolazioni locali, che magari poi sono anche molto devote nel recitare il rosario davanti alle statue di Padre Pio disseminate a migliaia nelle piazze e contrade di città e paesi del meridione, e non solo. Una religiosità come questa è fuori dalla storia e dal vangelo. Anzi, sarà proprio alla storia e al vangelo che, non so come e quando, saremo tutti chiamati come Chiesa a renderne conto...
Fin qui la bella citazione di don Giorgio.
Come non dargli retta?
A tutti un abbraccio e buona resistenza.
Aldo [ don Antonelli]