L’Alto commissario Onu per i diritti umani: "No al reato di immigrazione illegale"
La delegazione italiana esprime "stupore": provvedimento non ancora adottato
Clandestini, l’Onu condanna l’Italia
Dal Vaticano nuovo stop al governo
Il segretario del Pontificio consiglio per i migranti interviene sulla questione sicurezza
CITTA’ DEL VATICANO - Una ferma condanna dell’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani Louise Arbour e un nuovo stop da parte del Vaticano per la politica del governo italiano nei confronti degli immigrati clandestini. Arbour ha stigmatizzato la "recente decisione di rendere reato l’immigrazione illegale" e i recenti attacchi contro i rom. Il Segretario del Pontificio consiglio per i migranti, monsignor Agostino Marchetto, ha riaffermato che "i cittadini di Paesi terzi, come i cittadini comunitari, non dovrebbero essere privati della libertà personale o soggetti a pena detentiva a causa di un’infrazione amministrativa".
La critica dell’Onu. In un discorso tenuto al Consiglio dei diritti umani a Ginevra, Arbour ha rinnovato l’allarme per l’aggravamento di problemi quali l’intolleranza e la xenofobia. In Europa, ha ricordato, si assiste a una radicalizzazione delle politiche di controllo dell’immigrazione. In questo contesto sono particolarmente preoccupanti le misure adottate dall’Italia e gli attacchi contro i romeni.
"In Europa sono fattore di enorme preoccupazione le politiche repressive, così come gli atteggiamenti xenofobi e intolleranti, nei confronti dell’immigrazione clandestina e delle minoranze neglette - ha detto Arbour nel suo intervento, riportato dal sito dell’Acnur - Esempio di queste politiche e di questi atteggiamenti sono la recente decisione del governo italiano di rendere reato l’immigrazione clandestina e i recenti attacchi contro campi rom a Napoli e Milano".
La reazione italiana. La delegazione italiana ha immediatamente preso la parola per esprimere "stupore" per il riferimento alla situazione in Italia. Il nostro Paese è da sempre in prima linea nella battaglia contro il razzismo, la xenofobia e l’intolleranza, ha affermato l’ambasciatore Giovanni Caracciolo di Vietri.
La rappresentanza ha inoltre precisato che l’Italia non ha ancora introdotto il reato di immigrazione clandestina, reato che peraltro già hanno molti altri Paesi europei e non-europei, e che il relativo progetto di legge deve essere ancora esaminato dal Parlamento. L’obiettivo della norma sarebbe in ogni caso quello di contrastare il fenomeno dell’ immigrazione clandestina e non avrebbe alcun legame con atteggiamenti xenofobi.
Riguardo agli attacchi contro i campi rom, la delegazione italiana ha sottolineato che tutte le autorità e i partiti hanno condannato tali fatti e che i responsabili saranno perseguiti secondo la legge.
La posizione della Chiesa. Il Vaticano stamattina è tornato a intervenire sul dibattito in corso in Italia sul tema dell’immigrazione clandestina, dopo le parole del cardinal Bagnasco, presidente della Cei, contro la permanenza prolungata nei cpt prevista dal pacchetto sicurezza del governo.
Il prelato, che si trova a Nairobi per il congresso panafricano dei delegati delle Commissioni episcopali per le migrazioni, ha risposto a una domanda relativa alla questione immigrazione ai microfoni della Radio Vaticana. E ha aggiunto: "Mi ritrovo personalmente nell’ opinione espressa dalla minoranza a Bruxelles". E cioè che gli stranieri, come i cittadini dei Paesi Ue, non debbano essere arrestati per aver infranto una legge amministrativa.
Il prelato ha aggiunto: "Ho appena studiato il Progetto di Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio recante norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di Paesi terzi soggiornanti illegalmente attualmente in fase di elaborazione". Monsignor Marchetto ha poi detto che la Chiesa deve insistere sulla "linea dell’accoglienza".
* la Repubblica, 2 giugno 2008.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Quel censimento etnico di settanta anni fa
di Gad Lerner (la Repubblica, 5 luglio 2008)
Cominciò con un inaspettato censimento etnico, nel mezzo dell’estate di settant’anni fa, la vergognosa storia delle leggi razziali italiane. Alle prefetture fu diramata una circolare, in data 11 agosto 1938, disponendo una «esatta rilevazione degli ebrei residenti nelle provincie del regno», da compiersi «con celerità, precisione e massimo riserbo». La schedatura fu completata in una decina di giorni.
Furono 47.825 gli ebrei censiti sul territorio del regno, di cui 8.713 stranieri (nei confronti dei quali fu immediatamente decretata l’espulsione). Per la verità si trattava di cifre già note al Viminale. «Il censimento quindi fu destinato più a sottomettere che a conoscere, più a dimostrare che a valutare», scrive la storica francese Marie-Anne Matard-Bonucci ne L’Italia fascista e la persecuzione degli ebrei (il Mulino). Naturalmente, di fronte alle proteste dei malcapitati cittadini fatti oggetto di quella schedature etnica fu risposto che essa non aveva carattere persecutorio, anzi, sarebbe servita a proteggerli.
Nelle diversissime condizioni storiche, politiche e sociali di oggi, torna questo argomento beffardo e peloso: la rilevazione delle impronte ai bambini rom? Ma è una misura disposta nel loro interesse, contro la piaga dello sfruttamento minorile!
Si tratta di un artifizio retorico adoperato più volte nella storia da parte dei fautori di misure discriminatorie: «Lo facciamo per il loro bene». A sostenere la raccolta delle impronte sono gli stessi che inneggiano allo sgombero delle baracche anche là dove si lasciano in mezzo alla strada donne incinte e bambini. Ma che importa, se il popolo è con noi? Lo so che proporre un’analogia fra l’Italia 1938 e l’Italia 2008 non solo è arduo, ma stride con la sensibilità dei più. L’esperienza sollecita a distinguere fra l’innocenza degli ebrei e la colpevolezza dei rom. La percentuale di devianza riscontrabile fra gli zingari non è paragonabile allo stile di vita dei cittadini israeliti, settant’anni fa.
Eppure dovrebbero suonare familiari alle nostre orecchie contemporanee certi argomenti escogitati allora dalla propaganda razzista, circa le "tendenze del carattere ebraico". Li elenco così come riportati nel libro già citato: nomadismo e «repulsione congenita dell’idea di Stato»; assenza di scrupoli e avidità; intellettualismo esasperato; grande capacità ad adattarsi per mimetismo; sensualismo e immoralità; concezione tragica della vita e quindi aspirazioni rivoluzionarie, diffidenza, vittimismo, spirito polemico e così via.
Guarda caso, per primo veniva sempre il nomadismo. Seguito da quella che Gianfranco Fini, in un impeto lombrosiano, ha stigmatizzato come «non integrabilità» di «certe etnie»; propense - per natura? per cultura? per commercio? - al ratto dei bambini. Il che ci impone di ricordare per l’ennesima volta che negli ultimi vent’anni non è stato mai dimostrato il sequestro di un bambino ad opera degli zingari.
Un’opinione pubblica aizzata a temere i rom più della camorra, si trova così desensibilizzata di fronte al sopruso e all’ingiustizia quando essi si abbattono su una minoranza in cui si registrano percentuali di devianza superiori alla media. Tale è l’abitudine a considerare gli zingari nel loro insieme come popolo criminale, da giustificare ben più che la nomina di "Commissari per l’emergenza nomadi", incaricati del nuovo censimento etnico. Un giornalista come Magdi Allam è giunto a mostrare stupore per la facilità con cui si è concesso il passaporto italiano a settantamila rom. Ignorando forse che si tratta di comunità residenti nella penisola da oltre cinquecento anni: troppo pochi per concedere loro la cittadinanza? Eppure sono cristiani come lui...
Il censimento etnico del 1938, «destinato più a sottomettere che a conoscere, più a dimostrare che a valutare», come ci ricorda Marie-Anne Matard-Bonucci, in ciò non è molto dissimile dal censimento dei non meglio precisati "campi nomadi" del 2008. In conversazioni private lo confidano gli stessi funzionari prefettizi incaricati di eseguirlo: quasi dappertutto le schedature necessarie erano già state effettuate da tempo.
L’iniziativa in corso riveste dunque un carattere dimostrativo. E i responsabili delle forze dell’ordine procedono senza fretta, disobbedendo il più possibile alla richiesta di prendere le impronte digitali anche ai minori non punibili, nella speranza di dilazionare così le misure che in teoria dovrebbero immediatamente conseguirne: evacuazione totale dei campi abusivi e di quelli autorizzati ma fuori norma; espulsione immediata dei nomadi extracomunitari e, dopo un soggiorno di tre mesi, anche dei nomadi comunitari. Si tratta di promesse elettorali che per essere rispettate implicherebbero un salto di qualità organizzativo e politico difficilmente sostenibile. Dove mandare gli abitanti delle baraccopoli italiane - pochissime delle quali "in regola" - se venissero davvero smantellate tutte in pochi mesi? Chi lo predica può anche ipocritamente menare scandalo per il fatto che tanta povera gente, non tutti rom, non tutti stranieri, vivano fra i topi e l’immondizia. Ma sa benissimo di alludere a una "eliminazione del problema" che in altri tempi storici è sfociata nella deportazione e nello sterminio.
Un’insinuazione offensiva, la mia? Lo riconosco. Nessun leader politico italiano si dice favorevole alla "soluzione finale". Ma la deroga governativa al principio universalistico dei diritti di cittadinanza, sostenuta da giornali che esibiscono un linguaggio degno de "La Difesa della razza", aprono un varco all’inciviltà futura.
Negli anni scorsi fu purtroppo facile preconizzare la deriva razzista in atto. Per questo sarebbe miope illudersi di posticipare la denuncia, magari nell’attesa che si plachi l’allarmismo e venga ridimensionata la piaga della microcriminalità. Gli operatori sociali ci spiegano che sarebbe sbagliato manifestare indulgenza nei confronti dell’illegalità e dei comportamenti brutali contro le donne e i bambini, diffusi nelle comunità rom. Ma altrettanto pericoloso sarebbe manifestare indulgenza riguardo alla codificazione di norme palesemente discriminatorie, che incoraggiano l’odio e la guerra fra poveri.
Non si può sommare abuso ad abuso di fronte ai maltrattamenti subiti dai bambini rom. Quando i figli degli italiani poveri venivano venduti per fare i mendicanti nelle strade di Londra, l’esule Giuseppe Mazzini si dedicò alla loro istruzione, non a raccogliere le loro impronte digitali. L’ipocrisia di schedarli "per il loro bene" serve solo a rivendicare come prassi sistematica, e non eccezionale, la revoca della patria potestà. Dopo le impronte, è la prossima tappa simbolica della "linea dura". Siccome i rom non sono come noi, l’unico modo di salvare i loro figli è portarglieli via: così si ragiona nel paese che liquida l’"integrazione" come utopia buonista.
A proposito del sempre più diffuso impiego dispregiativo della parola "buonismo", vale infine la pena di evocare un’altra reminescenza dell’estate 1938. Chi ebbe il coraggio di criticare le leggi razziali fu allora tacciato di "pietismo". Con questa accusa furono espulsi circa mille tesserati dal Partito nazionale fascista. E allora viva il buonismo, viva il pietismo.
LE IMPRONTE AI ROM
Il valzer della paura
di BARBARA SPINELLI (La Stampa, 6/7/2008
Anche se il silenzio è vasto, sulle misure di sicurezza adottate in fretta da Berlusconi, c’è stato chi ha provato sgomento grande, apprendendo che il ministro dell’Interno Maroni aveva messo all’ordine del giorno, come provvedimento risolutivo, le impronte digitali imposte ai bambini Rom: hanno protestato insegnanti impegnati in difficili tentativi di inserzione, e pensatori, storici, politici d’opposizione. Ma le parole più nette, più indipendenti, meno nebbiose son venute dall’interno della Chiesa. Aveva cominciato l’arcivescovo di Milano Tettamanzi, denunciando gli sgomberi dei campi Rom in aprile («Si è scesi sotto il rispetto dei diritti umani»). Poi hanno parlato sacerdoti, vescovi, la Fondazione Migrantes. Infine è giunto l’editoriale di Famiglia Cristiana: un periodico che vende più copie di tutti i giornali (3 milioni di lettori) ed è presente in ogni chiesa.
L’editoriale del direttore, Antonio Sciortino, non usa eufemismi. Parla di «misure indecenti», di un governo per cui «la dignità dell’uomo vale zero». Enumera verità giuridiche elementari: l’accattonaggio non è reato, la patria potestà tolta quando i genitori Rom sono poveri o in condizioni difficili viola la Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia, firmata dall’Italia. Ma soprattutto, ricorda il male scuro dell’Italia, tra i più scuri in Europa. L’Italia porta nel proprio bagaglio il fascismo con le leggi razziali e tuttavia questa «tragica responsabilità» finge di non averla: «Non ce ne siamo vergognati abbastanza». Anche questo crea sgomento: questo passato che non solo non passa, ma sembra dissolto in un acido, come se le revisioni di Fini a Fiuggi non si fossero limitate ad affrancare Alleanza nazionale ma fossero andate oltre, consegnando al nulla tutto un brano di storia nazionale. Il periodico obbedisce al motto del fondatore, Giacomo Alberione: «Famiglia Cristiana non dovrà parlare di religione cristiana, ma di tutto cristianamente».
Tuttavia l’ossessione dello straniero sospetto sin dalla nascita non è solo italiana. In questi giorni si discute di schedatura dell’infanzia in Francia («progetto Edvige»), anche se l’elaborazione di identikit - il profiling - non riguarda le etnie. Ma anche qui si pensa agli stranieri, e il significato è lo stesso: si predispongono liste di sospetti, in nome di uno stato d’emergenza infinita. Il modello d’integrazione del dopoguerra, chiamato in Francia protezionista, viene sostituito da un modello repressivo, dal populismo penale, da un inarrestabile proliferare di reati, dal profiling del diverso. Muta il mondo che abitiamo sempre meno generosamente, meno umanamente: una sorta di catastrofismo antropologico s’insedia negli spiriti e nei governi, che giudica l’uomo malvagio, incendiario. Che abolisce la fiducia: quest’apertura all’altro che scommette sul mutare della persona e non sugli immoti dati del suo corpo e della sua genetica.
Questa politica della sfiducia è iniziata prima dell’11 settembre, ma dopo il 2001 ha impastato sicurezza interna e antiterrorismo, importando dalla guerra le parole, le pratiche, le norme d’eccezione. Un libro uscito quest’anno in Francia, a cura di Laurent Mucchielli, descrive la frenesia della sicurezza impadronitasi dei governanti come dei giornali e spiega bene, in un saggio di Mathieu Rigouste, la militarizzazione delle menti. Anche qui riaffiorano automatismi, si son disperse vergogne o memorie. Rigouste, in un libro d’imminente uscita (L’ennemi intérieur, La Découverte) ricorda che linguaggio e azioni sono radicati nelle repressioni coloniali. Si parla di «contro-insurrezione», di «zone grigie dove s’annidano minacce di guerriglia», di «guerre di bassa intensità permanente» nelle banlieue. Ci sono consiglieri governativi (il colonnello de Richoufftz, il generale Henry Paris) che si fanno forti delle esperienze in Bosnia, Kosovo, perfino in Algeria.
A forza d’impastare il civile e il militare sono tanti i confini che sbiadiscono: tra ordine e emergenza, pace e guerra, e anche tra l’età maggiorenne (in cui diveniamo imputabili, incarcerabili) e quella minorenne, da tutelare e correggere con l’integrazione. Il bambino e l’adolescente diventano incubo, primo anello di catene devianti. Il XX secolo fu marchiato dalla foto del bambino con le braccia alzate, nel ghetto di Varsavia sopraffatto. Quell’immagine rivive: a Guantanamo, in Palestina, in Europa stessa. Chi ha contemplato il tremendo nel prodigioso film di Ari Folman (Waltz With Bachir), ricorderà la scena in cui l’autore, ebreo israeliano, racconta i palestinesi massacrati a Sabra e Chatila e vacilla perché quel che ha visto e quel di cui s’è reso complice gli fa venire in mente il bambino di Varsavia.
Chi difende le leggi Berlusconi difende cause apparentemente buone, e accusa i cristiani dissidenti di cecità: «Voi non andate nelle terre di desolazione e ignorate l’angoscia di tanti italiani», lamentano. Dicono che la legge è fatta per dare ai bambini un’identità che non hanno, per verificare se vanno a scuola, hanno case decenti, son sfruttati. Ma i bambini sfruttati e non scolarizzati in Italia sono ben più numerosi dei Rom, e questo conferma la discriminazione negativa di un’etnia (sono selettivi anche alcuni termini: commissario per la questione Rom, emergenza-Rom). Conferma una visione del male che non insorge perché società e istituzioni barcollano, o l’integrazione fallisce. Il male comincia nel genetico, nel corpo del bambino. Tanto più se diverso: Rom, musulmano, povero.
Sono anni che la delinquenza minorenne ossessiona, e un primo bilancio può esser fatto delle risposte date fin qui in Europa. I più repressivi sono stati i governi inglesi, poi il francese e l’italiano; mentre a Nord è sopravvissuto il modello integrativo. I risultati non confortano i fautori di ghetti. Con le repressioni inglesi, la delinquenza minorile è spettacolarmente aumentata: la sua parte nel crimine globale raggiunge percentuali senza eguali in Europa (20 per cento). Mentre in Norvegia, dove son preservate istituzioni solidali, i minorenni sono meno del 5 per cento della criminalità globale. Molte misure tecnologiche presentate come miracoli sono inefficaci. E in nome delle vittime o delle paure singole, è l’idea di una società coesa che si sfalda, è la sfiducia nelle istituzioni collettive che si attizza. Le impronte digitali, infine, accendono risentimento. Pierre Piazza, autore in Francia di una storia della carta d’identità, evoca afghani in cerca d’asilo che si son bruciati le dita, per protestare contro la schedatura.
I tempi d’azione affrettati e concitati, il rifiuto dei vecchi modi - più lenti - di curare le radici del male anziché estirparle: tutto questo mostra che insicurezza e paura sono spesso considerate una soluzione, più che un problema. Son usate e alimentate come uno strumento utile al potere. Sono la fuga nella politica delle emozioni, dell’annuncio declamatorio, del culto totemico di cifre continuamente contraffatte. A partire dal momento in cui, se un bambino ruba una bici, conta più la bici che la storia del bambino, il salto qualitativo è fatto: il salto nei nuovi reati (di accattonaggio o clandestinità); il salto nel sequestro del corpo, tramite biometria. L’habeas corpus, che è la facoltà di disporre del proprio corpo senza che esso sia manomesso o derubato, si perde.
I cittadini alle prese con lo spavento sono comprensibili. Ma la civiltà ha sue ragioni, che l’individuo impaurito non conosce o sottovaluta. Sono ragioni che riguardano anche lui. Il pastore Martin Niemoeller lo rammenta, in una poesia scritta a Sachsenhausen e Dachau, oggi esposta in un manifesto nelle vie di Roma. All’inizio deportano gli zingari, e tu taci. Poi gli ebrei, i sindacalisti, e sempre taci. Alla fine vengono per prender te. Non c’è più nessuno per protestare.
SICUREZZA E IMMIGRAZIONE - ANCORA POLEMICHE
"No al reato di clandestinità"
Le Nazioni Unite criticano l’Italia
Alto commissario per i diritti umani:
«Basta con atteggiamenti xenofobi»
GINEVRA. L’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani Louise Arbour ha stigmatizato oggi la «recente decisione del governo italiano di rendere reato l’immigrazione illegale» ed i recenti attacchi contro i Rom.
La Arbour, intervenuta al Consiglio dell’Onu sui diritti umani riunito in sessione a Ginevra, ha affermato che «in Europa, le politiche repressive, così come gli atteggiamenti xenofobi e intolleranti, contro l’immigrazione irregolare e minoranze indesiderate, sono una seria preoccupazione». «Esempi di queste politiche ed atteggiamenti sono rappresentati dalla recente decisione del governo italiano di rendere reato l’immigrazione illegale e dai recenti attacchi contro i campi rom a Napoli e Milano», ha affermato Arbour.
Parole che sono state accolte con «stupore» dal governo italiano che ha affidato a una nota della Farnesina la risposta. «Esprimere valutazioni premature su proposte che ancora il parlamento italiano non ha discusso - è la posizione del ministero degli Esteri - desta sorpresa, ma non condizionerà il dibattito politico nazionale, che sarà come sempre trasparente e aperto al contributo di maggioranza e opposizione». Anche il ministro leghista della Semplificazione Roberto Calderoli ha replicato all’Onu chiedendo perché non abbia sollevato questo problema in precedenza con gli altri paesi che hanno introdotto il reato di clandestinità. Il capo dello Stato Giorgio Napolitano ha invece preferito non commentare l’uno-due di critiche arrivate oggi da Vaticano e Onu, ma si è limitato a ricordare che il ddl «è davanti al Parlamento».
E di certo, quando il provvedimento arriverà all’esame dell’Aula, le polemiche non mancheranno. La maggioranza, Lega in testa, sembra pronta a difendere in Parlamento la norma. Ma dall’opposizione, con il capogruppo del Pd al Senato Anna Finocchiaro, arriva un invito a «rifettere sulle parole di Chiesa e Onu». Analogo consiglio arriva dal segretario dell’Udc Lorenzo Cesa mentre Massimo Donadi dell’Idv osserva che «un giro di vite in Italia sull’immigrazione clandestina è necessario e non più rinviabile» ma bisogna evitare il rischio di «norme demagogiche, roboanti, ma di fatto inapplicabili, come nel caso del reato di immigrazione clandestina».
* La Stampa, 3/6/2008 (7:13)
Italia, la vergogna del mondo Anche l’Onu ci accusa: xenofobi
Finocchiaro: «Il governo rifletta»
Ormai ne parlano tutti. L’Italia è sulla bocca di mezzo mondo da quando Berlusconi è tornato al potere. E non per i nostri meriti. Così dopo le critiche arrivate dalla Spagna, dopo il dibattito straordinario voluto dal Parlamento europeo, dopo il rapporto annuale di Amnesty International e perfino le critiche del Vaticano, ora tocca alle Nazioni Unite. L’Alto commissario Onu per i diritti umani Louise Arbour ha stigmatizato lunedì la «recente decisione del governo italiano di rendere reato l’immigrazione illegale» ed i recenti attacchi contro i Rom.
A Ginevra si sta infatti tenendo in queste ore un Consiglio delle Nazioni Unite proprio sul tema dei diritti umani. E quando ha preso la parola la commissaria Arbour non ha esitato a puntare il dito contro «le politiche repressive, così come gli atteggiamenti xenofobi e intolleranti, contro l’immigrazione irregolare e minoranze indesiderate». Per lei, e per tutto l’Onu, «sono una seria preoccupazione». Come esempio, la Arbour, purtroppo cita proprio il nostro Paese: «Esempi di queste politiche ed atteggiamenti - ha proseguito infatti - sono rappresentati dalla recente decisione del governo italiano di rendere reato l’immigrazione illegale e dai recenti attacchi contro i campi rom a Napoli e Milano».
Tra le altre “maglie nere” assegnate dalla commissaria Arbour ci sono il Sudafrica ed i recenti attacchi contro gli stranieri, la Somalia e la Birmania. Niente male come compagnia.
Immediata la replica del centrodestra. Per il ministro Calderoli «l’Onu e il suo commissario dovrebbero pensare non ai diritti di chi entra illecitamente in un paese, ma ai diritti dei cittadini di un paese, loro associato, dove questi diritti vengono regolarmente calpestati proprio da parte di chi entra illegalmente e che spesso proviene da paesi che delle Nazioni Unite se ne sono spesso fregati o le hanno dileggiate». Grida al complotto la deputata Pdl Isabella Bertolini: «È molto strano che tutti stiano, dalla mattina alla sera, a controllare cosa succede in Italia: c’è qualcuno - sostiene - che evidentemente soffia sul fuoco, con l’intento di screditare il nostro Paese. Quando finalmente gli italiani, a larga maggioranza, decidono democraticamente di dotarsi di un governo che agisce subito e non si perde in chiacchiere - aggiunge - si scatena la delegittimazione dall’estero».
Invita a riflettere, invece, la capogruppo del Pd al Senato Anna Finocchiaro: «È necessario fare attenzione a non oltrepassare i limiti di convivenza e di umanità e le parole della Chiesa e delle Nazioni Unite devono servire a tutti da monito. Del resto - aggiunge - già ieri erano venute in tal senso importanti parole da parte del capo dello Stato: è necessario affrontare il tema della sicurezza con serietà e civiltà. Noi pensiamo che il reato di immigrazione clandestina sia sbagliato, se la Chiesa e le Nazioni Unite pensano la stessa cosa, forse - conclude la capogruppo del Pd al Senato - è il caso che la maggioranza compia una riflessione profonda».
* l’Unità, Pubblicato il: 02.06.08, Modificato il: 02.06.08 alle ore 18.38
Il grande fratello e la fortezza assediata
di Zygmunt Bauman ( la Repubblica, 03 giugno, 2008)
Come osservava Pierre Bourdieu più di trent’anni fa (La distinzione), i rapporti sovraordinazione/ subordinazione e la riproduzione delle divisioni e delle gerarchie sociali oggigiorno tendono sempre più a fare assegnamento sulla seduzione piuttosto che sulla regolamentazione normativa, sulla produzione dei desideri più che sulla coercizione, sulle public relation piuttosto che sulla sorveglianza. Questa fiducia, possiamo aggiungere, aumenta di pari passo con il passaggio da una "società di produttori" a una "società di consumatori". Come tutti i modelli di ordinamento sociale, quello che sta venendo alla luce - non più costruito secondo il modello della "fabbrica fordista", ma secondo quello di un centro commerciale, e che viene fatto funzionare attraverso i meccanismi descritti da Bourdieu - identifica in modo differente i gruppi della società che sono inadatti all’inclusione. Invece delle "classi pericolose", ribelli o rivoluzionarie - che puntano a neutralizzare o ad assumere il controllo dei mezzi di coercizione e a ridefinire la normativa - sono i "consumatori imperfetti" - individui e categorie di individui insensibili alla seduzione e/o incapaci di agire in base ai loro desideri per scarsità o mancanza di risorse - a essere classificati come inadatti a essere inclusi nella società (questa classificazione è appropriatamente espressa attraverso la definizione di sottoclasse = al di sotto, e dunque al di fuori, dell’ordinamento di classe).
Nella loro forma originaria, ipotizzata da Jeremy Bentham e retrospettivamente indicata da Michel Foucault, i meccanismi panoptici di dominazione, miranti a immobilizzare il sorvegliato, a tenerlo al suo posto e dentro il regime comportamentale routinario, a impedirne la fuga o la deviazione, oggi si limitano e si concentrano esclusivamente sugli "inadatti" (leggi: coloro che sono insensibili ai dispositivi di controllo applicati alla maggioranza della popolazione). Destinati in passato a essere applicati universalmente (appropriati ed efficaci per i dipendenti delle fabbriche e degli uffici, per i soldati nelle caserme, gli scolari, i pazienti degli ospedali e delle cliniche per malattie mentali, i detenuti, gli indigenti negli ospizi), oggi questi meccanismi vengono utilizzati soprattutto nei luoghi di detenzione: in più, l’enfasi posta nella dichiarata finalità della sorveglianza si è spostata dalla imposizione di una particolare routine comportamentale alla prevenzione di fughe e danni.
Come suggeriva Thomas Mathiesen, nel caso della "maggioranza", l’applicazione della strategia della dominazione del "controllo-attraverso-la-sorveglianza" è passata dal "tutti guardano tutti", ai "pochi che guardano tutti", per giungere infine alla fase "tutti guardano alcuni". Mentre si è riposto il controllo sociale nella "scatola degli attrezzi", la coercizione esercitata attraverso la seduzione e le pubbliche relazioni (la sorveglianza popolare di divi e celebrità, di persone in vista trasformate in oggetti di ammirazione e di emulazione) ha sostituito il controllo generale da parte dei rappresentanti dell’autorità.
La tendenza individuata e descritta da Mathiesen è senz’altro importante, sebbene non sia l’unica e, probabilmente, nemmeno la principale deroga nella ininterrotta storia dell’impiego tradizionale della sorveglianza. Anche all’interno del "nocciolo duro" dell’ordine sociale rimane valido lo schema "pochi che guardano molti": semmai, ora esso diventa più onnipresente, più sofisticato e tecnologicamente meglio attrezzato che in passato, e ha fatto ulteriori progressi sulla strada che porta alla completa liberalizzazione e privatizzazione. Cosa ancora più importante, questo schema si è rivolto verso un obiettivo radicalmente differente. La sua funzione principale e generale è quella di mantenere fuori gli outsider, gli indesiderabili, piuttosto che tenere dentro (leggi: dentro l’area disciplinata normativamente e dentro la routine obbligatoria) gli insider (leggi: quelli già altrimenti, adeguatamente disciplinati).
Possiamo dire che "Big Brother" e i suoi rappresentanti e plenipotenziari, sempre più numerosi, sono stati reimpiegati per contribuire all’esclusione e impedire il "ritorno degli esclusi" di una moltitudine in rapida crescita di categorie: immigrati sgraditi, improbabili clienti di centri commerciali, mendicanti invadenti, ospiti non invitati di comunità residenziali con accesso controllato, abitanti di banlieue e di ghetti urbani nei centri cittadini, gente a cui le banche non concedono crediti, eccetera. In poche parole, la funzione del Secondo Big Brother è quella di mantenere a tenuta stagna la linea che separa gli inadatti dagli adatti: una metafora concretizzata recentemente attraverso gli addetti alla sicurezza aeroportuale, che confiscano le bottiglie d’acqua minerale. Il primo Big Brother manteneva gli occhi fissi sulle uscite: quelli dei suoi discendenti sono concentrati sulle entrate.
La sorveglianza destinata a mantenere le entrate inaccessibili è presentata, pubblicizzata e venduta all’opinione pubblica sotto l’etichetta della loro sicurezza. Il fatto che il concetto di "sicurezza" sia definito e si manifesti principalmente in compiti come l’esclusione di tutti quelli ritenuti "inadatti" (cioè, controproducenti o semplicemente indifferenti al funzionamento senza intoppi dei meccanismi di controllo sociale attualmente impiegati) difficilmente viene dichiarato in modo esplicito negli articoli pubblicitari. Ciò nonostante, la cosa è fin troppo evidente nella pratica ed è ben facile da dedurre. Gli oggetti di una sorveglianza onnipresente e invadente sono indotti ad accettare l’intimo collegamento tra esclusione e sicurezza e dunque ad accettare, tranquillamente e senza risentimenti, la strategia messa in atto (quindi la realtà di incursioni sempre più radicali nella nostra privacy); ad accettare di essere costantemente sotto sorveglianza; ad accettare i benefici effetti dell’esclusione, malgrado la sua bizzarria morale. Per ridurre ulteriormente la possibilità di risentimenti, le persone sono invitate a partecipare attivamente "al gioco": per esempio, votando per allontanare gli indesiderabili dallo show del Grande Fratello.
Una volta diventata principalmente un mezzo di esclusione, la sorveglianza assegna contemporaneamente ai membri della società il ruolo di colpevoli e di bersagli, di carnefici e di vittime. Trasforma le sue potenziali vittime o "perdite collaterali" in suoi complici attivi o passivi o in spettatori solidali. Paradossalmente, ma con ottimi risultati, ciò fa crescere gli "interessi acquisiti" delle potenziali vittime nella perpetuazione e nell’ulteriore inasprimento della strategia di dominio del "controllo-attraverso-la-minaccia-dell’esclusione".
L’onnipresenza dei dispositivi di sorveglianza, oggi, ha raggiunto la fase in cui essa è ormai auto-sostentata e auto fecondante. La quantità e dimensione, la visibilità e l’invadenza di tali dispositivi, bastano a creare e alimentare un’atmosfera da "fortezza assediata" e una forma mentis da emergenza permanente: che a sua volta alimenta e legittima la richiesta di un’ulteriore, accelerata diffusione di tali dispositivi e rafforza il favore popolare per le misure promesse per accogliere tali richieste. La sorveglianza, oggi, è un "setaccio" al servizio della propria perpetuazione: un setaccio che serve a isolare i bersagli appropriati della sorveglianza (gli indesiderabili) da quelli che potrebbero/dovrebbero essere lasciati fuori (perché hanno superato il test di non indesiderabilità). Gli esclusi, tuttavia, non sono stati addestrati all’arte della autodisciplina e sono disabituati a praticarla: perciò hanno bisogno di comprare la sorveglianza per riempire il vuoto lasciato dalla scomparsa della sorveglianza fornita dalla società. Da ciò deriva l’attuale "boom della consulenza", la domanda sempre crescente di "consulenti", dal vivo o telematici, ma, in entrambi i casi, altrettanto disorganizzata quanto coloro che li richiedono. Il sorprendente successo del sito Facebook trae vantaggio da questa tendenza.
Berlusconi fa marcia indietro: «Clandestinità non sia reato»
Lega all’attacco: così delude gli elettori
È arrivato il patatrac. Dopo giorni di polemiche sul reato di clandestinità che il governo ha inserito nel disegno di legge sull’immigrazione, e dopo le critiche fioccate da mezzo mondo, Berlusconi esce allo scoperto. Finora il premier si era guardato bene dall’esprimere valutazioni sul nuovo reato. Ma, fiutato il clima, forse ha capito che conveniva fare marcia indietro. E così, durante una conferenza stampa tenuta insieme al presidente francese Sarkozy, si è lasciato andare: «Personalmente penso che non si può perseguire qualcuno per la permanenza non regolare nel nostro paese condannandolo con una pena, ma questa può essere una aggravante se commette un reato».
Apriti cielo. La Lega non ci può credere. Il primo a non trattenere la sorpresa è l’europarlamentare Mario Borghezio: «Rinunciare all’impostazione data dal ministro Maroni e dall’intero governo, dietro ai tentativi di intimidazione che sono arrivati soprattutto dall’estero - ha detto - sarebbe un cedimento molto difficile da far comprendere ai nostri elettori. Il presidente del Consiglio - ha proseguito - che è una persona che conosce bene il mondo e l’Europa, dovrebbe maggiormente tenere in considerazione il fatto che paesi di sicura tradizione democratica e assolutamente non sospettabili di xenofobia e di razzismo, come ad esempio Francia e Gran Bretagna, se lo tengono ben saldo» il reato di clandestinità. Fa marcia indietro, si fa per dire, anche il ministro Calderoli che ora dice: «Francamente quando abbiamo pensato al reato di clandestinità il nostro obiettivo non è mai stato metterli in carcere ma cercare di risolvere meglio il problema, accelerando le espulsioni».
E ora che il capo ha spianato la strada, qualcun altro si affaccia timidamente allo scoperto. Come se finora avessero paura delle “belve” leghiste. Maurizio Lupi, vice presidente della Camera spiega che «la prima strada individuata dal governo era il reato, ma chi decide è il Parlamento e se Berlusconi indica questa altra strada, bene». Anche il sottosegretario al vicinale Alfredo Mantovano di An: «La circostanza che il Consiglio dei ministri abbia deciso di inserire l’ipotesi di reato di clandestinità nel disegno di legge e non nel decreto - ricorda - è segno che il governo intende affrontare la pienezza del dibattito parlamentare senza condizionarlo con disposizioni che abbiano un effetto immediato». Ci tiene invece a chiarire che non si tratta di «una marcia indietro» il ministro della Difesa La Russa: «Deciderà serenamente il Parlamento, io non mi scandalizzerei se si decidesse per l’aggravante, ma come raggiungere al meglio lo scopo che ci siamo prefissi lo decideranno le Camere».
Soddisfatto il segretario del Pd Walter Veltroni, secondo il quale «Berlusconi, con le sue parole di oggi, dà ragione a quanto ha detto l’opposizione, e alle altre voci critiche che si erano levate, e contemporaneamente dà torto a quanti nella sua maggioranza si erano intestarditi in questa formulazione».
* l’Unità, Pubblicato il: 03.06.08, Modificato il: 03.06.08 alle ore 18.44