Antropologia e Storia. Il mondo come volontà e rappresentazione......

LA TERRA, IL GENERE UMANO E IL PROBLEMA STORIOGRAFICO. Alcune pagine di uno studio di Jack Goody sul "furto della storia" - a cura di Federico La Sala

lunedì 21 aprile 2008.
 

JACK GOODY: UN ESTRATTO DA

"IL FURTO DELLA STORIA"*

Dall’inizio del XIX secolo, grazie alla presenza europea in tutto il mondo a seguito delle conquiste coloniali e della Rivoluzione industriale, la costruzione della storia mondiale e’ stata dominata dall’Europa occidentale. Anche presso altre civilta’, come l’araba, l’indiana, la cinese, si sono avute storie del mondo caratterizzate da parzialita’ (tutte le storie sono in qualche misura parziali); anzi, sono rare le culture prive dell’idea, sia pure rudimentale, che il proprio passato e’ in relazione con quello di altri, anche se i piu’ iscriverebbero tali resoconti nella categoria del mito piuttosto che della storia.

Un indispensabile scetticismo

La caratteristica dei resoconti europei, comune del resto anche a societa’ molto piu’ semplici, e’ stata la tendenza a sovrapporre la propria storia al mondo piu’ ampio, a causa di una inclinazione etnocentrica, a sua volta estensione dell’impulso egocentrico che sta alla base di gran parte della percezione umana; e la possibilita’ da parte dell’Europa di dare corso a tale inclinazione e’ dovuta al suo effettivo dominio in molte parti del mondo. Ciascuno inevitabilmente vede il mondo con i propri occhi, non con quelli altrui. E sebbene in tempi recenti siano emersi orientamenti contrari in tema di storia mondiale, a mio parere questo indirizzo non e’ stato portato sufficientemente avanti a livello teoretico, soprattutto per cio’ che riguarda le grandi fasi in cui concepire la storia mondiale.

Per contrastare l’inevitabile carattere etnocentrico di qualunque tentativo di descrizione del mondo, passato o presente, occorre porsi in una prospettiva piu’ critica. Questo significa innanzitutto assumere un atteggiamento di scetticismo riguardo alla pretesa occidentale, in particolare da parte dell’Europa (ma, beninteso, anche dell’Asia), di avere inventato pratiche e valori come la democrazia o la liberta’.

In secondo luogo, significa guardare la storia a partire dal basso anziche’ dall’alto (o dal presente). In terzo luogo, significa assegnare un peso adeguato al passato extra-europeo. Infine, occorre prendere coscienza del fatto che la stessa struttura portante della storiografia, la collocazione degli avvenimenti nel tempo e nello spazio, e’ variabile, soggetta a costruzione sociale e dunque a cambiamento. Non e’ fatta, cioe’, di categorie immutabili, che promanerebbero dal mondo stesso nella forma in cui esse sono presenti alla coscienza storiografica occidentale.

Gli abitanti del "vecchio paese"

Le dimensioni temporale e spaziale oggi prevalenti furono tracciate dall’Occidente. Cio’ avvenne perche’ l’espansione nel mondo rese necessarie la notazione cronologica e la costruzione di mappe, le quali fornirono l’intelaiatura non solo della geografia ma anche della storia. Beninteso, tutte le societa’ hanno conosciuto concetti spaziali e temporali intorno ai quali organizzare la vita quotidiana. Tali concetti diventarono piu’ elaborati (e piu’ precisi) con l’avvento dell’alfabetizzazione, che forni’ indicatori grafici per entrambe le dimensioni. Fu la prioritaria invenzione della scrittura, piuttosto che il possesso di una qualche intrinseca verita’ circa l’organizzazione spazio-temporale del mondo, a conferire alle piu’ importanti societa’ dell’Eurasia notevoli vantaggi nel computo del tempo e nella creazione e nel perfezionamento della cartografia, rispetto, per esempio, all’Africa, che aveva una cultura orale. (...)

Il "furto della storia" non e’ soltanto l’appropriazione del tempo e dello spazio, ma anche la monopolizzazione dei periodi storici. Quasi tutte le societa’ sembrano compiere qualche tentativo di classificare il proprio passato secondo differenti periodi di tempo di lunga durata, rapportati alla creazione non tanto del mondo quanto dell’umanita’. Se, come e’ stato detto, per gli eschimesi il mondo e’ sempre stato come e’ ora, nella grandissima maggioranza delle societa’ gli esseri umani di oggi non sono considerati gli abitatori primigeni del pianeta. La loro presenza sulla terra ha avuto un momento di inizio, che presso gli aborigeni australiani era chiamato "il tempo del sogno"; secondo i loDagaa del Ghana settentrionale, i primi esseri umani abitavano "il vecchio paese" (come tengkuridem).

Calcoli cristiani

Con la comparsa della "lingua visibile", la scrittura, la periodizzazione sembra farsi piu’ complessa; troviamo l’idea di una primitiva eta’ dell’oro o paradiso, quando il mondo era un posto migliore in cui vivere, che l’umanita’ sarebbe stata costretta ad abbandonare a causa del suo (peccaminoso) comportamento: il contrario dell’idea di progresso e di modernizzazione. Altri ancora elaborarono una periodizzazione basata su cambiamenti nella natura degli utensili usati dagli esseri umani, che potevano essere di pietra, di rame, di bronzo o di ferro, una periodizzazione delle eta’ dell’uomo che fu assunta come modello scientifico dagli archeologi europei del XIX secolo.

In epoca relativamente recente, l’Europa si e’ appropriata del tempo in maniera piu’ decisa, applicando la propria versione al resto del mondo. Beninteso, e’ indispensabile inserire la storia mondiale in un’unica cornice cronologica, se la si vuole considerare unitariamente. Ma si e’ dato il caso che il calcolo internazionale del tempo sia fondamentalmente cristiano, come cristiane sono le piu’ importanti festivita’ - Natale e Pasqua - celebrate da organismi mondiali come le Nazioni Unite, e questo vale anche per le culture orali del Terzo Mondo, che pure non aderivano al sistema di calcolo usato da quella che e’ solo una tra le maggiori religioni.

Un certo grado di monopolizzazione e’ necessario nella costruzione di scienze universali come, poniamo, l’astronomia. Anche la globalizzazione comporta un certo grado di universalita’: non si puo’ operare con concetti meramente locali. Ma benche’ lo studio dell’astronomia fosse nato altrove, le modificazioni avvenute nella societa’ dell’informazione e in particolare nella tecnologia dell’informazione nella forma del libro a stampa (proveniente peraltro, come anche la carta, dall’Asia) fecero si’ che, nella sua struttura evoluta, la cosiddetta scienza moderna fosse occidentale. In questo caso, come in molti altri, globalizzazione ha voluto dire occidentalizzazione.

L’universalizzazione diventa un problema molto maggiore nelle scienze sociali, per cio’ che riguarda la periodizzazione. Nella storiografia e nelle scienze sociali, per quanto gli studiosi si sforzino di conseguire una "oggettivita’" weberiana, i concetti usati sono piu’ strettamente legati al mondo che diede loro i natali.

Per esempio, i termini "antichita’" e "feudalesimo" furono chiaramente definiti alla luce di un contesto esclusivamente europeo, pensando al particolare sviluppo storico di quel continente. E nell’applicazione di quei concetti ad altre epoche e ad altri luoghi, sorgono dei problemi perche’ in quel caso vengono in primo piano i loro limiti molto reali. Dunque, uno dei grandi problemi dell’accumulazione del sapere riguarda il fatto che le categorie impiegate sono esse stesse in larga misura europee, in molti casi definite per la prima volta durante la grande fioritura di attivita’ intellettuale che segui’ al ritorno della Grecia alla cultura scritta.

Fu allora che furono delineati i campi della filosofia e di discipline scientifiche come la zoologia, poi riprese in Europa. Sicche’ la storia della filosofia, quale e’ incorporata nei sistemi scolastici europei, e’ sostanzialmente la storia della filosofia occidentale dai greci in avanti.

In anni recenti, gli studiosi occidentali hanno marginalmente dedicato qualche attenzione a temi analoghi presenti nel pensiero (pensiero scritto, cioe’) cinese, indiano o arabo. Minore attenzione ricevono, comunque, le societa’ prive di scrittura, benche’ si riscontrino tematiche a tutti gli effetti "filosofiche" nelle narrazioni orali rituali, come il mito del Bagre dei loDagaa del Ghana settentrionale. La filosofia e’ pertanto quasi per definizione una disciplina europea. Come e’ avvenuto per la teologia e per la letteratura, abbastanza di recente sono stati introdotti alcuni elementi comparatistici, come concessione a interessi indotti dalla globalizzazione. Ma, in realta’, la storiografia comparata rimane in gran parte un’utopia. (...)

La linearita’ e’ un elemento costitutivo dell’idea di "progresso", che noi consideriamo "avanzata". Secondo alcuni, questa nozione e’ tipica ed esclusiva dell’Occidente, e in qualche misura effettivamente lo e’, essendo attribuibile alla velocita’ delle trasformazioni avvenute principalmente in Europa a partire dal Rinascimento, nonche’ alle applicazioni della "scienza moderna" come la definiscono Needham e altri. Io direi piuttosto che una qualche nozione di progresso e’ tipica di tutte le culture scritte, con la loro introduzione di un calendario fisso, che per cosi’ dire traccia una linea di demarcazione. Ma questa non segnala affatto una progressione unidirezionale. Quasi tutte le religioni scritte contengono l’idea di una eta’ dell’oro, di un paradiso o giardino naturale, dal quale l’umanita’ dovette in seguito ritirarsi. Tale nozione comportava un guardare all’indietro, oltre che, in alcuni casi, un guardare in avanti verso un nuovo inizio. Anzi, un’analoga idea di paradiso si riscontra anche in culture orali. Ma nel passato si individuava una cesura netta; soltanto dopo l’Illuminismo, con l’imporsi della secolarizzazione, troviamo un mondo governato dall’attuale idea di progressione, non tanto verso una determinata meta, quanto da uno stato precedente dell’universo a qualcosa di differente, addirittura impensato, come nel caso dell’aeroplano, risultato insieme della ricerca scientifica e dell’ingegno umano.

Uno degli assunti di fondo di molta storiografia occidentale e’ che nell’organizzazione delle societa’ umane la freccia del tempo coincida con un equivalente incremento di valore e desiderabilita’, cioe’ con il progresso. La storia diventa una sequenza di stadi, ciascuno derivato dal precedente e introducente al successivo, fino al culmine finale, che per il marxismo, per esempio, e’ il comunismo. Ma non occorre nutrire questo tipo di ottimismo millenaristico per dare una lettura eurocentrica della direzione della storia: per la maggior parte degli storici, il momento in cui scrivono e’ prossimo se non identico alla meta finale dello sviluppo dell’umanita’. In tal modo, cio’ che definiamo progresso riflette in realta’ valori che sono specifici della nostra cultura, e che oltretutto sono di data relativamente recente.

Un dubbio progresso

Parliamo di progressi nel campo delle scienze, nella crescita economica, nella civilta’, nel riconoscimento dei diritti umani (la democrazia, per esempio). Esistono tuttavia altri criteri in base ai quali misurare il cambiamento, e in certa misura essi sono presenti come discorsi antagonisti perfino nella nostra cultura. Se per esempio usiamo il criterio ambientale, la nostra societa’ rappresenta una catastrofe sul punto di verificarsi. Se parliamo di progresso spirituale (la forma di progresso piu’ importante per alcune societa’, anche se controversa nella nostra), si potrebbe dire che stiamo attraversando una fase regressiva. A livello mondiale, non si vedono molte prove di progresso dei valori, a dispetto degli assunti contrari che dominano l’Occidente.

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* Fonte: NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO Numero 432 del 21 aprile 2008

[Dal quotidiano "Il manifesto" del 29 marzo 2008, col titolo "Orientamenti obliqui per la freccia del tempo" e il sommario "La cultura occidentale si e’ appropriata del tempo e dello spazio e ha rivendicato (a torto) l’invenzione di istituzioni come la democrazia: e’ questa la tesi avanzata da Jack Goody nel saggio Il furto della storia, in uscita per Feltrinelli. Anticipiamo uno stralcio. Allo scopo di contrastare il carattere etnocentrico di ogni tentativo di descrizione del mondo, e’ necessario elaborare una nuova metodologia che sia fondata su una prospettiva piu’ critica...".

Jack Goody e’ uno dei piu’ noti antropologi contemporanei. Ancora dal quotidiano "Il manifesto" del 29 marzo 2008 riprendiamo anche la seguente breve scheda ivi apparsa col titolo "Antropologia comparata. Fertili intrecci fra Oriente e Occidente": "Conosciuto in Italia soprattutto per le sue ricerche sulla famiglia e sulle forme di trasmissione culturale, l’antropologo britannico Jack Goody e’ nato nel 1919 e ha compiuto i suoi studi presso l’universita’ di Cambridge, dove e’ attualmente Fellow al St. John’s College, dopo essere stato per molti anni William Wise Professor di Antropologia Sociale. All’inizio della sua attivita’ scientifica, Goody ha condotto ricerche sul campo nel Ghana settentrionale e successivamente in India e Cina meridionale. Analizzando in chiave comparativa l’evoluzione delle strutture sociali, lo studioso si e’ soffermato in particolare sulle origini della scrittura considerata come una ’tecnologia dell’intelletto’. Tra le sue numerose pubblicazioni, vale la pena citare almeno La famiglia nella storia europea (Laterza 2000), L’ambivalenza della rappresentazione.Cultura ideologia religione (Feltrinelli 2000) e Il potere della tradizione scrittaª (Bollati Boringhieri 2002)".

Dal sito della casa editrice Feltrinelli riprendiamo la seguente scheda:

"Jack Goody (1919) e’ professore emerito di Antropologia sociale presso l’Universita’ di Cambridge e Fellow del St. John’s College. I suoi studi sulle origini della scrittura e sul suo ruolo rispetto all’organizzazione sociale sono divenuti un classico dell’antropologia. Ha inoltre messo in luce l’evoluzione delle strutture familiari nella storia europea, ricostruendo in chiave comparativa il modo in cui i diversi sistemi di parentela hanno inciso sulla razionalita’ economica in Occidente e in Oriente. Tra le sue pubblicazioni recenti:

La famiglia nella storia europea (Laterza 2000), L’ambivalenza della rappresentazione. Cultura ideologia religione (Feltrinelli 2000), Il potere della tradizione scritta (Bollati Boringhieri 2002)".

Dalla Wikipedia, edizione italiana, riprendiamo la seguente scheda (in alcuni punti ad un tempo prolissa e frettolosa - e discutibile, ma comunque utile):

"Jack Rankine Goody (27 luglio 1919) e’ un antropologo britannico. Formatosi al prestigioso St. John College di Cambridge, partecipo’ alle missioni in Africa durante la seconda guerra mondiale e fu catturato dai tedeschi e internato in un campo di concentramento a Sulmona.

Rientrato in Inghilterra, ispirato alla lettura de Il Ramo d’oro di James Frazer, decise di intraprendere gli studi in antropologia sociale con Meyer Fortes a Cambridge e si dedico’ alla sua prima ricerca sul campo, destinata alla tesi dottorale, in un’area attigua a quella del maestro, tra Costa d’Avorio, Ghana e Burkina Faso (allora Alto Volta). A partire dalla seconda meta’ degli anni ’50, Goody si dedica allo studio delle culture di questa regione, in particolare lavora presso i Lodagaa, i Lowiili e i Gonja, pubblicando numerosi saggi. Dal 1973 al 1985 e’ professore emerito in antropologia sociale all’Universita’ di Cambridge, in questi anni i suoi interessi si ampliano notevolmente, dalla famiglia, alla memoria, alla tradizione scritta e a quella orale, esaminando fenomeni e dinamiche assai diversi tra loro. Attualmente professore emerito nonche’ membro del St. John College di Cambridge, nel 2005 e’ stato insignito del titolo nobiliare di baronetto.

L’antropologia britannica si e’ sviluppata nella prima meta’ del ’900 grazie alla compresenza di tre fattori decisivi: l’arrivo di Radcliffe-Brown ad Oxford, l’esigenza di raccogliere dati etnografici attraverso la metodologia malinowskiana e la presenza di un gruppo di giovani studenti, brillanti e capaci, tra cui si ricordano in particolare Edward E. Evans-Pritchard e Meyer Fortes. Le tesi dello struttural-funzionalismo si pongono in contrasto rispetto a quelle sostenute dall’evoluzionismo, cercando di dimostrare la razionalita’ del sistema di pensiero "tribale": innanzitutto il concetto di struttura sociale, intesa come trama complessa delle relazioni tra gli individui appartenenti ad una medesima comunita’ culturale, divenne il punto di riferimento della Social Anthropology per individuare le funzioni dell’agire sociale, indi dell’organizzazione che gli individui danno alla societa’ stessa. Appare piuttosto evidente l’influenza del pensiero di Emile Durkheim che permette di fare una distinzione netta tra lo struttural-funzionalismo di Radcliffe-Brown e il funzionalismo economico di Malinowski. Nel primo caso, l’interesse era rivolto al valore epistemologico della funzione sociale e il contributo piu’ importante fu senz’altro quello agli studi di parentela, anche se non mancarono affatto riferimenti ad altre sfere culturali, come la religione e i sistemi politici.

Le attivita’ dell’International African Institute di Londra, del Rhodes-Livingstone Institute e dell’East African Institute of Social Research in Uganda promossero le ricerche antropologiche di importanti esponenti della storia della disciplina nell’ambito dell’africanistica (Audrey Richards, Meyer Fortes, Daryll Forde, Max Gluckman, Victor Turner, i coniugi Wilson) sotto la guida di Radcliffe-Brown ed Evans-Pritchard: quest’ultimo pubblico’ nel ’40 insieme a Fortes un volume pionieristico fondamentale per lo studio delle culture africane. Entrambi si occupavano della strutturazione politica su larga scala delle societa’ a potere diffuso e Fortes in particolare sottolineo’ come la parentela costituisse una rete di rapporti e di tensioni che si amplificano nella dinamica sociale. Le alleanze tra gruppi, i rapporti di parentela e di discendenza e il sistema di classificazione dei ruoli sociali vengono concepiti come ambiti interdipendenti in cui grande importanza riveste il fattore tempo. Quest’aspetto sara’ notevolmente preso in esame e ampliato da Jack Goody che avvalora la tesi di Fortes, dimostrando il ciclo di espansione e contrazione della forza lavoro disponibile in ambito domestico.

Gli studi sulla parentela e sulla famiglia vengono affiancati a quelli sulla scrittura, sull’oralita’ e sul linguaggio in una prospettiva comparativa via via sempre piu’ allargata, finalizzata alla individuazione delle variabili correlate ai diversi sistemi parentali e culturali delle societa’. Negli anni ’60, dapprima in Francia, l’interesse si sposta verso i sistemi religiosi e cosmogonici, sulla scorta degli studi e delle esperienze sul campo di Marcel Griaule e Claude Levi-Strauss; attraversata la Manica, un rinnovato slancio pervade anche le accademie inglesi, in particolare, con la pubblicazione del volume curato da Fortes e Germaine Dieterlen che determina una sorta di crisi del paradigma, nascono nuovi e differenti approcci che vengono discussi tra gli antropologi dell’ultima generazione, ponendo spesso l’attenzione sulla teoria dell’ordine simbolico nascosto e codificato: Goody, in prima linea, definisce il principio dell’ordine simbolico come un’invenzione a posteriori della stessa letteratura etnografica e tra le voci autorevoli del periodo emerge anche quella di un’altra antropologa britannica, allieva di Evans-Pritchard, Mary Douglas, che nel suo primo lavoro teorico esprime la tesi di fondo per cui queste definizioni simboliche, nella loro diversita’ formale e intrinseca, sono necessarie alle strutture sociali esistenti praticamente in ogni tipo di societa’. Il parallelo e’ costituito dalle prescrizioni adottate dalla popolazione dei Lele e i divieti alimentari dell’Antico Testamento: in entrambi i casi non si tratta semplicemente di igiene ma ad un livello piu’ profondo l’istituzione che definisce cio’ che si puo’ accettare e cio’ che e’ inaccettabile rimanda ad un senso morale collettivo che si traduce attraverso un sistema simbolico in ordine sociale.

La vivacita’ delle nuove metodologie di ricerca elaborate dalla scuola di Manchester e dall’antropologia statunitense, nonche’ le nuove specializzazioni della disciplina, come la nascita dell’antropologia visuale dalle esperienze di Jean Rouch e Maya Deren, e i contributi importanti degli studiosi americani fanno pertanto da background alla ricerca teorica e sperimentale di Jack Goody.

Dopo essersi a lungo dedicato alla ricerca etnografica e all’analisi comparativa, la prospettiva dello studioso diventa talmente ampia da abbracciare moltissimi ambiti culturali disparati, dall’Africa all’Eurasia, proponendo argomenti quanto mai variegati e urgenti per la situazione storica mondiale: il suo lavoro sulla scrittura assegna un ruolo specifico alla comunicazione scritta e alle sue rappresentazioni, in quanto strumento precipuo delle istituzioni culturali, sociali e politiche, praticamente in qualunque tipo di societa’ umana. Goody definisce la scrittura come "tecnologia dell’intelletto", invenzione che permette la transizione dalla forma orale, pre-letteraria a quella della modernita’. La ricchezza simbolica della cultura scritta e’ data dalle possibili applicazioni grafiche o alfabetiche, nonche’ dall’uso rappresentativo dell’immagine, del simbolo e dell’icona.

Dal concetto di scrittura come tecnologia e dalle differenti forme di sviluppo dei segni aritmetici e logici, l’antropologo riflette sui comportamenti sociali, dimostrando l’influenza dei sistemi di pensiero nella vita quotidiana. Nel caso della scrittura logografica, lo spazio e la funzione dei simboli acquistano una portata notevolmente differente rispetto alla scrittura alfanumerica. Nel caso di societa’ prive di scrittura, dell’antichita’ o della modernita’, le cose cambiano ancora anche se, sottolinea Goody, bisogna probabilmente distinguere le forme di scrittura in senso stretto dalla diffusione dell’idea di scrittura, dunque di uno stimolo al processo di conservazione e di memoria. Le abilita’ psicogenetiche di base degli individui sono pressoche’ le stesse: l’esempio significativo e’ quello dell’automobile, che in teoria chiunque puo’ imparare a guidare, indipendentemente dalla sua provenienza culturale, sociale o religiosa ma che certamente ha funzioni pratiche e valori simbolici differenti a seconda del contesto di riferimento.

La dicotomia Oriente/Occidente, nonche’ lo scontro dato per inevitabile tra Islam ed Europa sono al centro della ricerca antropologica di Goody sin dai primi anni ’90: in particolare, l’antropologo analizza come il pensiero storico e sociologico, ma spesso anche quello antropologico, abbiano attribuito all’Occidente un ruolo di primo piano nel processo di modernizzazione messo in atto dalle rivoluzioni scientifiche, economiche e culturali.

Acutamente, l’autore nota come sicuramente le cose non siano sempre state a favore dell’Europa, pur ammettendo che, a partire dalla seconda meta’ del XVIII secolo, le regioni nordiche del vecchio continente abbiano effettivamente vissuto una serie di circostanze favorevoli che ne hanno incrementato l’attivita’ e il benessere. L’argomentazione di fondo e’ la creazione, ad opera di studiosi ed intellettuali, di un contrasto - uno scontro, per dirla alla Huntington - che si e’ fortemente acutizzato dopo il 1989 tra l’Occidente dell’individualismo e l’Oriente della collettivizzazione: la radicalizzazione di questo rapporto non ha consentito ne’ di comprendere le dinamiche e gli sviluppi storici delle societa’ orientali ne’ tantomeno di approfondire le conoscenze relative al nostro passato e alla nostra contemporaneita’.

Gli studi sulla parentela hanno trascurato, secondo l’antropologo, il ruolo che essa ha giocato nello sviluppo del sistema di produzione e di scambio dei beni, primitivizzando l’Oriente e valorizzando il mondo occidentale; inoltre, secondo Goody, non si stanno sufficientemente considerando i rapporti esistenti tra individuo e Stato, nonche’ il ruolo sempre centrale assicurato dalla famiglia e dai rapporti di familiarita’ estesa. Il riferimento alla realta’ sociale italiana pare piu’ che mai convincente ed appropriato. Recentemente, Goody ha ampliato questa prospettiva di studio, dedicando un importante saggio allo studio della rappresentazione e della sua assenza intermittente presso alcune societa’. Si tratta di uno dei piu’ importanti studi sull’ambivalenza culturale, ideologica e religiosa degli ultimi anni.

L’attenzione di Goody si sofferma in particolare sulle rappresentazioni e contraddizioni ad esse associate, sull’uso e sull’abuso di icone e sui conseguenti fenomeni iconoclastici, sulla pratica di conservazione e di culto delle reliquie e sul fenomeno del pellegrinaggio, sul teatro e sui riti nonche’ sulla diffusione e distribuzione irregolare del mito, della fiction, del romanzo; infine si prendono in esame le rappresentazioni del sesso e il loro rifiuto in una prospettiva comparata che pone sullo stesso piano speculativo culture dell’India, dell’Europa, della Cina e dell’Africa.

La rappresentazione - intesa etimologicamente, come ri-presentazione - e’ una delle componenti fondamentali della cultura e della societa’ umana: si tratta di un elemento fondamentale, tanto da essere considerato primariamente per quanto concerne gli studi socio-antropologici, sin dai tempi di Durkheim.

L’interesse di Goody si sviluppa attraverso due aspetti che secondo l’antropologo presentano praticamente in tutte le societa’ una forte interconnessione: da un lato la distribuzione irregolare che le rappresentazioni hanno nelle societa’ del mondo, il fatto che compaiano con tempi e caratteristiche diverse e pertanto, in determinati casi, siano addirittura assenti; dall’altro, Goody mette in luce le dinamiche entro cui avviene il rifiuto di una pratica rappresentativa (sia essa un’immagine, una fiction o una piece teatrale). Il precedente studio sui fiori e sulla cultura relativa ad essi che si e’ particolarmente sviluppata in certi contesti storici e culturali, evidenziava l’assenza di fiori domestici e coltivati in Africa nera, a causa delle condizioni ambientali e dello sviluppo dell’agricoltura: secondo lo studioso, pero’, non ci si era ancora posti il problema del perche’, in certi contesti, le rappresentazioni floreali siano state ripudiate volontariamente.

La sola spiegazione materiale non e’ sufficiente a motivare quest’assenza nel continente africano, laddove anche in altri contesti che presentano caratteristiche ambientali ed economiche simili, la decorazione floreale si e’ sviluppata comunque attraverso l’uso di rappresentazioni piuttosto che di fiori artificiali. Allo stesso modo, fiction, teatro, romanzo e icona hanno oscillato nello spazio e nel tempo, vivendo momenti di grande diffusione ed altri di totale censura che mostrano implicazioni cognitive e culturali assai complesse e poco studiate.

Il problema della rappresentazione sta proprio nella sua essenza intrinseca di ri-presentazione di qualcos’altro, dunque per quanto simile, essa non sara’ mai uguale all’originale; la mimesis era finta ed ingannevole per Platone, in quanto non e’ la cosa in se’, ma un suo surrogato. Di conseguenza, l’umanita’ si ritrova sempre dubbiosa nell’accogliere o respingere cio’ che essa stessa ha creato. Se da un lato la rappresentazione svolge un ruolo primario nelle societa’ umane, com’e’ evidente, ad esempio, nel caso del linguaggio e della tradizione scritta, dall’altro e’ sempre in una condizione di labilita’, di instabilita’ che puo’ manifestarsi sotto forma di assenza o, nei casi piu’ estremi, come vera e propria iconoclastia.

Il problema si pone ancor piu’ nel caso delle rappresentazioni rituali e teatrali: questo genere di performance presenta piu’ che mai il carattere di ambivalenza e di ambiguita’. Cio’ che viene messo in scena ha una portata talmente vasta sugli individui che ne condividono i codici da diventare pericolosa e in alcune circostanze, estremamente controversa. La contraddizione cognitiva intrinseca alla rappresentazione puo’ essere accostata al concetto di "dissonanza cognitiva" elaborato in psicologia: essa si produce nel momento in cui un’aspettativa non trova riscontro nella realta’, nonostante si siano messi in atto diversi procedimenti a tal fine.

Analizzando le fasi e gli elementi principali del processo di creazione cognitiva dell’essere umano, Goody afferma che si tratta di unfenomenointerattivotalmentecomplessoche non porta solo all’invenzione eall’istituzione delle tradizioni ma contiene in se’ il dubbio, l’ambivalenza, la contraddizione che puo’ determinare in seguito non solo il rifiuto ma addirittura l’adozione di forme totalmente opposte.

Tra le opere di Jack Goody: (1958) The Developmental Cycle in Domestic Groups, Cambridge U. P., Cambridge; (1962) Death, Property and the Ancestors. A study of the mortuary customs of the LoDagaa of West Africa, Sup California, Stanford; (1967) The Social Organisation of the LoWiili, Oxford U. P., Londra; (1971) Technology, Tradition and the State in Africa, Oxford U. P., Londra; (1972) The Myth of Bagre, Oxford U. P., Londra; (con Tambiah, S. J.), (1973) Bridewealth and Dowry, Cambridge U. P., Cambridge; (1976) Production and Reproduction: a Comparative Study of the Domestic Domain, Cambridge U. P., Cambridge; (1977) The Domestication of the Savage Mind, Cambridge U. P., Cambridge; (1986) The Logic of Writing and the Organisation of Society, Cambridge U.P., Cambridge; (1987) The Interface between the Written and the Oral, Cambridge U. P., Cambridge; (1990) The Oriental, the Ancient and the Primitive, Cambridge U.P., Cambridge; (1993) La cultura dei fiori. Le tradizioni, i linguaggi, i significati dall’Estremo Oriente al mondo occidentale, Einaudi, Torino 1993; (1996) The East in the West, Cambridge U. P., Cambridge; (1997) Oltre i muri. La mia prigionia in Italia, Il Mondo 3, Roma 1997; (1997) L’ambivalenza della rappresentazione. Cultura, ideologia, religione, Feltrinelli, Milano 2000; (con Braimah) (1967) Salaga: the Struggle of Power, Oxford U. P., Londra; (con Wilks I.) (1968) "Writing in Gonja" in Literacy in Traditional Society, (Goody, J. ed.), Cambridge"]


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