Io mi sento tibetano, perché la mia cultura, come la loro, vive di montagna. Anche Milarepa, che è stato il più grande poeta della montagna, era tibetano.
«Lagyelo» è la parola con cui festeggiavo i miei ritorni dalle cime dell’Himalaya. Perché solo gli dei possono accettare che qualcuno salga nel loro regno.
Vorrei che tutti gli atleti ai prossimi Giochi di Pechino - o almeno tutti quelli che saliranno sul podio - pronunciassero questa parola.
Così alla Cina sarà chiaro che non può calpestare i diritti civili e sarà chiaro anche ai tibetani che il mondo è solidale con loro.
Con una parola si può fare molto, si può non dimenticare.
Allo sport non si può chiedere il boicottaggio, perché sarebbe un’ingiustizia nei confronti degli atleti, ma i governi possono fare pressioni sui dirigenti politici cinesi affinché aprano una trattativa con il Tibet, che non chiede indipendenza, ma autonomia.
Io sostengo il Dalai Lama - la cui immagine nessuno in Tibet può tenere in casa, altrimenti viene perseguitato - e mi auguro che il mondo alzi la voce in sua difesa.
Lagyelo.
(la domenica di Repubblica, 06.04.2008, p. 29).
Alpinismo.
Messner, la storia riletta dal mio Everest
A 100 anni dalla prima spedizione sul colosso himalayano, parla il primo uomo capace di arrivare in vetta, 8.848 metri, senza ossigeno e in solitaria. «Volevo indicare una nuova via»
di Paolo Ferrario (Avvenire, venerdì 26 marzo 2021)
«Non è una punta, ma una massa prodigiosa. Il lungo braccio della cresta nord-ovest, con i suoi speroni secondari, sembra la cattedrale di Winchester dopo una nevicata». Apparve così, un secolo fa, l’Everest agli occhi di un estasiato e, immaginiamo, anche un po’ intimorito, George Mallory, alpinista di punta della prima spedizione della storia alla montagna più alta del pianeta. Nella primavera del 1921, gli inglesi lasciarono le piantagioni di tè del Darjeeling, in India, per tentare di arrivare agli 8.848 metri del tetto del mondo. Non ci riuscirono, lo stesso Mallory scomparve sulla montagna in un’altra spedizione del 1924, ma tracciarono una strada seguita da generazioni di alpinisti.
Tra i pionieri dell’Everest, un posto di rilievo spetta all’italiano Reinhold Messner, che, per primo al mondo, l’8 maggio 1978 arrivò in vetta senza utilizzare ossigeno supplementare, in cordata con l’austriaco Peter Habeler, mentre tra il 18 e il 20 agosto 1980, compì la prima ascensione solitaria, per il versante nord, sempre senza ossigeno.
Messner, che posto occupa la prima spedizione di un secolo fa nella storia dell’alpinismo?
Allora, gli inglesi erano gli unici ad avere la possibilità, anche burocratica, di avvicinarsi all’Everest. Italiani, francesi e tedeschi non avevano colonie nella zona e non avevano accesso alla montagna. Gli inglesi, invece, erano i “controllori” dell’India e di tutta quella grande regione. E hanno quasi costretto il Dalai Lama a concedere il permesso di scalare l’Everest dal versante tibetano. La spedizione del 1921 era più che altro una ricognizione, ma fu molto importante per la storia dell’alpinismo. Ed è molto bello che, esattamente cento anni dopo, gli sherpa diventino le figure più importanti dell’alpinismo himalayano. Nella spedizione del 1921 erano addetti ai lavori pesanti, al trasporto delle grandi casse di materiale. Oggi, con la prima salita invernale del K2 dello scorso 16 gennaio, hanno dimostrato di essere più forti di tutte le spedizioni occidentali che, negli ultimi vent’anni, hanno sempre fallito. Loro sono riusciti in un’impresa anche di un’eleganza incredibile. Mi congratulo con gli sherpa e sono molto felice che la loro performance sia arrivata proprio quest’anno, un secolo dopo la prima spedizione inglese.
Quando è stata la prima volta che, anche lei, ha detto: «Voglio salire lassù »?
Nel 1972, dopo la spedizione al Manaslu, con altri due compagni abbiamo pensato che fosse giunto il momento di puntare all’Everest. E abbiamo dovuto aspettare per sei anni per avere il permesso, perché allora c’era soltanto una spedizione a stagione sull’Everest. Nel 1973 ho cercato il sostegno di Guido Monzino e sono andato a trovarlo in Africa, dove aveva enormi possedimenti. È stato molto gentile, ma quando gli ho chiesto il permesso di aggregarmi alla sua spedizione con il mio piccolo gruppo per tentare la parete sud-ovest, ha risposto di no. Forse pensava che, in caso di successo, avrei potuto offuscare la sua grande spedizione. Quando, nel 1975, gli inglesi hanno poi salito la parete sud-ovest, ho deciso di tentare la salita senza la maschera d’ossigeno.
Quando, un secolo fa, chiesero a Mallory perché volesse andare sull’Everest, ripose: «Perché è là». E lei, perché voleva andare sul tetto del mondo?
La risposta di Mallory era perfetta per quei tempi, perché l’Everest non era ancora stato salito e, appunto, «Era là». Per la mia generazione non contava più salirlo per la via normale, perché era già stato fatto e non era più un’incognita. Per noi l’Everest rappresentava la possibilità di esprimerci. Non contava più solo la cima, non contava più solo la via, ma contava soprattutto lo stile con cui salivi. E andare senza le bombole d’ossigeno voleva dire essere leggeri, autosufficienti ed essere anche molto più esposti alle difficoltà, alla fatica e anche al rischio.
Che emozioni ha provato quando ha messo il piede sulla cima dell’Everest?
La vetta dell’Everest è il “tetto del mondo” ma, dal punto di vista alpinistico, conta meno della salita del K2 o del Nanga Parbat. È chiaro: sei sulla cima più alta della Terra, ma più in alto sei più cresce anche un’emozione molto forte legata alla paura di non farcela a scendere. In vetta sei soltanto a metà strada: devi salire ma poi devi anche scendere. E la discesa può essere pericolosa, può arrivare brutto tempo, venire la nebbia. In cima non ci sono le emozioni più forti. La vera, grande emozione in una spedizione del genere, specialmente in solitaria, è quando ritorni al campo base, quando rientri nella società. Prima sei fuori dal mondo, come se fossi sulla Luna e per questo c’è sempre una certa tensione. Ritornare sani e salvi significa rinascere e questo è un momento molto forte: hai davanti a te tutto il mondo perché hai salito l’Everest e sai che, con questo stile, puoi affrontare tutte le cime della Terra. Prima della mia spedizione si diceva che sull’Everest senza ossigeno non si poteva andare, così come senza portatori e tanto materiale. Ma io non avrei mai avuto la possibilità di finanziare una spedizione come, per esempio, quella al K2 del 1954. Avendo poche possibilità finanziarie, dovevo inventare uno stile leggero per poter fare le mie attività. E così è nato lo stile alpino.
Nella sua carriera di alpinista, che posto occupa l’Everest?
La salita all’Everest del 1978 non sta tra le prime dieci salite più importanti che ho fatto. Certo, quella salita ha impressionato il pubblico perché si tratta pur sempre della cima più alta del mondo. Per questa ragione l’Everest è un record in sé. Ma io sull’Everest non ho fatto nessun record, ho dimostrato che era possibile salirlo senza maschera d’ossigeno, così come gli altri Ottomila. Ma non per questo lo considero la mia massima esperienza. In questa categoria metto, invece, quelle salite che mi hanno portato molto vicino alla morte, come sul Nanga Parbat nel 1970, che è di gran lunga la mia esperienza più forte, dove ho perso mio fratello Gunther e mi sono state amputate sette dita dei piedi per i congelamenti.
Cento anni dopo la prima spedizione, oggi vediamo le code di alpinisti sulla cresta finale in attesa di salire sulla cima: in un secolo l’uomo ha addomesticato anche l’Everest?
Sì, anche se già da trent’anni c’è questo trekking su una sorta di via ferrata, predisposta da centinaia di sherpa, che va dal campo base alla cima, con migliaia di metri di corde fisse, campi alti già montati, con medici e cuochi. Poi i turisti che hanno pagato salgono su questa pista. Ma questo non c’entra nulla con l’alpinismo tradizionale. È legittimo, ci mancherebbe, ma è un’altra cosa. L’alpinista va dove gli altri non ci sono per cercare di realizzare i propri progetti.
Sull’Everest la natura può ancora stupirci, c’è ancora spazio per l’avventura o abbiamo scoperto tutto?
No, sull’Everest c’è spazio solo per le spedizioni commerciali. Due anni fa, un giovane tedesco aveva annunciato a tutti i mass media che avrebbe fatto l’ultima impresa possibile, cioè la salita in invernale solitaria della cresta ovest, una via difficile. Ma non è andato lontano e lo sapeva benissimo: ha fatto soltanto l’annuncio. E questo sarà il futuro: l’alpinismo dell’annuncio. Ma l’avventura non è finita. Ci sono più di 10mila cime non scalate, con vie ancora da fare su vette inesplorate di 6mila e 7mila metri, molto più difficili degli Ottomila. Vie di altissima difficoltà su montagne che non ci sono nemmeno sulla carta geografica.
Scambi di opere, convegni.
Tra Santa Sede e Cina è l’ora della diplomazia della cultura
Al percorso di riconciliazione, segnato dall’accordo del 2018, si affiancano prestiti di opere d’arte, mostre, convegni su temi comuni. Così si gettano i ponti che servono
di Agostino Giovagnoli (Avvenire, sabato 1 giugno 2019)
Il Palazzo imperiale di Pechino espone da qualche giorno importanti oggetti d’arte cinesi dei Musei Vaticani. «È la prima volta che sono stati riportati nel loro Paese d’origine manufatti cinesi provenienti dalla collezione dei Musei Vaticani, nella quale sono presenti doni che testimoniano secoli di comunicazioni tra la Cina e il Vaticano e manufatti che intrecciano arte cattolica e arte cinese». Lo scrive il ’Global Times’, quotidiano ufficioso di Pechino. Si tratta dell’ultima di una serie di ’prime volte’: il padiglione della Santa Sede all’Expo dell’Orticoltura a Pechino inaugurato il 29 aprile alla presenza del cardinal Gianfranco Ravasi; l’intervista del Segretario di Stato vaticano ancora al ’Global Times’ il 12 maggio; la partecipazione di due vescovi cinesi insieme al cardinal Pietro Parolin a un convegno dell’Università Cattolica a Milano il 14 maggio... Sono eventi con uno spiccato carattere culturale. Ed è probabile che altri seguiranno nei prossimi mesi.
Lecito chiedersi se si tratti di una sorta di ’diplomazia della cultura’ che si affianca al dialogo politico diplomatico tra Santa Sede e Cina, sul modello della ’diplomazia del pingpong’ che cinquant’anni fa preparò nuovi rapporti tra Stati Uniti e Repubblica popolare cinese. In realtà, questi eventi rispondono a una logica più profonda. Che è culturale nel senso ampio del termine, pur implicando anche eventi culturali in senso specifico e pur avendo anche effetti politici. Di questa mostra aveva parlato già un anno fa papa Francesco, collegando tra loro diversi livelli di dialogo tra Santa Sede e Cina: quello ’ufficiale’ delle delegazioni che si incontrano; quello che si sviluppa attraverso contatti personali; e «il terzo, che per me è il più importante nel [...] riavvicinamento con la Cina», appunto quello «culturale». Nel duplice senso del dialogo interculturale e degli eventi culturali. «È la strada tradizionale, quella dei grandi, come Matteo Ricci», in cui si inseriva - affermò il Papa - anche la mostra di oggetti d’arte conservati nei Musei Vaticani.
Questa strada è la più importante perché, nella visione di Francesco, un legame profondo unisce ciascun popolo alla sua cultura. Lo ha detto più volte, proprio a proposito della Cina. E, per lui, se si sviluppa un dialogo tra le diverse culture sono i popoli interi a dialogare. Il che vuol dire aprirsi all’altro, accorciare le distanze, costruire la pace. È il dialogo interculturale, che ha avuto un ruolo anche nei recenti sviluppi dei rapporti sino-vaticani. Apparentemente, il livello cruciale è stato quello politico-diplomatico e, indubbiamente, l’Accordo provvisorio del 22 settembre 2018 ha segnato una svolta. Ma la strada verso l’Accordo si è sbloccata solo grazie al superamento di incomprensioni, equivoci, fraintendimenti che hanno una radice culturale.
Le due parti si sono scontrate a lungo anche perché non si capivano l’un l’altra, mentre la situazione è cambiata quando ciascuna delle due ha rinunciato a imporre i propri princìpi, criteri e regole. Lo ha spiegato il cardinal Parolin a Milano in occasione del convegno ’1919-2019. Speranze di pace tra Oriente e Occidente’. Anche questo Accordo, insomma, si colloca all’interno di un dialogo interculturale. Tale dialogo presuppone una forte volontà di incontro. Di per sé, infatti, le culture non si parlano, sono realtà inerti che non entrano in relazione l’una con l’altra. Possono dialogare solo uomini e donne in carne ed ossa, che decidono di farlo, superando inerzie radicate, forti resistenze e grandi ostacoli. In francese li chiamano passeurs, traghettatori, coloro che si avventurano nella cultura degli altri.
L’esempio di Matteo Ricci è illuminante. Il gesuita italiano è giunto in Cina con una nutrita biblioteca di testi occidentali classici, medievali e rinascimentali. Ma ha poi iniziato un percorso di evangelizzazione che lo ha portato da Macao a Pechino e che è stato anche di dialogo interculturale. Dapprima ha individuato nei monaci buddisti i più vicini all’annuncio religioso di cui era portatore e ha indossato i loro abiti. Successivamente, prima a Nanchino e poi a Pechino, ha stretto amicizia con i mandarini-letterati e ha individuato nella cultura confuciana del tempo il miglior veicolo per parlare loro del «Signore del Cielo». Perché ci sia dialogo interculturale, insomma, ci vuole un incontro umano e quello che si realizza all’interno di un’amicizia è certamente tra i più ricchi e profondi. Non è la cultura che conduce all’incontro, insomma, ma è la «cultura dell’incontro» - per usare un’espressione cara a papa Francesco - a spingere verso il dialogo senza cui non sono possibili comprensione, intesa, accordo.
È un percorso tutt’altro che astrattamente accademico. Che però può essere aiutato dalla cultura in senso stretto: studi storici e ricerche linguistiche, seminari e convegni, traduzioni e pubblicazioni, come pure mostre d’arte ed esposizioni archeologiche, musica e teatro ecc. Uomini e donne di cultura infatti - e, potenzialmente, tutti lo siamo - fanno parte di una comunità che non può essere limitata da barriere e confini. La disciplina del confronto culturale aiuta a imparare la lingua dell’altro e a ricomprendere sé stessi attraverso i suoi occhi, insomma a decentrarsi da sé e a gustare il sapore dell’alterità. Gli eventi culturali predispongono al dialogo interculturale. Nel rapporto sino-vaticano questo dialogo ha indotto gli uni ad accogliere un approccio pragmatico e fattuale e gli altri ad accettare una modalità astratta e generalista o, per dirla, con Francois Jullien, la «cultura del vivere», propria degli orientali, e quella «dell’essere», propria degli occidentali. Tra l’assolutezza del principio occidentale di sovranità territoriale e la tradizione cinese del controllo politico sulla società, i negoziatori hanno trovato uno spazio di convergenza che costituisce anche una novità culturale. E così via. Pure i nodi ancora insoluti nei rapporti tra Santa Sede e Cina possono essere sciolti solo affrontandone anche lo spessore culturale.
Tutto ciò è anche politica. Ha ragione papa Francesco: se uno stretto legame unisce ciascun popolo alla sua cultura, dove c’è dialogo interculturale ci sono anche rapporti tra popoli. Mentre, dove non c’è dialogo, prevale il confitto. Nel mondo di oggi le identità culturali vengono evocate sempre più spesso per costruire muri. Contemporaneamente, però, in tante parti del mondo il dialogo interculturale costruisce ponti. Oggi, in Cina, il disegno di una progressiva sinizzazione delle religioni si sta esprimendo anche sotto forma di crescente insistenza sulla tradizione confuciana, come si è visto nel recente incontro dei responsabili delle diverse comunità religiose cinesi convocati a Qufu, dove è nato Confucio. Bisogna avere paura di Confucio? Da questa paura è nata la lunga querelle dei riti, chiusa definitivamente da Pio XII nel 1939 dopo tre lunghi secoli di dolorose controversie. Matteo Ricci, invece, non ha avuta paura di Confucio e ha trasformato la tradizione confuciana in un ponte tra Oriente e Occidente sul quale ha camminato anche l’annuncio del Vangelo. Per papa Francesco, Matteo Ricci è anche oggi un modello da seguire: la strada più importante, dice infatti, è quella della cultura, «la strada tradizionale, quella dei grandi».
Il regime tiene lontani i turisti: «Stanno rovinando l’occasione delle Olimpiadi»
Ma la repressione continua
«Monaci arrestati e picchiati»
Conventi sotto assedio, ovunque agenti in borghese *
LHASA - «Shhhh. Non posso parlare. Please don’t talk here. Too much police», sussurra in un inglese titubante il monaco incontrato lungo il dedalo di corridoi scuri e perlinati in legno affrescato nell’antico monastero di Sera. In effetti il luogo pullula di poliziotti e agenti in borghese allarmati dall’arrivo della delegazione di giornalisti invitata in Tibet grazie alla cooperazione tra governo di Pechino e Fondazione Italia-Cina. Ti seguono meticolosi e lanciano occhiate di fuoco a chiunque si avvicini non autorizzato. L’unico modo per cercare di comunicare con i tibetani è lasciarli giocare a rimpiattino con gli agenti. «Ecco, questo è il mio indirizzo email», dice uno che non sembra ancora ventenne passando repentino un bigliettino stropicciato. «La prego, non faccia mai il mio nome, perché tanti di noi vengono presi, e non si sa più nulla di loro. Ci arrestano, ci picchiano, se ci prendono di notte possiamo essere anche fucilati sul posto. Ho paura», spiega rapido.
La sera, davanti al computer, i messaggi al mondo dal Tibet sotto il tallone della repressione preventiva cinese in vista delle Olimpiadi di Pechino raccontano un universo assolutamente differente da quello spiegato dai portavoce ufficiali. «Nelle ultime settimane sono arrivati migliaia di nuovi poliziotti di rinforzo. Talvolta in una sola strada abbiamo contato oltre venti camionette militari. I nostri movimenti sono impediti al massimo, specie dal tramonto all’alba, chi esce dai monasteri senza permesso viene certamente arrestato. Ma i peggiori sono gli agenti in borghese. Stazionano dovunque e sono i più cattivi», si legge nell’email del 14 luglio. In quella di tre giorni prima viene specificato che i morti durante gli incidenti del 14 marzo sono stati «almeno 180» e i tibetani in carcere, molti di loro monaci, «restano centinaia». Con un particolare curioso: «In genere per la strada quelli in piedi sono i poliziotti regolari.
Ma gli uomini seduti sono gli agenti in borghese che danno gli ordini». E qualche nota di vita quotidiana: «Negli ultimi tempi i poliziotti si sono insediati in modo permanente nei monasteri. Così la situazione è un poco migliorata per i monaci di Sera, Jokhang e nel tempio di Ramosh, dove almeno ci si può muovere, anche se le lezioni per gli studenti sono state rinviate a dopo le Olimpiadi. Però quello di Drepung è totalmente isolato». Vedere per credere. Basta un quarto d’ora di taxi dal centro di Lhasa per raggiungere il villaggio ai piedi del ripido anfiteatro montagnoso che fa da corona a Drepung. Qui a marzo si trovava uno dei centri dirigenti più attivi della rivolta. E per diverse settimane era stato totalmente isolato dall’esercito.
Ma ora i cinesi si sentono molto più tranquilli. Non si vedono posti di blocco sulle strade. Invece la situazione cambia completamente una volta nel villaggio: ogni via di accesso ai palazzi bianchi del monastero antichi oltre 6 secoli che puntellano i fianchi della montagna è stata sistematicamente transennata, i militari hanno steso una fitta rete di fili spinati tutto attorno, oltre a garitte, ombrelloni colorati per le sentinelle dei turni sotto il sole, tende dotate di riflettori per la notte. «Oltre non si può andare. È coprifuoco da 4 mesi», dice rassegnato un gruppo di anziani contadini, che ogni giorno si reca a pregare nei pressi di un gigantesco masso di granito a circa 500 metri in linea d’aria dal monastero silenzioso. Si prostrano verso quelle mura antiche, sventolano gli scialli votivi nel vento lasciando che le loro preghiere salgano al cielo, un po’ come qualche fedele fa ancora nel centro di Lhasa a venerare le vestigia diventate museo del palazzo di Potala, abbandonato dal Dalai Lama e il suo seguito sin dal lontano 1959. «Secondo le nostre informazioni, dei circa 1.000 monaci che stavano a Drepung, 500 furono arrestati subito, 300 liberati in seguito, gli altri mancano tutt’ora all’appello», sostiene un monaco che farfuglia veloce qualche parola in inglese, ripete la sua «fedeltà assoluta» al Dalai Lama, e pure, dopo una manciata di secondi, se ne fugge in una delle case protette da alte mura di pietra nella parte bassa del villaggio. «Peccato!», vien da pensare guardando da lontano, evitando di attirare l’attenzione dei militari, questo paesaggio da favola che proprio in questi giorni avrebbe potuto essere letteralmente invaso dai turisti è invece rimasto vuoto.
«I cinesi sono talmente ossessionati dal problema Tibet e dall’incubo sicurezza, che stanno rovinandosi la grande occasione offerta dalle Olimpiadi», osservano tra i circoli diplomatici europei a Pechino. Gli alberghi si erano preparati al tutto esaurito, ma ancora questa settimana erano fermi al 30 per cento delle presenze. Ristoranti di lusso semivuoti, taxisti con le mani in mano. Un Paese oggettivamente in piena crescita economica. Infrastrutture da grido. Senza scomodare gli impressionati successi della recente ricostruzione di Pechino, vien naturale osservare che aeroporti minori come quelli di Zhongdian, Xining, Kunming, Chengdu e il mitico Shangri-La, alle porte della regione autonoma del Tibet, sono molto più efficienti e funzionali di quelli di tante metropoli europee. La ferrovia che dal 2006 collega il Paese con Lhasa - e negli ultimi 2.300 chilometri viaggia in 26 ore su di un plateau compreso tra i 4.000 e 5.200 metri d’altezza - procede con una puntualità impressionante. Il nostro convoglio di 14 vagoni (i passeggeri erano quasi tutti cinesi Han) è arrivato nella capitale tibetana con 4 minuti d’anticipo.
Eppure è come se la società civile cinese sia andata più veloce di quella degli apparati dello Stato. «A cosa serve sventolare al mondo la Cina delle Olimpiadi, se poi ambasciate e consolati all’estero concedono i visti con il contagocce?», protestano gli operatori turistici stranieri. Il Museo d’arte contemporanea di Pechino espone opere di critica al regime e al nuovo «consumismo capitalista di Stato», come se la repressione seguita alle rivolte di piazza Tienanmen nel 1989 non fosse mai esistita. Ma il Tibet testimonia una realtà molto più triste. «Quella maledetta ferrovia serve solo ai cinesi per venirci a colonizzare. Loro sono facilitati dagli incentivi offerti dal governo centrale e ci rubano il lavoro», sostiene Tayang, una 23enne impiegata in un negozio di tappeti e artigianato tibetani nel centro di Lhasa. E aggiunge bellicosa, mostrando poco lontano le tre saracinesche ancora danneggiate dello «Top Peak Artwork Center», un negozio di proprietà cinese vandalizzato il 14 marzo: «Se va avanti così, ci sarà presto un’altra ribellione. È inevitabile, vogliamo il nostro Stato indipendente guidato dal Dalai Lama».
Lorenzo Cremonesi
* Corriere della Sera, 29 luglio 2008
Inquinamento in calo del 20%
Pechino 2008, la Cina presenta i suoi 639 atleti
Squadra da record per il Paese che ospiterà i Giochi Olimpici. Assalto ai botteghini, trentamila in coda per i biglietti. La polizia ha arrestato un giornalista che avrebbe dato un calcio a un agente. Nel villaggio spazi di preghiera per ogni fede religiosa (Guarda il video)
Pechino, 25 lug. -(Adnkronos/Ign)- Il Comitato Olimpico Cinese ha annunciato che il Paese prenderà parte ai Giochi con una squadra record di 639 atleti contro i 570 previsti inizialmente. (Guarda il video) "I nostri ragazzi hanno un’età media di 24 anni e 469 di questi gareggeranno per la prima volta in una Olimpiade", ha precisato il ministro dello Sport cinese, Liu Peng. La squadra al completo, inclusi allenatori e funzionari, sarà composta da 1.099 persone. Gli Stati Uniti hanno annunciato l’invio di 596 atleti e la Russia di 470.
Intanto si sarebbero formate lunghe code allo Stadio Olimpico e agli altri punti vendita per aggiudicarsi i biglietti per gli eventi di Pechino 2008 in programma nella capitale. Trentamila persone hanno letteralmente preso d’assalto i botteghini per comprare gli ultimi 250.000 biglietti.Le forze dell’ordine hanno dovuto predisporre speciali misure di sicurezza per evitare che la situazione degenerasse. La polizia ha arrestato un giornalista di Hong Kong che secondo le autorità lavorerebbe per il South China Morning Post. Il reporter sarebbe finito in manette per aver colpito un agente con un calcio. Il giornalista avrebbe ammesso le proprie responsabilità, mentre il poliziotto sarebbe stato trasportato in ospedale e sottoposto ai controlli.
Le code, che sono arrivate a snodarsi per due chilometri, non sono state un’esclusiva della capitale. Secondo l’agenzia di stampa Xinhua, il record di pazienza sarebbe stato stabilito dal "signor Xu Yongheng". L’uomo avrebbe raggiunto il botteghino con 48 ore di anticipo rispetto all’apertura, ma sarebbe stato ripagato dall’onore di essere stato il primo ad acquistare i preziosi ticket.
Ormai tutto è pronto. Il villaggio olimpico di Pechino 2008 aprirà i battenti domenica e si prepara a ospitare 16.000 tra atleti e dirigenti provenienti da oltre duecento nazioni. In linea con le norme del Comitato olimpico internazionale, sono state considerate anche le esigenze degli atleti religiosi. Nella struttura appositamente realizzata, sono previsti spazi di preghiera per tutti i principali culti.
Per rendere ancora più accogliente la visita durante le Olimpiadi di Pechino, sono state varate alcune misure antinquinamento che hanno già dato i primi frutti. Secondo fonti governative nel mese di luglio il livello di polveri sottili sarebbe calato del 20% e l’aria, precisano le autorità locali, sarebbe già oggi molto più respirabile.
Il presidente della Repubblica ha salutato al Quirinale gli atleti italiani
"La decisione di assegnare le Olimpiadi alla Cina ha grande valore storico"
Napolitano agli azzurri olimpici
’Liberi per aiutare i diritti umani’
Antonio Rossi ha ricevuto la bandiera dalle mani del capo dello Stato
Lucio Dalla ha cantato l’inno degli azzurri. L’emozione degli atleti
di MASSIMO RAZZI *
ROMA - Finisce con Antonio Rossi, il grande canoista, visibilmente emozionato, la bandiera in mano, che ascolta il presidente parlare di diritti umani e della "la libertà di partecipazione attiva" che è "il miglior contributo che lo sport può dare alla causa dei diritti umani". Finisce così, la festa di oggi al Quirinale e parte da qui, dai giardini del palazzo sul Colle l’avventura azzurra alle Olimpiadi di Pechino. Parte dallo scambio di battute tra il presidente del Coni, Petrucci e Napolitano sul "diritto alla sconfitta" e la voglia di vittorie, parte sulle note dell’inno composto e cantato da Lucio Dalla: "Un uomo solo può vincere il mondo". Parte, soprattutto, da quei duecento ragazzi e ragazze (a Pechino saranno più di 300) seduti sulle seggiole di plastica sotto il grande platano. Alcuni sono famosi, famosissimi come Andrew Howe, Sebastian Giovinco, Igor Cassina, Vanessa Ferrari, Alessia Filippi e Alessandra Sensini, altri quasi nessuno li conosce. Alcuni tra questi diventeranno notissimi fra un mese perché, forse, vinceranno le medaglie italiane a Pechino.
Una cerimonia semplice, anche se, per la prima volta, gli atleti azzurri sono stati portati fino al Quirinale in parata, sui bus scoperti come si usa ormai con i campioni da osannare. Lungo il tragitto dallo stadio Olimpico al Colle hanno ricevuto gli applausi della gente per strada. Petrucci, nel suo breve discorso, ha sostenuto il concetto davvero decoubertiano del "diritto alla sconfitta", ma, ovviamente, ha chiesto e, in fondo, previsto, un buon numero di medaglie. Napolitano, si diceva, gli fa notare che "quella parola lì che non voglio pronunciare, va bene.." ma anche le vittorie non guasteranno. Già che c’è ribadisce il suo punto di vista sul "finanziamento automatico" allo sport "che ho già sostenuto, ma che posso solo auspicare". Petrucci abbozza, sorride e gli regala una tuta della nazionale con la scritta "Giorgio" sulla schiena.
Rossi, davvero sente il suo ruolo quando il presidente gli consegna la "bandiera tricolore con asta" (così la definisce il protocollo ufficiale) e quando, subito dopo, presenta i capitani delle squadre di specialità al presidente della Repubblica.
E sorride, il plurimedagliato canoista, quando Dalla canta l’inno appositamente composto per la squadra olimpica azzurra. Lo sentiremo all’inizio e alla fine di ogni trasmissione Rai da Pechino e in chissà quante altre occasioni. Parla di un "uomo solo" che "può vincere il mondo". Dalla è contento di aver composto ("è la prima volta che mi capita") un inno e di cantarlo nei giardini del Quirinale davanti a Napolitano: ""Mi lusinga, presidente, cantarlo qui davanti a lei che, in fondo, rappresenta tutta l’Italia".
E mentre Dalla canta, i ragazzi sulle seggiole di plastica, costretti, fino a quel momento a un’intimidita immobilità, prendono vita, sorridono e battono il tempo. C’è la Filippi, bionda e apparentemente sempre più alta, la più sicura nel dare la mano al capo dello Stato con un gesto quasi affettuoso, l’affascinante pallavolista Gioli e Galiazzo, l’arciere di Atene seduto tra la bionda tiratrice Torresin e la rossa triatleta Charlotte Bonin. Chissà se, questa volta, a Pechino, Galiazzo trova l’anima gemella.
I ragazzi ascoltano attenti Napolitano che parla di cose molto serie: "La decisione del Cio di far ospitare alla Cina i prossimi Giochi non è stata facile ma assume un grande valore storico per una piena integrazione di questa grande nazione nella comunità internazionale". La Sensini, nel prologo, interrogata sul tema da Sandro Bragagna, dice: "Le Olimpiadi hanno fatto sì che situazioni non belle siano venute a galla sotto gli occhi del mondo. Già questo è positivo. Speriamo che chi di dovere intervenga". Ha ragione, la grande velista azzurra (38 anni, alla quarta Olimpiade, due bronzi e un oro nel suo palmares): i ragazzi sulle seggiole di plastica con la maglietta azzurra e la scrItta "Italia" un po’ psichedelica hanno le idee abbastanza chiare. Forse anche più di quanto si pensi: "Andremo a gareggiare - vogliono far sapere - E ad aiutare la causa dei diritti umani. Ma non strumentalizzateci, si va a Pechino per correre e saltare, non per predicare".
Lucio Dalla li saluta: "Vai... vai... vai...il tuo cuore non si ferma mai.. Ti porterà in mezzo al cielo tra le stelle. E la tua stella è quella là, la più lucida e più bella, quella della libertà".
* la Repubblica, 7 luglio 2008
Il tedoforo a Lhasa, teatro dei sanguinosi scontri con la polizia cinese
Nessun monaco lungo il percorso. In 42 condannati per "assalto allo Stato"
La fiaccola nella capitale del Tibet
Nessun incidente nella città blindata *
PECHINO - Nessun monaco ha assistito al passaggio della torcia olimpica a Lhasa, teatro nel marzo scorso della sanguinosa rivolta contro Pechino. Tra due cordoni di polizia, il tedoforo ha percorso i circa 11 chilometri tra la residenza estiva del Dalai Lama e il palazzo del Potala, tradizionale sede dei sovrani tibetani, senza disordini. Sbarrati i negozi, costretti a rimanere chiusi in casa molti abitanti, una città semideserta ha accolto la fiaccola olimpica. Il Tibet è ancora chiuso ai turisti e ai giornalisti stranieri; solo una folla selezionata è stata autorizzata a festeggiare sventolando la bandiera nazionale cinese.
Nella rivolta arancione, secondo i gruppi di tibetani in esilio, sono state uccise oltre 200 persone, ma Pechino sostiene invece che le vittime sono state solo 22 e tutte cinesi, civili e poliziotti uccisi da manifestanti. Dopo il rilascio ieri di 1.157 tibetani arrestati nei giorni della contestazione a Lhasa, restano ancora in carcere 116 persone, mentre altre 42 sono state già condannate per incendio, furto e "assembramento per assalto a organi dello Stato".
* la Repubblica, 21 giugno 2008.
Ansa» 2008-06-17 14:09
PECHINO 2008: LA FIACCOLA NEL XINJIANG
PECHINO - Le autorità cinesi hanno continuato a mantenere il silenzio sul passaggio della fiaccola olimpica dalla tormentata regione del Tibet, teatro nei mesi scorsi di manifestazioni anticinesi sfociate in alcuni casi in violenze. La fiaccola è passata oggi da Urumqui, la capitale della Regione autonoma del Xinjiang, dove rimarrà fino a venerdì prossimo, facendo ipotizzare che raggiungerà il Tibet sabato 21 giugno. Severe misure di sicurezza sono state imposte a Kashgar, la città ai confini con Pakistan ed Afghnaistan dove in passato sono stati attivi gruppi militanti della minoranza musulmana degli uighuri. Nicholas Becquelin, un attivista di Human Rights Watch basato ad Hong Kong, afferma in una email che "nei tre mesi passati un divieto totale è stato imposto alle attività religiose e ai raduni di più persone al di fuori delle moschee controllate dallo Stato, come grandi celebrazioni per i matrimoni (che spesso implicano, danze, musica e preghiere) e ai pellegrinaggi nei luoghi ritenuti sacri dai musulmani". Testimoni riferiscono che posti di blocco sono stati istituiti a tutti gli ingressi della città e che è stato vietato ai non residenti di visitarla nei giorni del passaggio della fiaccola. Le preoccupazioni più serie continuano a riguardare il Tibet, a causa del gran numero di proteste anticinesi dei mesi scorsi. Dall’ India è giunta oggi la notizia che 50 esuli tibetani che partecipavano alla "marcia del ritorno" e che erano intenzionati ad arrivare ai confini con la Cina nel giorno dell’ apertura delle Olimpiadi, l’ 8 agosto, sono stati arrestati.
Ansa» 2008-05-08 20:54
LA FIACCOLA OLIMPICA SUL TETTO DEL MONDO
PECHINO - Dopo giorni fermi a oltre ottomila metri di quota in attesa che il tempo migliorasse, una squadra cinese di alpinisti tedofori, a tre mesi dall’inizio dei Giochi di Pechino 2008, è riuscita nell’impresa senza precedenti di portare in vetta all’Everest la fiaccola olimpica. L’onore di tenerla tra le mani negli ultimi metri è toccato a una donna tibetana.
L’impresa, che rappresenta un successo d’immagine per la Cina dopo settimane di contestazioni e violenze anti-cinesi e filo- tibetane che hanno costellato il percorso planetario della fiaccola, è stata realizzata alle 09:18 locali, le 03:18 italiane con l’arrivo in vetta a quota 8.848 metri dal versante cinese (tibetano). La tappa conclusiva dall’ultimo campo ("Camp Attack") a quota 8.300 metri - raggiunto da 19 alpinisti sui 36 (28 tibetani, 8 cinesi di etnia Han e 6 della minoranza Tujia) che componevano nel complesso la spedizione, attestatasi al Campo base il 27 aprile -, è stata completata in poco più di sei ore: la partenza, secondo l’ agenzia ’Nuova Cina’, è avvenuta alle 03:00 locali (le 21:00 italiane di ieri).
A una quarantina di metri dalla vetta la fiaccola, che era rimasta fino a quel momento chiusa nello zaino di uno degli alpinisti, è stata accesa. Questo tratto è stato coperto da cinque tedofori, l’ultimo dei quali era la tibetana Cering Wangmo. La torcia - distinta da quella che ha percorso il mondo e fatta per resistere in condizioni meteo estreme e dove è scarso l’ossigeno - è rimasta accesa nonostante il vento furioso e la temperatura di 30 gradi sottozero. I tedofori, che sulla vetta hanno esibito la bandiera cinese, quella olimpica e quella col logo di Pechino 2008, hanno esultato, dando il via alla festa: "Lunga vita al Tibet! Lunga vita alla Cina!", hanno gridato davanti a una telecamera collegata al campo base e alla Tv cinese. "Abbiamo realizzato una promessa al mondo intero e un sogno di tutti i cinesi", ha dichiarato il comandante del campo base, Li Zhixin. Ma non per tutti l’impresa è stata motivo di festa: per il governo tibetano in esilio a Dharamsala (India) si tratta di una "provocazione" da parte della Cina in un momento in cui la situazione in Tibet è "drammatica e tetra", mentre per gli esuli tibetani del movimento Students for a Free Tibet (Stf), si tratta di "una mossa politica per riaffermare il controllo della Cina sul Tibet".
Fra i critici anche l’alpinista altoatesino Reinhold Messner, che scalò l’Everest in solitaria e senza ossigeno: "E’ un’offesa per i tibetani. Una montagna che per la gente del posto è considerata sacra è stata strumentalizzata per un’operazione di marketing e propaganda". Un gruppo di alpinisti italiani che ha osservato la vetta da una montagna di fronte. sul versante nepalese dell’Everest, e che ieri aveva potuto seguire tutti i movimenti della fiaccola, ha espresso qualche dubbio. Nessuno ha visto niente, perché la vetta era coperta da nubi: "Dal versante nepalese comunque - ha detto l’alpinista italiano Gian Pietro Verza - sarebbe stato impossibile salire in vetta: il vento in quota soffiava a oltre 100 chilometri orari. Nessuno poteva farcela".
Tibet: la Cina vuole incontrare il Dalai Lama
Con una mossa a sorpresa, la Cina si è dichiarata pronta ad incontrare i rappresentanti del Dalai Lama, il leader tibetano che vive in esilio in India dal 1959. L’ annuncio della svolta è stato dato dall’ agenzia Nuova Cina poco dopo la conclusione dell’ incontro tra la delegazione dell’ Unione Europea guidata dal presidente della Commissione Jose Manuel Barroso e quella del governo di Pechino guidata dal premier Wen Jiabao. L’ incontro, secondo Nuova Cina, è stato deciso su richiesta dello stesso Dalai Lama. «Alla luce delle richieste avanzate dal Dalai Lama per una ripresa dei colloqui, i dipartimenti competenti del governo centrale avvieranno nei prossimi giorni contatti e consultazioni con un rappresentante privato del Dalai Lama», ha riferito l’agenzia Nuova Cina citando un anonimo funzionario. «Ci si augura che attraverso i contatti e le consultazioni il Dalai (Lama) prenderà iniziative credibili per fermare le attività volte a dividere la Cina, e per smettere di disturbare e sabotare i Giochi Olimpici di Pechino in modo da creare le condizioni per il dialogo», afferma il funzionario. In precedenza Barroso, in una conferenza stampa congiunta con Wen Jiabao aveva affermato di aspettarsi «presto» novità «positive» sul Tibet. Wen si era limitato a confermare di aver discusso del problema col presidente della Commissione Europea. Una serie di incontri tra emissari del leader tibetano ed esponenti del governo cinese si sono tenuti tra il 2002 e il 2006 senza produrre risultati concreti. Nel corso del suo soggiorno negli Usa, la scorsa settimana il leader tibetano aveva affermato che contatti erano in corso con emissari cinesi. La settimana prossima il Dalai Lama ha in programma a Dharamsala, sua residenza e sede del governo tibetano in esilio, una serie di conferenze prima di ripartire per l’Europa.
Il Dalai Lama ha accolto con soddisfazione l’offerta delle autorità cinesi. Un suo portavoce, Tenzin Takhla, osservando che da parte di Pechino si tratta di «un passo nella direzione giusta» giacché, ha spiegato, «solo colloqui faccia a faccia possono condurre a una soluzione della questione tibetana». L’agenzia di stampa ufficiale cinese poco prima aveva annunciato l’incontro come imminente, «nei prossimi giorni»; la decisione di «prendere contatto e tenere consultazioni» con un emissario del capo spirituale buddhista, si aggiungeva nel dispaccio, è stata adottata «in considerazione delle reiterate richieste del Dalai Lama per una ripresa dei colloqui». Lo stesso Takhla ha tuttavia anche sottolineato che per ora non sono pervenute comunicazioni cinesi in proposito. Il premio Nobel per la Pace 1989, al secolo Tenzin Gyatso, è accusato dal regime di Pechino di essere soltanto un capopolo separatista responsabile dei recenti disordini in Tibet; l’interessato ha però sempre insistito di volere il dialogo con la Cina, e di puntare unicamente a una maggiore autonomia per la propria terra.
«Fin da quando ebbero inizio le proteste anti-cinesi, il 10 marzo, Sua Santità ha compiuto ogni sforzo per dialogare con la Cina e con il governo cinese, e spera adesso che la questione tibetana possa essere risolta attraverso il dialogo soltanto», ha sottolineato il portavoce del Dalai Lama da Dharamsala, la cittadina nel nord dell’India dove il leader buddhista vive in esilio dal ’59, e che ospita anche il governo e il Parlamento tibetani esiliati, oltre a una vasta comunità di espatriati. La Repubblica Popolare aveva sempre resistito alle pressioni internazionali perché fossero aperti colloqui con il Dalai Lama, insistendo sul pericolo di riconoscerne le presunte velleità indipendentistiche. «È auspicabile che, mediante i contatti e le consultazioni con noi, il Dalai Lama intraprenderà iniziative credibili per fermare le attività intese a frammentare la Cina, cesserà di complottare e di incitare alla violenza, e smetterà di turbare e di sabotare i Giochi Olimpici di Pechino 2008, così da creare le condizioni perché i colloqui abbiano luogo», aveva peraltro puntualizzato, nell’annunciare la disponibilità del governo centrale a un incontro, l’anonimo funzionario governativo cinese citato dalla Xinhua.
* l’Unità, Pubblicato il: 25.04.08, Modificato il: 25.04.08 alle ore 12.44
Il premio Nobel ha precisato di non essere coinvolto direttamente
Tibet, Dalai Lama: ’’Contatti in corso con la Cina’’
Il leader tibetano in esilio in visita a Seattle: "Vanno avanti da qualche giorno in piena segretezza, non voglio speculazioni". E sottolinea: "Presto o tardi il partito comunista cinese dovrà accettare la realtà e agire di conseguenza". L’apertura di un dialogo è una delle principali richiese dei governi occidentali
Washington, 14 apr. (Adnkronos) - Il Dalai Lama (nella foto) ha rivelato che vi sono contatti in corso fra la Cina e suoi rappresentanti. "Alcuni sforzi" sono in corso ha detto il leader tibetano in esilio durante la sua visita a Seattle, negli Stati Uniti. "Da qualche giorno stanno andando avanti" - ha aggiunto il premio Nobel per la Pace -"sono ancora in piena segretezza, non voglio speculazioni". Il Dalai Lama non ha fornito altri dettagli, ma ha precisato di non essere coinvolto direttamente.
L’apertura di un dialogo fra il Dalai Lama e la Cina è una delle principali richiese dei governi occidentali e dei sostenitori della causa tibetana. Pechino ha finora accusato la "cricca" del Dalai Lama di aver organizzato le recenti proteste a Lhasa.
A Seattle, il leader spirituale tibetano ha sottolineato che la spinta del presidente cinese Hu Jintao verso "una società armoniosa" mostra che il partito comunista cinese è "in uno stato di trasformazione". "Presto o tardi, il partito comunista cinese dovrà accettare la realtà e agire di conseguenza" verso il Tibet, ha detto ancora il Dalai Lama, secondo il quale la Cina merita di poter diventare una superpotenza ma al momento manca di "autorità morale"
Olimpiadi, i Nobel in campo per i diritti del Tibet
di Umberto De Giovannangeli *
I Nobel si schierano. Per il rispetto dei diritti umani in Cina, per l’autonomia del Tibet, perché il mondo non accompagni con un silenzio complice l’agonia del Darfur. E lo schierarsi significa firmare appelli, esporsi pubblicamente, compiere gesti altamente simbolici. Come quello di cui si è resa protagonista Wangari Maathai, premio Nobel per la Pace 2004, che ha annunciato ieri di aver annullato la sua partecipazione alla staffetta per la fiaccola olimpica prevista per domani a Dar es Salaam, in Tanzania, unica tappa africana del suo percorso. «Sì, mi sono ritirata. Ho deciso di mostrarmi solidale con altre persone sulle questioni dei diritti umani nella regione del Darfur, in Tibet e in Birmania», spiega la premio Nobel.
I Nobel si schierano, prendono posizione, sostengono la mobilitazione non violenta contro le «Olmpiadi della vergogna». In prima fila è Desmond Tutu, premio Nobel per la Pace, simbolo, assieme a Nelson Mandela, della lotta contro il regime segregazionista sudafricano. L’arcivescovo si è espresso a favore di un «totale boicottaggio» dei Giochi olimpici, in programma dall’8 agosto a Pechino, se la Cina dovesse continuare a mostrarsi «irremovibile» sulla questione dei diritti umani, del conflitto in Tibet e sul Darfur. «Noi in Sudafrica siamo un esempio di quanto efficace possa essere il boicottaggio dei Giochi», ha dichiarato nei giorni scorsi Tutu. «Che non abbiamo più l’apartheid in Sudafrica - ha aggiunto - ha anche a che fare con il fatto che il mondo si è unito a noi e mise al bando l’allora governo sudafricano».
I Nobel prendono posizione e nel farlo mettono a nudo le contraddizioni e la doppia morale della realpolitik. Tra i più attivi nel promuovere appelli e iniziative pubbliche è Elie Wiesel, premio Nobel per la Pace 1986. «Occorre mantenere alta la pressione internazionale finché non saranno ascoltate le voci dei tibetani e le prigioni svuotate - ha spiegato Wiesel in una recente intervista a L’Unità -. Dobbiamo estendere il campo della pace e del dialogo. È questo che oggi ci chiede il Dalai Lama di non abbassare la guardia e di sostenere con forza le ragioni del dialogo». Una tesi rilanciata con forza, sempre sull’Unità, da Adolfo Pérez Esquivel: «Il grido d’allarme lanciato dal Dalai Lama - afferma il premio Nobel per la pace argentino - va raccolto da tutti, governi, organismi internazionali, associazioni umanitarie, intellettuali. La repressione messa in atto dalle autorità cinesi è tanto più grave perché si esercita contro un movimento non violento, le cui rivendicazioni non minano l’integrità territoriale della Cina. È questo un punto centrale - rimarca Adolfo Pérez Esquivel - perché ciò che i monaci tibetani chiedono non è l’indipendenza ma l’autonomia all’interno della Repubblica popolare cinese. Chiedono il rispetto della loro identità, difendono la libertà di culto, la loro cultura secolare, e lo fanno con la non violenza. Per questo oggi io dico: dobbiamo essere a loro fianco, perché non possiamo non dirci tibetani».
È su iniziativa di Elie Wiesel che ha preso corpo un appello al governo cinese sottoscritto da 26 premi Nobel i quali hanno deplorato e condannato la Cina per la violenta repressione messa in atto in Tibet e protestato contro le autorità cinesi per la loro campagna di denigrazione contro il Dalai Lama. «Noi, sottoscritti, premi Nobel - recita il documento - deploriamo e condanniamo il governo cinese per la sua violenta repressione esercitata sui manifestanti tibetani. Sollecitiamo le autorità cinesi a fare esercizio di moderazione nel trattare con questi disarmati, pacifici dimostranti». «Protestiamo - prosegue la dichiarazione dei 26 Nobel - per la campagna ingiustificata di denigrazione condotta dal governo cinese contro il nostro collega premio Nobel, Sua Santità il Dalai Lama. Contrariamente alle ripetute affermazioni delle autorità cinesi, il Dalai Lama non reclama la separazione della Cina, ma l’autonomia religiosa e culturale. Questa autonomia è fondamentale per la conservazione dell’antico patrimonio culturale». A schierarsi non sono solo Nobel per la pace, come Wiesel, John Hume, Betty Williams, ma anche Nobel per la letteratura, come John Coetzee, Wole Soyinka, della Medicina, come Arvid Carlsson, Gunter Blobel, Paul Greengard, Eric R.Kandel, Erwin Neher, Richard J. Roberts, Phillip A.Sharp, Torsten N. Wiesel, Baruj Benacerraf, dell’Economia - Finn E.Kyland, Clive W.J.Granger - della Fisica - Alexei Abrikosov, Brian D. Josephson, H.David Politzer - della Chimica - Peter Agre, Paul J. Crutzen, Avram Hershko, Roald Hoffman, Roger Kornberg, Jens C. Skou -......
Non solo Tibet. Non solo i diritti umani in Cina. Atri dossier caldissimi riguardano Birmania e Darfur e chiamano ancora in causa la Cina. A protestare per il sostegno dato da Pechino alla giunta militare birmana sono 8 premi Nobel per la Pace - tra i quali Adolfo Pérez Esquivel, Maillad Maguire, Rigoberta Menchu e Jody Williasms. Sul Darfur, gli stessi Nobel chiedono al governo cinese di sospendere le relazioni economiche con il Sudan, ricordando che «il governo cinese acquista circa i due terzi del greggio sudanese e vende armi a Khartoum, molte delle quali utilizzate nel conflitto in Darfur, che ha causato almeno 200.000 morti e 2,5 milioni di profughi e sfollati...».
Una denuncia rilanciata con forza da Jody Williams: «Tutti noi - afferma la premio Nobel - dobbiamo dire chiaramente che la politica di “non interferenza” di Pechino non può essere tollerata. Dobbiamo svincolarci dal potere delle aziende cinesi non soltanto per la gente del Darfur, ma per i birmani, i tibetani e i congolesi, per non parlare dei milioni di cinesi cui è negato ogni genere di diritto umano». A fianco dei Nobel si sono schierate anche star del cinema, tra le quali Richard Gere. «In questa situazione - ha dichiarato l’attore americano, amico personale del Dalai Lama - se i cinesi non agiscono in modo corretto, non cambiano il loro modo di fare, non riconoscono ciò che sta succedendo e non consentono libero accesso alle comunicazioni, allora penso che dovremmo assolutamente boicottare» i Giochi di Pechino. Una prospettiva - quella del boicottaggio - che non trova il consenso di Mikhail Gorbaciov, premio Nobel per la Pace nel 1990- «Bisogna sostenere e appoggiare le Olimpadi che sono l’incontro di popoli e i giovani sono il futuro di questi popoli. Ma - afferma Gorbaciov - se dobbiamo dire qualcosa ai nostri amici cinesi, dobbiamo farlo». Mantenere alta la guardia. Non è un appello. È l’impegno che i Nobel si sono assunti. Perché, ricorda Elie Wiesel, che quella del «Tibet è una tragedia. La tragedia di un popolo pacifico che non è mai stato animato da propositi di conquista. Un popolo che non ha mai coltivato disegni di grandezza o mire espansioniste...». Un popolo da sostenere.
* l’Unità, Pubblicato il: 12.04.08, Modificato il: 12.04.08 alle ore 12.39
Da Trieste Ambra Cusin lancia una proposta che trovo interessante e alla quale potremmo aderire. Se i capi di stato, per interessi di bottega, non sembrano disposti, noi dal nostro canto, potremmo far pesare la nostra assenza!
Che ne dite?
Vi incollo quanto Ambra scrive.
Buona lettura ed un abbraccio a tutte e tutti.
Aldo [don Antonelli]
Cari amici,
dunque, io ho deciso. A modo mio, nelle mie limitatissime e forse inutili possibilità, ho deciso di non assistere a nessun spettacolo olimpico, né all’inaugurazione né ai giochi olimpici.
Attuerò così la mia umile protesta non violenta nei confronti di quanto sta accadendo in Tibet rispetto ai diritti umani.
I tibetani da troppi anni sono costretti a rinunciare a parlare la loro lingua (pensate alla nostra minoranza slovena, a quando era stata costretta dal fascismo a cambiare cognome, a non poter parlare lo sloveno... oggi succede in Tibet la stessa cosa!) e se vogliono occupare posti di lavoro in ambito pubblico devono solo parlare cinese.
Se volete avere un assaggio di come i cinesi, nonostante la loro millenaria cultura, siano in grado di calpestare i diritti civili, leggete il libro della Jung Chang: Cigni selvatici: tre figlie della Cina e vi farete un’idea.
Ci hanno detto che le olimpiadi andavano fatte in Cina perché questo avrebbe portato a maggiori conquiste sociali e civili in quel paese, ma da quanto mi risulta, per quanto riguarda ad esempio la pena di morte, nulla è cambiato.
E da molti, troppi anni, i monaci tibetani sono fatti oggetto di violenza. In questo periodo vengono criticati e perseguitati solo perché hanno avuto il coraggio, approfittando della visibilità data dalle olimpiadi, di segnalare la repressione nella quale vivono.
Non mi interessa se la mia personale scelta di boicottaggio è inutile a livello macrosociale, io sento di dover seguire ciò che mi indica la mia coscienza. Mi impegno, se sarò in un luogo dove posso farlo, di accendere una candela nella sera dell’inaugurazione, e per tutto questo periodo girerò con un nastrino rosso sulla borsetta o sullo zaino.
Questo è ciò che una semplice e impotente cittadina può fare. Se volete potete farlo anche voi, se volete potete far girare questa mail ai vostri indirizzi. Se volete potete gettarla via. Noi siamo liberi, ma questa libertà non è un dono garantito per tutti.
Cordiali saluti
Ambra Cusin
Informazione scorretta: non è altro che la versione aggiornata del piano imperialista inglese contro la Cina
E se i disordini di Lhasa del 14 marzo non fossero stati altro che «un pogrom anticinese»? Una «caccia all’uomo finita con donne, bambini e vecchi dati alle fiamme?» e se la stampa internazionale «quella europea in particolare» fosse impegnata in «una campagna anti-cinese dai connotati razzisti», degna continuazione del vecchio «piano imperialista contro Pechino e della guerra dell’Oppio?». A pensarlo sono due intellettuali di sinistra: il filosofo torinese del pensiero debole Gianni Vattimo e lo storico dell’Università di Urbino Domenico Losurdo, che sulla Cina moderna ha scritto più di un libro. Nel giorno in cui Gordon Brown annuncia il proprio boicottaggio politico delle cerimonie olimpiche, Losurdo si è incollato alla sua posta elettronica per lanciare un appello agli altri intellettuali italiani affinché si riveda l’interpretazione «troppo squilibrata» a favore dei monaci di quanto sta succedendo in questi mesi pre-olimpici dentro i confini del Tibet. Finora l’unico che ha risposto con interesse alla chiamata da Urbino è stato Gianni Vattimo, che ha dato l’ok alla bozza di Losurdo: «Sì, io firmo».
CACCIA ALL’UOMO - A sostegno della loro tesi, finora del tutto minoritaria, i due professori - Losurdo è considerato vicino all’area dell’Ernesto, la minoranza di Rifondazione comunista, Vattimo, già europarlamentare ds, poi passato al partito dei comunisti italiani di Diliberto è ora approdato al marxismo tout court - portano anche foto, reportage di giornalisti stranieri, testimonianze di turisti che erano a Lhasa in quei giorni e «video della tv cinese, censurati in Italia, ma che - spiega Losurdo - sono facilmente scaricabili da internet»: «La stampa europea e quella italiana in particolare hanno accettato la versione dei monaci, e solo qua e là a spizzichi e bocconi si può leggere qualche informazione corretta sulla selvaggia caccia all’uomo di quei giorni in cui la polizia cinese fu chiamata ad intervenire troppo tardi, quando il più era già avvenuto». Riportare dunque all’ordine del giorno anche la vulgata cinese è la missione che i due intellettuali si sono proposti e per la quale sono al lavoro, limando il testo dell’appello da proporre ai loro colleghi, ma anche ai parlamentari e all’opinione pubblica. Una difesa vera e propria della Cina «dall’attacco occidentale»: «Prima l’indipendenza mascherata da autonomia del Tibet - protesta Losurdo - del Grande Tibet, poi della Mongolia interna e infine della Manciuria: non è altro che la versione aggiornata del piano imperialista inglese contro la Cina».
Gianna Fregonara, Corriere della Sera, 10 aprile 2008
IL DISCORSO
Nuova presa di posizione del Dalai Lama
"Troppe bugie, sul Tibet
il mondo cerchi la verità" *
DAL 10 marzo di quest’anno stiamo assistendo a molteplici proteste e dimostrazioni in molte zone del Tibet - e perfino di studenti in alcune città della Cina - che rappresentano il punto di esplosione di un’angoscia fisica e psicologica provata per lungo tempo dai tibetani, nonché l’espressione di un profondo risentimento contro l’oppressione dei diritti umani del popolo tibetano.
Risentimento per la mancanza della libertà religiosa, per il tentativo di distorcere in ogni occasione possibile la verità. (...) L’uso delle armi e della violenza per reprimere e disperdere le manifestazioni pacifiche del popolo tibetano mi rattrista profondamente. Tali interventi hanno scatenato disordini in Tibet, hanno provocato molte vittime e moltissimi feriti, molteplici arresti. (...) Di fronte a questo io mi sento del tutto impotente. Prego per tutti i tibetani e i cinesi che hanno perso la vita.
Le recenti proteste in tutto il Tibet hanno non soltanto contraddetto ma anche fatto a pezzi la propaganda della Repubblica popolare cinese, secondo la quale ad eccezione di pochi "reazionari" la stragrande maggioranza dei tibetani vive una vita prospera e felice. Queste proteste hanno invece chiaramente evidenziato che i tibetani di tre province - U-tsang, Kham e Amdo - hanno le stesse aspirazioni e speranze. Inoltre hanno fatto comprendere al mondo intero che la questione tibetana non può più essere trascurata. (...) Il coraggio e la determinazione dei tibetani che hanno rischiato il tutto per tutto (...) sono molto ammirevoli e l’opinione pubblica internazionale ha compreso e sostenuto lo spirito di questi tibetani. (...)
Presidenti, primi ministri, ministri degli Esteri, Premi Nobel, parlamentari e cittadini preoccupati di ogni angolo del mondo stanno inviando un messaggio forte e chiaro alla leadership cinese affinché ponga immediatamente fine alla violenta repressione contro il popolo tibetano. Hanno incoraggiato il governo di Pechino a seguire una strada per raggiungere una soluzione reciprocamente vantaggiosa. Dovremmo creare l’occasione affinché i loro sforzi diano risultati positivi. So che siete provocati a ogni livello possibile, ma è importante che vi atteniate alla pratica della non-violenza.
Le autorità cinesi hanno fatto dichiarazioni menzognere contro di me e contro l’Amministrazione Centrale Tibetana, accusandoci di aver istigato e orchestrato gli avvenimenti in Tibet. È assolutamente falso: io ho ripetutamente lanciato appelli affinché un ente indipendente e internazionale si facesse carico di un’inchiesta approfondita per valutare quanto è accaduto. (...) Se la Repubblica Popolare Cinese ha in mano prove e testimonianze a supporto delle affermazioni fin qui fatte, dovrebbe renderle note al mondo intero. Fare dichiarazioni non supportate da prove non è sufficiente.
Per il futuro del Tibet, ho deciso di trovare una soluzione nell’ambito della Repubblica Popolare Cinese: dal 1974 sono rimasto fedele all’approccio reciprocamente vantaggioso della Via di Mezzo. Ormai il mondo intero lo conosce: significa che tutti i tibetani devono essere governati da un’amministrazione che goda di una significativa autonomia regionale e nazionale, con tutto ciò che questo comporta - autodeterminazione, piena responsabilità decisionale - tranne che per le questioni inerenti alle relazioni estere e alla difesa nazionale. Tuttavia, sin dall’inizio ho detto che i tibetani hanno il diritto di decidere il futuro del Tibet.
Ospitare i Giochi Olimpici quest’anno è motivo di grande orgoglio per il miliardo e duecento milioni di cinesi. Fin dall’inizio ho appoggiato la decisione di disputare le Olimpiadi a Pechino. La mia posizione è immutata. Credo che i tibetani non dovrebbero ostacolare in nessun modo i Giochi: ma è diritto legittimo di ogni tibetano lottare per la propria libertà e il rispetto dei propri diritti. D’altro canto, sarebbe inutile e non gioverebbe a nessuno se facessimo qualcosa che creasse odio nell’animo del popolo cinese. Al contrario: dobbiamo favorire la fiducia e il rispetto nei nostri cuori al fine di creare una società armoniosa, in quanto essa non può nascere sulla violenza e l’intimidazione.
La nostra lotta è contro alcuni esponenti della leadership della Repubblica Popolare Cinese e non con la popolazione cinese. Pertanto non dovremmo mai dare adito a incomprensioni o fare qualcosa che possa nuocere alla popolazione cinese. (...)
Se l’attuale situazione in Tibet dovesse perdurare, temo che il governo cinese possa esercitare ancora più forza e aumentare l’oppressione del popolo tibetano. (...) Ho ripetutamente chiesto alla leadership cinese di fermare immediatamente l’oppressione in ogni zona del Tibet e di ritirare i suoi soldati e le sue truppe armate. Se ciò desse risultati, consiglierei ai tibetani di interrompere le proteste.
Voglio sollecitare i miei concittadini tibetani che vivono fuori dal Tibet a essere quanto mai vigili. (...) Non dovremmo impegnarci in nessuna azione che possa anche minimamente essere considerata violenta. Perfino in presenza di provocazioni, non dobbiamo mai permettere che i nostri valori più preziosi e profondi siano compromessi. Credo fermamente che conseguiremo il successo seguendo la strada della non-violenza. Dobbiamo essere saggi, comprendere da dove nascono l’affetto e il supporto dimostrati senza precedenti per la nostra causa.
Infine, desidero ripetere ancora un’ultima volta il mio appello ai tibetani affinché pratichino la non-violenza e non si allontanino mai da questo cammino, per quanto grave possa essere la situazione.
(Discorso pronunciato ieri a Dharamsala, India. Traduzione di Anna Bissanti )
* la Repubblica, 7 aprile 2008
Centinaia di dimostranti pro-Tibet nella capitale britannica Scontri con le forze dell’ordine, arrestate almeno 30 persone
Torcia olimpica a Londra, proteste
manifestanti cercano di spegnerla
L’ambasciatore cinese Fu Ying fa il tedoforo, ma con un cambio di programma *
LONDRA - Proteste contro la repressione cinese in Tibet anche a Londra, tappa odierna del viaggio della fiaccola olimpica. Scontri tra polizia e un piccolo gruppo di manifestanti sono scoppiati fuori dallo stadio di Wembley, da dove la torcia ha iniziato il suo giro per la capitale britannica, imbiancata da una nevicata fuori stagione. Un dimostrante ha poi cercato di impadronirsi della torcia e di spegnerla con un estintore durante il suo passaggio per le strade a bordo di un tipico bus londinese a due piani. Altri tafferugli si sono avuti nella zona di Trafalgar Square. Almeno 30 persone sono state arrestate.
Malgrado l’imponente dispositivo di sicurezza, centinaia di militanti pro-Tibet, con cartelli e bandiere, hanno atteso il passaggio della fiaccola lungo tutto il percorso. Tanto che l’ambasciatore cinese, la signora Fu Ying, che doveva portare la torcia per un breve tratto accanto al British Museum, ha fatto da tedoforo a Chinatown, dove c’erano minori rischi di incontrare contestatori.
La cerimonia è iniziata poco dopo le 10.30 ora locale (le 11.30 italiane) allo stadio di Wembley, mentre cadeva la neve. Il primo degli 80 tedofori è stato il canottiere Steve Redgrave, vincitore di cinque medaglie d’oro olimpiche. Accanto a lui, nel momento in cui è uscito dallo stadio, correvano alcuni giovani e dei poliziotti. Redgrave ha poi ceduto la fiaccola a una giovane atleta che è salita su un autobus scoperto. Sportivi e celebrità devono portarla in giro a piedi, in bicicletta, in barca e in autobus per otto ore facendole percorrere in totale 50 chilometri.
L’assalto è avvenuto nella zona di Ladbroke Road, all’angolo con Holland Park Avenue (ovest di Londra). Due militanti, Martin Wyness e Ashley Darby, che avevano scritto ’estintori di propaganda’ sui due estintori, si sono gettati sul tedoforo Chris Parker, mentre questi stava passando la fiaccola al tedoforo successivo. Sono stati immediatamente bloccati dalla polizia. I due avevano già diffuso una dichiarazione, nella quale dicono di non avercela "con il popolo cinese, ma con il brutale regime che li governa, con il suo orribile trattamento dei diritti umani. La Cina non ha diritto di far passare la fiaccola da Londra".
Un altro arresto, avvenuto poco distante, è stato mostrato dalle tv: un dimostrante che tentava di strappare la torcia a una presentatrice della Bbc, Konnie Huq.
* la Repubblica, 6 aprile 2008
Dopo gli scontri di Londra, nella capitale francese grandi misure di sicurezza
per proteggere i tedofori. La Cina furiosa per le "vili proteste" di ieri
La fiaccola nella Parigi "blindata"
L’ira di Pechino, l’appello del Cio
Il presidente del Comitato olimpico chiede di rispettare lo spirito dei Giochi
e al governo del Paese ospitante una "pacifica soluzione" della questione Tibet
ROMA - Dopo le manifestazioni e gli scontri di ieri a Londra, la fiaccola olimpica è già sbarcata a Parigi. E mentre il Cio lancia un altro appello alla Cina, e Pechino intanto condanna le "vili proteste" inscenate nella capitale britannica, il governo francese mette in atto imponenti misure di sicurezza. Nella speranza di evitare incidenti.
Parigi blindata. Oggi alle 12,35 la torcia partirà dal primo piano della Torre Eiffel per un percorso di 28 chilometri, portata a turno da 80 tedofori e costeggiando i maggiori siti turistici parigini (fra cui l’Arco di Trionfo e gli Champs-Elysees) fino allo Stadio Charlety. Circa tremila i poliziotti che presidieranno la capitale, da terra, dal cielo e dalla Senna. Ciascun tedoforo di turno sarà protetto da un cordone ambulante lungo 200 metri e composto da 65 poliziotti in moto, 100 sui roller e altrettanti vigili del fuoco corridori. I tibetani residenti in Francia hanno preannunciato una giornata di solidarietà sulla piazza del Trocadero. Reporter senza frontiere ha invece esortato tutti i parigini a radunarsi sotto la Torre Eiffel.
L’ira di Pechino. La Cina ha condannato oggi le "vili azioni" dei manifestanti filotibetani che ieri hanno disturbato il percorso della fiaccola olimpica a Londra. L’agenzia Nuova Cina ha citato un "funzionario" del Comitato Organizzatore delle Olimpiadi di Pechino (Bocog) che "denuncia con forza" le dimostrazioni di ieri, nel corso delle quali almeno 35 persone sono state arrestate. Pechino ha inoltre confermato la sua intenzione di far passare la fiaccola da Lhasa, la capitale del Tibet, il 20 e 21 giugno. Per poi essere portata da un gruppo di alpinisti sulla cima del monte Everest.
L’appello del Cio. Per la prima volta, per la prima volta sul tema delle proteste legate al cammino della fiaccola è intervenuto il presidente del Comitato Olimpico Internazionale (Cio), il belga Jacques Rogge, che ha espresso la la profonda preoccupazione per quello che sta succedendo. "Tutti siamo preoccupati - ha detto Rogge - la situazione in Tibet ha suscitato un’ondata di proteste dei governi, dei mezzi di comunicazione e dell’ong che sta mettendo a rischio il passaggio della torcia. La violenza, da qualunque ragione sia ispirata, non è compatibile con i valori della fiaccola e dei Giochi olimpici". Poi la richiesta a Pechino di una "rapida, pacifica soluzione" della situazione tibetana.
San Francisco pronta alla protesta. La città californiana, dove vive la terza comunità cinese del Nordamerica, si prepara ad accogliere la fiaccola olimpica, il 9 aprile, con manifestazioni anti-cinesi. I sostenitori del Tibet, del Darfur e la setta religiosa Falun Gong (duramente perseguitata dal governo cinese) vogliono approfittare dell’evento per manifestare il loro dissenso nei confronti di Pechino. Promettono di protestare in modo non violento, formando una staffetta di sei miglia in cui 80 volontari mimeranno il passaggio della torcia con striscioni e cartelli.
* la Repubblica, 7 aprile 2008
Scontri sotto la Torre Eiffel
assalto alla fiaccola olimpica
Gli organizzatori hanno spento e riacceso più volte la torcia per motivi di sicurezza interrompendo il percorso a piedi e trasferendo la fiaccola su un bus. Dopo gli scontri di ieri a Londra la quinta tappa prosegue tra scontri e rallentamenti in una Parigi blindata. La staffetta deve percorrere 28 chilometri per arrivare nel pomeriggio allo stadio Charlety. Circa tremila poliziotti sono impegnati nel servizio di sicurezza
15:24 Allontanati attivisti Reporter senza frontiere I tre militanti di Reporter senza frontiere che si erano incatenati sulla Torre Eiffel sono stati allontanati dai vigili del fuoco. I pompieri hanno impiegato un’ora per togliere la bandiera e liberare gli attivisti
15:21 Un’ora di ritardo per la faccola La fiaccola olimpica è in ritardo di circa un’ora sul suo programma, dopo che il suo percorso attraverso Parigi è stato disturbato da numerose manifestazioni che hanno portato anche all’interruzione e all’estinzione della fiamma per ragioni tecniche. La conclusione del passaggio della fiaccola a Parigi era prevista intorno alle 17 allo stadio Charlety, nella parte sud della capitale
15:20 Un successo le manifestazioni per il Tibet Le manifestazioni a sostegno del Tibet organizzate a Parigi in occasione del passaggio della fiaccola olimpica costituiscono "un grande successo" secondo il presidente della comunità tibetana francese, Thupten Gyatso
15:13 Militanti Reporter senza frontiere incatenati sulla Torre Eiffel Alcuni militanti di Reporter senza frontiere che in precedenza avevano issato sulla torre Eiffel una bandiera con le manette al posto dei cerchi olimpici si sono incatenati sul monumento, complicando il lavoro dei vigili del fuoco intervenuti per mandarli via ..... (LA REPUBBLICA, RIPRESA PARZIALE - PER AGGIORNAMENTI, CLICCARE SULLA ZONA ROSSA).
Fiaccola, le proteste si spostano negli Usa
WASHINGTON - Dopo Londra e Parigi, anche San Francisco vedrà manifestazioni di protestai per il passaggio della fiaccola di Pechino 2008. Attesi tra i protagonisti l’attore Richard Gere e l’arcivescovo anglicano sudafricano Desmond Tutu, premio Nobel per la pace. Ma già lunedi’ così come nei giorni scorsi, manifestanti contro la repressione cinese in Tibet hanno dato vita a San Francosco a gesti di protesta . Quello più eclatante è stato messo in atto da tre persone che si sono arrampicate sul Golden Gate, il celebre ponte della Baia, scegliendo il luogo più visibile per manifestare la loro protesta, i cavi di sostegno, ai quali hanno appeso due enormi striscioni: "One World, One Dream, Free Tibet" (un mondo, un sogno, Tibet libero). L’arrivo da Parigi della fiaccola per l’unica tappa in terra americana è in programma per le prime ore del pomeriggio di domani, ora locale. Decine le manifestazioni di protesta in cantiere. Le autorità temono che anche a San Francisco si ripetano gli incidenti avvenuti a Londra e a Parigi. Anche per questo il percorso che i tedofori dovranno seguire è tenuto segreto. Proteste sono avvenute già lo scorso fine settimana. La più significativa ha visto 200 ’tedofori’ partecipare alla cosiddetta Human Rights Torch Relay, una staffetta simbolica per i diritti umani. Vi ha preso parte, tra gli altri, anche John Carlos, uno dei velocisti della squadra americana che alle olimpiadi di Città del Messico nel 1968 accolse sul podio la medaglia di bronzo dei 200 metri alzando al cielo un pugno, simbolo del "potere nero" a cui in quegli anni si ispirava in Usa il movimento delle ’pantere nere’. Nella staffetta a Francisco la fiaccola sarà portata da 80 tedofori, la maggior parte dei quali sono stati sorteggiati tra gente comune. In concomitanza con l’arrivo della fiaccola da Parigi, si terrà nel centro della città, in piazza Nazioni Unite, una manifestazione per celebrare la cosiddetta "Tibetan Freedom Torch". In serata nella stessa piazza si svolgerà una fiaccolata a cui parteciperanno Richard Gere, Desmond Tutu e i leader tibetani che vivono in America. Sulle proteste contro la fiaccola olimpica di Pechino 2008 è intervenuta oggi anche Hillary Clinton, candidata alla nomination democratica per la Casa Bianca, che ha accusato l’amministrazione Bush di aver "minimizzato" la gravità degli incidenti avvenuti in Tibet e ha invitato il presidente Bush a non andare alla cerimonia di inaugurazione dei Giochi a Pechino. Dopo la tappa a San Francisco la fiaccola volerà verso Buenos Aires.
IL CALENDARIO
9 aprile: San Francisco
11 aprile: Buenos Aires
13 aprile: Dar es Salaam
14 aprile: Mascate
16 aprile: Islamabad
17 aprile: Nuova Delhi
19 aprile: Bangkok
21 aprile: Kuala Lumpur
22 aprile: Giakarta
24 aprile: Canberra
26 aprile: Nagano
27 aprile: Seul
28 aprile: Pyongyang
29 aprile: Ho Chi Minh City
2 maggio: Hong Kong
3 maggio: Macao
dal 4 maggio al 7 agosto: giro in Cina (in Tibet dal 19 al 21 giugno, con tappa a Lhasa il 20)
8 agosto: arrivo nello stadio olimpico di Pechino
*Ansa» 2008-04-07 21:19
Quando il mondo si fa sentire
di Luigi Bonanate *
La fiaccola olimpica deve fare ancora 130.000 chilometri: se ogni sua tappa sarà come quelle di Londra e Parigi c’è da temere che non arriverà mai a Pechino per incendiare il braciere olimpico che deve ardere nel periodo delle gare. Rischia invece di incendiare le opinioni pubbliche di quei paesi ai quali il Comitato, scegliendo la Cina come sede olimpica, intendeva mostrare i progressi civili e sociali di quell’immenso e appetibilissimo Paese. Inizia ora una specie di calvario lungo ancora 130 giorni di viaggio: altro che il giro del mondo in 80 giorni di Jules Verne! Questo inutile circuito mediatico della fiaccola mira(va) a suscitare simpatia per lo spirito olimpico, che doveva a sua volta veicolare la benevolenza verso un grande Paese che sta rinnovando profondamente la sua pelle, che sta preparando un’accoglienza turistico-spettacolare che non ha precedenti nel mondo, e proprio nel Paese che un tempo si era costruito una Grande muraglia per starsene al sicuro al di là! Naturalmente le buone intenzioni degli organizzatori erano rivolte, nello stesso tempo, anche al tentativo di liberare la popolazione da certe strettoie.
Strettoie nelle quali un governo comunista/capitalista (un bel nodo!) cerca di tenere sotto controllo uno sviluppo sociale, economico e produttivo talmente impetuoso che potrebbe rivelarsi uno tsunami per chiunque cercasse di incanalarlo e regolarne il flusso. In altri termini, la Cina oggi è di fronte all’alternativa tra repressione (anche se non siamo più ai tempo dello stalinismo, né a quelli di Pol Pot) e liberalizzazione (che potrebbe rivelarsi incontrollabile travolgendo ogni governo).
La prima soluzione ha suscitato l’opposizione dell’opinione pubblica contro quei governi che vedono nella Cina uno straordinario grande magazzino nel quale tutto si può vendere e tutto si può comprare. La liberalizzazione, che è la seconda alternativa, farebbe felici tutti noi, ma creerebbe una tensione politico-sociale in Cina ingestibile dall’attuale potere, che quindi se ne tiene ben lontano. L’ha dimostrato, purtroppo, con una chiarezza che non teme smentite, con la repressione in Tibet, tanto scomposta e brutale quanto simbolica ed esemplare, avvisando tutto il mondo (ivi compresa la parte di osservanza cinese) che la Olimpiadi non potranno a nessun titolo essere trasformate in una tribuna internazionale dei diritti umani.
I dirigenti cinesi forse non sanno però che lo sport è politica (ricordate quando il mito della superiorità socialista era incarnato negli anabolizzati atleti della DDR che vincevano quasi tutto, ma morivano pochi anni dopo?), ma neppure che intrecci perversi e anche violenti tra Olimpiadi e politica hanno già seminato morte e devastazione. Basta il ricordo di Monaco 1972 per farci rabbrividire; ma anche Mosca 1980, se pensiamo che quell’Olimpiade fu boicottata dai Paesi occidentali (Italia esclusa) per condannare davanti all’opinione pubblica mondiale l’invasione sovietica dell’Afghanistan. Sembra preistoria... E ora, siamo di fronte a una suggestiva novità: di fronte ai vari governi, da quello cinese a quelli di Paesi come la Francia che promettono di partecipare ai giochi ma fingono di porre delle condizioni, si erge, con una carica di pura e semplice verità, un movimento d’opinione popolare che, di capitale in capitale, ripete la sua scoperta: gli “abiti nuovi dell’imperatore” non solo non sono nuovi, anzi non li ha neppure addosso. Sta succedendo in altri termini che la contestazione, sostanzialmente pacifica (e speriamo rimanga tale), mette in mora i governi che speravano di arrivare fino ad agosto in incognito, per così dire, facendo finta di niente; gli atleti si preparano, i dirigenti prenotano i biglietti, e poi via tutti ai Giochi.
I manifestanti stanno rompendo le uova nel paniere anche alla Cina, alla quale diventa ogni giorno più difficile tenere tutto nascosto. Dopo il Tibet, ora li aspetta un tragitto di più di centomila chilometri con 21 tappe, ciascuna delle quali può trasformarsi nel palcoscenico della contestazione della Cina e della volontà occidentale di andare ai Giochi: insomma, rischia di venirne fuori un’immensa frittata. Ma essa ci dice anche una cosa interessantissima: al black-out che la Cina si ostina a estendere a tutto il Paese fa riscontro una crescente apertura mediatica planetaria, che mostra quella è che la straordinaria forza comunicativa che le pubbliche opinioni, quando spontanee, sincere e non organizzate, hanno: esse sono la democrazia in cammino. Che cosa altro è la democrazia se non quella circostanza che vede in piazza (nella agorà greca) i cittadini (del mondo) che civilmente, ostinatamente, vivacemente espongono le loro critiche al proprio governo, a quello degli altri Paesi e anche a quello della Cina?
Un movimento democratico come questo potrebbe venir contrastato dalla Cina e dai governi dei principali Paesi con l’argomento della sicurezza: i disordini metterebbero in difficoltà gli Stati partecipanti, priverebbero di spontaneità e di gioiosità le varie gare, che dovrebbero venire blindate, nel timore di attentati, contestazioni, manifestazioni rivolte alla società cinese e non ai suoi Giochi. Insomma, non vorrete mica che l’opinione pubblica rovini i Giochi? Ma quando è in azione, la democrazia è irrefrenabile. Potremmo scoprire un bel paradosso: quanto più la Cina cercherà di calmare le acque aiutata dai governi occidentali, tanto più l’opinione pubblica internazionale si mobiliterà e alzerà la sua voce. Fino a farla sentire anche ai cinesi...
* l’Unità, Pubblicato il: 08.04.08, Modificato il: 08.04.08 alle ore 8.31
Comitato esecutivo: Olimpiadi in crisi ma ne usciremo
Appello del Cio a Pechino sull’impegno "morale" a migliorare la situazione
Il segretario dell’Onu Ban Ki-Moon non sarà all’apertura dei Giochi
Ufficialmente è per via di "una sovrapposizione di appuntamenti in agenda"
Il Dalai Lama: "I tibetani hanno diritto a protesta non violenta"
PECHINO - Dopo aver superato pressoché indenne anche la tappa californiana, la fiaccola prosegue il suo viaggio verso Buenos Aires, dove sfilerà domani. E intanto il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-Moon ha fatto sapere che non parteciperà alla cerimonia di apertura dei giochi olimpici di Pechino 2008 per "problemi del sovrapporsi di appuntamenti in agenda". Lo ha annunciato la portavoce Marie Okabe, specificando che questa è la situazione al momento e che una decisione definitiva sarà presa più avanti. In ogni caso la Okabe ha sottolineato che non si tratta di una decisione politica.
Il Dalai Lama, che è in viaggio verso gli Stati Uniti, oggi ha fatto una breve sosta in Giappone dove ha detto che i tibetani hanno diritto a una protesta non violenta. "L’espressione dei loro sentimenti è cosa loro, nessuno ha il diritto di zittirli. Uno dei problemi del Tibet è che non c’è libertà di espressione", ha detto il Dalai Lama tornando a chiedere autonomia per il Tibet, pur riconoscendo che il popolo cinese merita le Olimpiadi.
Sulla crisi è intervenuta oggi anche la commissione diritti umani dell’Onu, esprimendo la sua preoccupazione per la repressione della rivolta in Tibet ed ha esortato Pechino a concedere l’accesso nella regione a giornalisti ed osservatori indipendenti.
Intanto il Cio ammette la crisi in corso ma ribadisce che malgrado il percorso ostacolato nulla spegnerà la fiamma, e la torcia olimpica andrà avanti nel suo giro intorno al mondo. Il presidente del Cio, Jacques Rogge, ha ammesso la crisi in corso ma ha esortato gli atleti a non perdere la fiducia, e ha rivolto un appello alla Cina perché rispetti l’impegno "morale" a migliorare i diritti umani prima dell’Olimpiade. Invito che ha suscitato subito una risposta risentita da parte di Pechino. Il Comitato Olimpico Internazionale, è stata la replica cinese con evidentete riferimento al tema dei diritti umani, pensi a mantenere distinti dallo spirito olimpico "le questioni politiche irrilevanti".
Tokyo, nuovo appello del Dalai Lama. Il leader spirituale tibetano è arrivato oggi in Giappone, per una breve sosta nel suo viaggio alla volta di Seattle, in Usa, dove ha in programma una serie di conferenze sulla spiritualità. "La mia visita negli Usa non ha alcun valore politico" ha detto il Dalai Lama durante la conferenza stampa in un albergo presso l’aeroporto Narita, a pochi chilometri da Tokyo. Il Dalai Lama ha poi lanciato un nuovo appello per l’autonomia del Tibet dichiarando che il popolo cinese merita le Olimpiadi ma che i tibetani hanno diritto di protestare in maniera non violenta.
Senza incidenti la marcia a San Francisco. Si è conclusa senza incidenti ma con un significativo cambiamento di programma la tormentata tappa americana della fiaccola olimpica. Le autorità di San Francisco, che avevano deciso di modificare più volte il percorso della staffetta, hanno annullato la prevista cerimonia di chiusura organizzata nella Baia, sostituita da un’altra all’aeroporto, prima della partenza per Buenos Aires, settima tappa in programma domani. Intanto, dopo l’appello di Hillary Clinton, anche Barack Obama, candidato alla nomination democratica alla Casa Bianca e senatore dell’Illinois, ha detto che il presidente Usa, George W. Bush, dovrebbe boicottare la cerimonia d’apertura dei Giochi se la Cina non rivedesse la sua posizione sia per quanto riguarda il Tibet, sia il sostegno cinese al Sudan in relazione alla situazione in Darfur.
"Olimpiadi in crisi ma ne usciremo". Il presidente del Comitato olimpico internazionale (Cio), Jacques Rogge, si è rallegrato dell’esito della staffetta a San Francisco, dove è andata meglio rispetto a Londra e Parigi, ma ha aggiunto "non è stata la gioiosa festa che speravamo di vedere". Rogge ha poi confermato che non è "assolutamente in agenda" l’ipotesi di eliminare tappe dal periplo mondiale della fiaccola olimpica. Al termine di un incontro tra l’Associazione dei comitati olimpici nazionali e il consiglio esecutivo del Cio, Rogge ha ammesso che le Olimpiadi sono "in crisi", ma ha invitato i dirigenti sportivi a rassicurare gli atleti sul successo delle prossime Olimpiadi. "Dite loro - è stato l’appello di Rogge, - che, a dispetto di quanto hanno visto e sentito, i Giochi saranno bene organizzati. Dite loro di non perdere la fiducia, ci riprenderemo da questa crisi".
Cio: la Cina ha rispettato impegni sui diritti civili. La Cina ha preso solo un "impegno morale" sui progressi nel campo dei diritti umani al momento dell’assegnazione dei Giochi Olimpici del 2008 a Pechino. Il presidente del Cio, Jacques Rogge, ha ricordato che il governo cinese, quando chiese di poter ospitare le Olimpiadi, assicurò che avrebbe "migliorato la situazione sociale, compresi i diritti umani". "Direi che si tratta di un impegno morale più che giuridico" ha precisato, "ma chiediamo davvero alla Cina di rispettare questo suo impegno etico". Impegno che è stato "sostanzialmente rispettato", ha detto Rogge citando come esempio la nuova e relativamente liberale legge sulla stampa straniera varata all’inizio del 2007. Rogge ha aggiunto di "essere al corrente del fatto che oggi la legge non viene applicata e che quattro province cinesi, tra cui il Tibet, sono chiuse alla stampa e a tutti gli osservatori indipendenti. Lo abbiamo fatto presente al governo cinese", ha dichiarato, "che ha risposto che risolverà il problema il più preso possibile".
Pescante chiede a Cio "parole chiare". Secondo Mario Pescante, uno dei due membri italiani del Comitato esecutivo, il Cio deve dire una parola chiara sulla situazione dei diritti umani in Cina. "Non si tratta di boicottaggio, al quale sono contrario ma se ci sono comportamenti non conformi a un evento sportivo della portata delle Olimpiadi il Cio dovrebbe dire qualcosa". L’orientamento del presidente del Cio Jacques Rogge, appare diverso. Nelle riunioni preparatorie, ha sottolineato Pescante, solo i rappresentanti dei Comitati olimpici europei hanno sollevato il problema. "Non possiamo fare molto, possiamo solo dire delle parole, ma le parole hanno un peso. E questo silenzio - ha concluso Pescante - è rumoroso".
* la Repubblica, 10 aprile 2008.