La bomba alla Procura generale di Reggio e l’aggressione ai migranti nella Piana di Gioia Tauro potrebbero essere episodi collegati. La ’ndrangheta pensa a nuovi equilibri politici e alza il tiro. E il Copasir avvia le indagini
di Pietro Orsatti
In Calabria siamo in piena campagna elettorale. Si vota per un nuovo presidente della Regione e per rinnovare il Consiglio? No, non solo. Si vota soprattutto per accedere alla cassaforte dei finanziamenti europei gestiti dalla Regione che, se non si andrà a una nuova proroga, verranno interrotti nel 2011. Quindi non c’è da stupirsi, e non ci sarà da stupirsi nelle prossime settimane, di qualsiasi cosa accaduta fino a oggi e che accadrà. Troppi interessi, troppi cambiamenti, troppe bocche da sfamare. Si cercano e si elargiscono favori. Si comunica in vario modo. Soprattutto si cerca un equilibrio. E per cercare un equilibrio inequivoco bisogna far capire bene a chi interessa cosa e quanto. «La ’ndrangheta sceglie e cerca di andare là dove c’è odore di possibile vittoria - spiega Angela Napoli, deputata del Pdl, area finiana, da sempre critica quando si parla di intrecci fa mafie e politica e oggi membro di spicco della commissione Antimafia -. È già emerso dalle numerose inchieste giudiziarie che la ’ndrangheta in Calabria è presente un po’ ovunque, dalla pubblica amministrazione alle istituzioni, là dove si decide, là dove si gestiscono appalti e affari. È quindi chiaro che siccome ci lasciamo alle spalle un’amministrazione regionale inefficiente, e si presuppone che lo scontento dei cittadini sposti il consenso elettorale verso il Pdl, la ’ndrangheta sta facendo di tutto per spostare le proprie pedine». Se si analizzano i frammenti singoli di quello che sta avvenendo oggi in Calabria non si riuscirà mai a capire davvero quali interessi si siano messi in moto, non tanto nelle ultime settimane quanto negli ultimi tre mesi. Prendiamo ad esempio la grande manifestazione nazionale contro le navi dei veleni di alcuni mesi fa. Ci siamo dimenticati che è stata coinvolta anche la città di Rosarno? Si parlò, allora, di rinascita evidente di una società civile calabrese consapevole che si risvegliava e diventava protagonista del cambiamento. Due mesi dopo sempre a Rosarno parte di quella stessa cittadinanza che aveva sfilato per le strade della cittadina calabrese si è ritrovata a dare la “caccia al negro”. Possibile che nessuno evidenzi la contraddizione? Cosa è successo in due mesi soltanto? Nulla, probabilmente. E anche di tutto. «Intanto le ’ndrine sono riuscite a togliersi di mezzo lavoratori che anche grazie alla società civile locale cercavano di alzare la testa - spiega Francesco Forgione, ex presidente della commissione Antimafia -. Poi, visto che il raccolto andrà probabilmente perso, attraverso una possibile dichiarazione di calamità, proveranno a ottenere altri fondi». E alla fine a trovare consenso ulteriore dando sfogo al disagio, alla frustrazione e alla xenofobia che si è insinuata in parte della popolazione di Rosarno e della Piana.
La Piana «La Piana di Gioia Tauro, dal progetto del V centro siderurgico fino alla realizzazione del porto, con le ingenti risorse finanziarie statali e comunitarie impiegate per il suo sviluppo economico, costituisce ormai da tempo il più grande affare per le ’ndrine insediate sul territorio», si legge nella relazione Forgione della commissione parlamentare Antimafia. «Le attività connesse con la gestione del porto e dunque con il colossale movimento dei container, le opportunità di traffici illeciti a livello internazionale, rese possibili dal frenetico via vai quotidiano delle merci, hanno attratto gli appetiti dei “Molè”, dei “Piromalli”, dei “Bellocco” e dei “Pesce” e li hanno portati a imporre la loro presenza, offrendo l’opportunità di un salto di qualità internazionale». Se la ’ndrangheta ha iniziato una sua violenta, trasversale e spregiudicata campagna elettorale, il primo atto visibile è stato proprio qui, nella Piana di Gioia Tauro con l’ omicidio di Pasquale Maria Inzitari, di 18 anni, ucciso il 6 dicembre scorso a Taurianova. Secondo gli investigatori, l’arma utilizzata, una pistola calibro 9, e le modalità dell’agguato lascerebbero pochi dubbi sulla matrice mafiosa del delitto.
Pasquale Maria è figlio di Pasquale Inzitari, 49 anni, ex esponente dell’Udc (vicesindaco prima e poi consigliere provinciale) arrestato nel maggio del 2008 e condannato nel settembre scorso per concorso esterno in associazione mafiosa a 7 anni di carcere. E non è il primo fatto di sangue che ha colpito questa famiglia. Pasquale Inzitari è anche cognato di Nino Princi, l’imprenditore fatto saltare in aria con la sua autovettura nel centro di Gioia Tauro, pochi giorni prima dell’arresto dello stesso Inzitari. Una vendetta verso l’ex politico? Un messaggio trasversale a tutta la classe politica? Su questo si sta ancora indagando. «Per capire cosa sta succedendo oggi è necessario partire da quel delitto», ci dice Angela Napoli. «I colletti bianchi non sono esenti, esterni, alle logiche degli aspetti militari della ’ndrangheta - spiega la Napoli -. Oggi i mafiosi si laureano, penetrano la borghesia perbenista, accedono direttamente anche a settori della massoneria deviata, sono inseriti in tutte le professioni. E attraverso questo apparente perbenismo determinano cambiamenti e indirizzi. Inquinano tutti questi ambiti». E torniamo a Rosarno. «Nella Piana di Gioia Tauro - prosegue la relazione Forgione - oltre al porto e agli appalti, un settore di interesse delle cosche locali è quello agricolo, per le opportunità di lucro derivanti sia dalla “guardianìa” dei fondi che dalle frodi ai danni dell’A.i.m.a. e dell’I.n.p.s.». La questione è talmente evidente da lasciare sconcertati. Non si può considerare casuale, alla luce di tutto questo, quello che è avvenuto a Rosarno la scorsa settimana. Talmente poco casuale da aver addirittura scatenato l’interesse del Copasir che probabilmente dalla prossima settimana avvierà una serie di audizioni sulla vicenda. I commissari dell’organismo di controllo dell’intelligence potrebbero voler appurare la matrice del gesto che ha innescato la rivolta. Non sarebbe la prima volta che l’organismo affronta la questione della “tratta”, anche per le sue implicazioni evidenti in termini di sicurezza nazionale. «Nel corso degli ultimi anni - si legge nella relazione del Copasir presentata al Parlamento lo scorso anno - il caporalato, da iniziale forma di intermediazione illegale e assoggettamento di forza lavoro irregolarmente immigrata, ha assunto connotazioni illecite ben più degradanti, suscettibili di arrivare a esprimersi in sequestro di persona, estorsione, violenza sessuale, lesioni personali, fino alla vera e propria riduzione in schiavitù del lavoratore. Pur riscontrando forme inequivocabili di contiguità con il fenomeno della tratta di esseri umani, non è ancora del tutto evidente la piena autonomia del business illecito del caporalato. Esso si configura, piuttosto, come una diversificazione tra le possibili attività di sfruttamento e una fonte importante di guadagni da reinvestire successivamente». Il traffico di armi e droga, in particolare.
Reggio Calabria La sequenza video dell’attentato alla Procura generale di Reggio Calabria dura un minuto appena. Arriva lo scooter guidato probabilmente da una donna. I capelli e soprattutto la scarpa fissata nei fotogrammi che poggia a terra, lasciano pochi dubbi. Scende il passeggero, un uomo tarchiato. È la donna che sembra innescare l’esplosivo e la bombola di gas da dieci litri che trasporta sul pianale davanti. L’uomo scende, afferra la bombola e la posiziona. I due si allontanano. Pochi secondi dopo, l’esplosione. Sono circa le 5 di mattina del 3 gennaio. Due dati sono evidenti. L’attentato e la sua esecuzione sono condotti da due professionisti e soprattutto non si vuole uccidere. La scelta dell’ora, del luogo, dell’esplosivo è chiarissima. E poi la donna. Una donna “soldato” della ’ndrangheta. Se davvero si tratta di un attentato di ’ndrangheta, e finora non sono emersi elementi che lo smentiscano, si tratterebbe di una novità, in particolare proprio per il sodalizio criminale calabrese. Di donne che hanno assunto un ruolo, anche di rilievo, nella gestione di organizzazioni criminali di stampo mafioso non ce ne sono molte. Quasi sempre la donna è relegata a un ruolo tradizionale, di moglie, madre, figlia o compagna silenziosa. Solo in pochi casi, in particolare in Campania, le donne assumono un ruolo di vertice, quasi mai operativo in senso “militare”, soprattutto in supplenza di un marito, un fratello o un figlio in caso di decesso o arresto. Solo recentemente emergono capi clan donne, più dedite al traffico di stupefacenti e raramente con implicazioni militari. «Se davvero è stata una donna, lo stanno ancora accertando, si tratta di una rivoluzione per la ’ndrangheta», commenta Angela Napoli. Non siamo infatti davanti a clan perdenti, colpiti dallo Stato, che sentano la necessità di introdurre figure “supplenti” sul piano militare. La ’ndgrangheta è la più potente, militarizzata ed efficace delle mafie. Quindi, se non la ’ndrangheta, o solo la ’ndrangheta, chi? Chi ha la capacità di addestrare e mettere in atto un’azione così efficace coinvolgendo operativamente anche una donna? La questione non è secondaria, affatto. Solo chi ha un addestramento militare, che sia stato ottenuto in ambito criminale o meno, può aver partecipato a un’azione come quella del 3 gennaio. E questa, qualunque essa sia, è un’altra storia. Comunque è evidente che non si vuole dare un unico messaggio e che non c’è solo un interlocutore dell’azione. Uno dei clan reggini sui quali si stanno concentrando le indagini è quello della famiglia De Stefano. Andando a rileggere la storia di questa ’ndrina, si scopre che si tratta di una delle più potenti e spregiudicate, anche in termini di rapporti, dell’organizzazione criminale calabrese. Rapporti con la massoneria deviata, intrecci a livello internazionale con i cartelli colombiani e posizione di vertice nel traffico internazionale degli stupefacenti. E poi, aspetto assolutamente da non sottovalutare, un profilo più moderno e meno legato ai vecchi schemi nella gestione “interna”, proprio grazie all’affacciarsi dei boss alle logge deviate. «L’inserimento nella massoneria che, per quanto inquinata, restava pur sempre un’organizzazione molto riservata ed esclusiva - si legge nella relazione Forgione della commissione parlamentare Antimafia - doveva essere limitato a esponenti di vertice della ’ndrangheta, e per fare questo si doveva creare una struttura elitaria, una nuova dirigenza, estranea alle tradizionali gerarchie dei “locali”, in grado di muoversi in maniera spregiudicata, senza i legami culturali della vecchia onorata società». E i De Stefano diventano protagonisti di questa trasformazione. «Nuove regole sostituivano quelle tradizionali - prosegue la relazione -. Personaggi come Antonio Nirta o Giorgio De Stefano, che si muovevano con tranquilla disinvoltura tra apparati dello Stato, servizi segreti, gruppi eversivi». Tutto concesso, per i De Stefano, «se serviva a depistare l’attività investigativa verso obiettivi minori». Inoltre il clan De Stefano è anche quello che mantiene rapporti di amicizia e collaborazione con famiglie di Cosa nostra e della camorra. «Che dopo anni ci sia stato un cambio alla Procura generale - commenta oggi Francesco Forgione - e che si fosse rafforzata anche la possibilità di un’azione efficace in sede di appello è un possibile movente dell’attentato». E Angela Napoli è ancora più esplicita: «Bisogna anche capire quali beni sono stati sequestrati e a chi. Non dimentichiamo che è stata intaccata anche l’area della Piana di Gioia Tauro con il coinvolgimento di Inzitari nella vicenda del Porto degli Ulivi, un grande centro commerciale. Gli hanno ucciso perfino il figlio. Questo era un politico, era un consigliere provinciale. Non è detto che non ci siano coinvolgimenti in atto dei colletti bianchi che possano avere anche forze in termini di inchieste. Questo ovviamente non lo sappiamo però non va vista la bomba di Reggio solo come un atto prettamente militare. Occorre verificare l’obiettivo, occorre verificare il messaggio».
Poteri A Crotone, il Pm Pierpaolo Bruni negli ultimi mesi ha scoperchiato un pentolone molto pericoloso. Si tratta di un’inchiesta vasta e che vede coinvolta la Wind, o meglio il responsabile della Security del gestore telefonico Salvatore Cirafici. Ex ufficiale dei carabinieri prima di dedicarsi all’attività della sicurezza privata, indagato nel corso dell’inchiesta “Why not” della Procura di Catanzaro, con un’ampia rete di rapporti politici, istituzionali e imprenditoriali, per alcune settimane agli arresti domiciliari su richiesta del pm di Crotone, Pierpaolo Bruni, con l’accusa di rivelazione di segreto d’ufficio, favoreggiamento e minacce nell’ambito dell’inchiesta della Procura di Crotone su presunte irregolarità nella realizzazione di alcune centrali elettriche. Gli arresti domiciliari sono stati revocati il 29 dicembre dal Tribunale del riesame, presieduto da Adalgisa Rinardo. Non solo, il presidente Rinardo ha trasmesso gli atti alla Procura di Roma. Questo intervento del Tribunale del riesame ha riportato alla memoria la “liquidazione” sia dell’inchiesta “Why not”, condotta dall’ex pm Luigi De Magistris, che l’azzeramento della Procura di Salerno nella fase successiva, ovvero quella della cosiddetta “battaglia delle procure”, avvenuta solo pochi giorni dopo che i magistrati campani avevano iniziato a indagare sull’ex capo della Procura di Catanzaro Mariano Lombardi, l’aggiunto Salvatore Murone, il presidente del Tribunale del riesame, appunto, Adalgisa Rinardo, l’ex procuratore generale di Catanzaro Dolcino Favi (che aveva avocato a sé l’inchiesta “Why not”). E non solo. Tra le persone finite sotto inchiesta all’epoca ci sarebbero state anche il vicecapo degli ispettori del ministero della Giustizia Gianfranco Mantelli, il senatore di Forza Italia, Giancarlo Pittelli, e l’ex governatore della Calabria, Giuseppe Chiaravalloti. Il risultato di quella vicenda fu il trasferimento ad altri uffici o l’uscita dalla magistratura della maggioranza dei pm (procuratore capo in testa) di Salerno, la fine della carriera come pm di De Magistris, e, soprattutto, lo sventramento delle inchieste del pm di Catanzaro: “Why not”, “Toghe lucane” e “Poseidone”, in un numero incredibile di stralci e micro filoni. Cosa stava scoprendo Bruni? Una vicenda di Sim non rintracciabili fornite a «esponenti della politica, degli affari e delle istituzioni», di falsificazioni e false testimonianze, di fughe di notizie su istruttorie in corso, di indagati avvertiti di essere intercettati, di scambi di favori con dirigenti dei servizi, di pressioni e perfino intimidazioni ai testi. Insomma un bel verminaio. E mentre questi fascicoli da Crotone hanno preso la rotta del porto della Procura di Roma, arriva la notizia (chissà se anche questa elettorale) di un’intimidazione al pm Bruni avvenuta proprio a dicembre scorso. Tranciato il tubo di alimentazione dell’auto del padre del magistrato. Tutto normale da queste parti. Tutto normale in una Calabria normalizzata.
Tratto da left/Avvenimenti
Di seguito inserisco l’intervista che ho fatto ad Alessandro Leogrande per "l’altrapagina gubbio", il bimestrale di cui sono coordinatore di redazione, sul tema dello sfruttamento nei confronti dei nuovi schiavi. Alessandro Leogrande ha scritto "Uomini e Caporali", pubblicato da Mondadori nel 2008, un intenso reportage narrativo che parte dalle lotte contadine nella Puglia del bienno rosso e arriva fino al primo storico processo contro i caporali tenuto a Bari. Il lavoro di inchiesta di Leogrande è, secondo me, molto importante perchè non si limita solo al racconto dello sfruttamento spietato su uomini e donne privi di qualsiasi difesa, ma allarga via via la sua analisi (accompagnandola sempre ad un lucido e rigoroso ragionamento) fino ad evidenziare alcuni temi fondamentali: l’incapacità dello Stato in tutte le sue componenti, le "mancanze" della società civile,le nuove forme di un potere sempre più aggressivo e sempre più subdolo, le soluzioni percorribili per fronteggiare tale fenomeno. Leogrande si concentra in maniera particolare sul "caso Puglia", che ha certo caratteristiche diverse rispetto al "caso Calabria". Ma gli stimoli che arrivano sono tanti. Domenico Barberio
Lo scrittore Antonio Pascale dice che “Uomini e Caporali” rispetto ad altri libri che trattano un simile argomento ha il merito particolare di aver raccontato una storia di carnefici e vittime ponendosi da una doppia prospettiva, sia da quella delle vittime ma anche da quella dei carnefici. Cosa ne pensi. Il fenomeno di cui ho parlato nel libro è un fenomeno complesso e per raccontarlo bisognava farlo attraverso sicuramente gli occhi delle vittime, perché è certo la parte da cui stai, perché capire cos’è la schiavitù moderna vuol dire capire come si subisce, come si vive una condizione di schiavitù materiale ma anche psicologica, mentale. Ma per capire il fenomeno in sé, bisognava in qualche modo descrivere anche dall’interno i caporali. Vederli fisicamente. Non intervistarli, perché non era possibile e poi, credo, perchè non era giusto dargli voce, in qualche modo legittimarli. Però le domande “che cosa passa nella testa a uno che fa il caporale, perché diventa caporale, perché esercita il dominio in quel modo, che cosa pensa, quali sono i suoi obbiettivi” secondo me sono domande centrali se si vuole scrivere un libro come questo. Così da una parte sono stato al processo, vedendoli nelle gabbie, perché anche lì il racconto del dettaglio umano, del modo di vestire, tagliare i capelli, osservare, rivela molto; dall’altra ho analizzato, con un occhio allo storico del presente, le dichiarazioni del pentito. Si trattava di un pentito particolare, una sorta di vicecaporale. Sono delle dichiarazioni molto importanti non solo dal punto di vista strettamente giudiziario, perché appunto raccontano dall’interno il caporalato, ma anche dal punto di vista umano e psicologico perché permettono di dare risposte a quelle domande. Quali sono le maggiori difficoltà nello scrivere un reportage narrativo come il tuo Io credo che fare un reportage narrativo sia un’operazione complessa, che mescola vari registri e vari approcci: l’approccio propriamente giornalistico, quello saggistico, quello storico, quello antropologico. Però c’è un “di più” che secondo me serve: è quello di cui ti dicevo prima, cioè cercare di capire cosa passa nella testa delle persone, che cosa vivono le persone sulla propria pelle, che è un dato umano. Molti dicono che è quello che coglie la letteratura. Secondo me, invece, è quel “di più” che il reportage narrativo deve avere rispetto ad una normale inchiesta sociologica, un normale saggio, pur non diventando fiction, ma restando non fiction. Deve cercare di diradare delle ombre molto spesse. È una appropinquarsi, un avvicinarsi alla verità appena lambendola, ma mai possedendola pienamente. Io del resto diffido da quegli atteggiamenti superomistici degli scrittori di denuncia che dicono questa è la verità, io adesso ve la racconto, ve la spiattello oggettivamente. L’oggettività è un processo faticosissimo, non credo che ci si possa arrivare e poi tu non sei un super uomo. Il fatto è che bisogna ricercare, mettersi in discussione. Non c’è da aver paura nel confrontarsi, manifestare, mettere in piazza le proprie debolezze, o il proprio convincimento personale, emotivo, rispetto a questa ricerca e rispetto ad alcuni punti, come il fallimento nel non riuscire a capire e a descrive alcune cose. Dalla lettura del libro mi sembra che esca fuori una sorta di sentimento di inadeguatezza: inadeguatezza da parte della legge nel tutelare questi moderni schiavi, inadeguatezza della sociologia nell’”inquadrarli”, inadeguatezza del giornalismo nel raccontarli. Questi fenomeni di sfruttamento, di cui io mi sono occupato seguendo in particolare il caso pugliese, ma che sono riscontrabili nel resto delle campagne italiane, facciamo fatica a fronteggiarli innanzitutto concettualmente. Perché non riusciamo a liberarci da un’idea ristretta dei processi lavorativi, migratori, delle relazioni umane, delle relazioni fra il legale e l’illegale, fra modernità e non modernità. Credo non ci sia un ritardo del sindacato, della politica, della magistratura in quanto tali, credo siano gli strumenti di cui si servono che sono inadeguati e che vanno aggiornati. Noi abbiamo bisogno di un nuovo impianto di leggi che faccia fronte a questo fenomeno globale. Abbiamo bisogno di un nuovo sguardo,un nuovo impegno da parte dalla politica europea, abbiamo bisogno di un modo nuovo di fare sindacato che parte dal presupposto che il tuo movimento operaio, anche nella provincia italiana, è un movimento operaio globale. Quindi o tu sei in grado di far fronte al fatto che la gente arriva magari da venti nazioni diverse, e ha quindi esigenze e prospettive diverse, oppure difendi la nicchia dei garantiti italiani non capendo niente di quello che capita attorno. La vicenda processuale che ho seguito, anche dal punto di vista strettamente giuridico o giuridico punitivo, fa emergere che abbiamo bisogno di una seria riflessione su che cos’è il reato di riduzione in schiavitù nel mondo del lavoro, la necessità di introduzione del reato di grave sfruttamento lavorativo,di una riflessione chiara sulla concessione dell’articolo 18 per grave sfruttamento lavorativo che non viene dato o viene dato a macchia di leopardo, proprio perché su tutto il territorio nazionale non c’è concezione del fatto in sè. Ma stimola anche una riflessione più strettamente giuridica, ad esempio, sul pentitismo. Il paradosso del processo ai caporali che io descrivo nel libro, sembrerà una questione tecnica ma secondo è una questione molto importante , è che si è arrivati a sentenza perché appunto c’è uno che si è pentito. Ma la nostra legge sul pentitismo, che è ferma alla lotta alla mafia e al traffico degli stupefacenti, non contempla il ruolo di collaboratore di giustizia per reati di riduzione in schiavitù, che sono uno dei reati delle nuove mafie. Per cui questo si è pentito, ha fatto delle dichiarazioni importanti, e poi ha avuto solamente le attenuanti generiche. Una riflessione sul pentitismo che tenga conto del fatto che se a pentirsi è magari un cinese, che parla solo il cinse e denuncia dei suoi connazionali, è molto più difficile e complicato che gestire magari un pentito siciliano. E’ un fatto radicalmente, culturalmente diverso. Questi strumenti o te li dai, in termini di acquisizione, di lavoro culturale, o sei tagliato fuori. In “Uomini e caporali” si incontrano questi veri e propri ghetti, dove si vive tra disumanità e disperazione, che nascono e crescono ai bordi dei paesi, delle cittadine, sparse nella campagna pugliese. Ti chiedo: Come è possibile che la gente di quei paesi, di quelle città, non ha fatto nulla, o ha fatto finta di non sapere? Non ho una risposta univoca. Sicuramente c’è stata un’indifferenza colpevole. Un’indifferenza nei confronti dell’altro che viene percepito come un uomo di serie “b”, un misto di indifferenza, razzismo di provincia, ignavia, convivenza. Credo che sia interessante il discorso sulla convivenza. Questi infatti sono paesi che si fondano sul sistema della truffe all’Inps. In un paese di quindici, ventimila persone risultano esserci per dire tipo diecimila braccianti, di cui tre/quattromila sono falsi braccianti, che risultano tali, magari tramite iscrizione a delle cooperative e la convivenza di alcuni patronati, perchè dichiarano giornate che non hanno mai lavorato, in modo da avere la copertura previdenziale dell’Inps. Ad esempio l’inchiesta più grossa, ma non l’unica, che è stata fatta nel paese di Cerignola,la capitale del Basso Tavoliere, ha trovato tremilacinquecento falsi braccianti. Un numero altissimo che è anche un’importantissima base elettorale. Appare evidente che c’è la volontà nel chiudere un occhio da parte della politica di fronte a questa sorta di ammortizzatore sociale illegale e largamente accettato. Inoltre il fatto che tante persone risultino sulla carta braccianti, pur non essendolo, fa in modo che nelle quote del Decreto flussi del Ministero dell’Interno siano molto basse le quote ufficiali degli stranieri. Perché giustamente il ragionamento del Ministero è molto semplice :se ci sono tanti braccianti italiani, del posto, perchè devono metterci diecimila stranieri? Così, per esempio, nella provincia di Foggia ne vengono messi solo tremila, quando invece poi il lavoro estivo richiede la presenza, ma non c’è un dato statistico certo, di almeno diecimila persone. Si crea strutturalmente un meccanismo per cui tu produci, anche nel percorso accidentato dell’attuale Decreto flussi, clandestinità. Il rapporto tra connivenze anche piccole e l’effetto poi sul sistema più generale, secondo me, è molto stretto. C’è allora questo misto di razzismo, accettazione, indifferenza, di non buttare comunque l’occhio, di non sapere cosa succede a margine del tuo paese, o intuirlo ma non andare ad indagarlo. Nonostante tutto hai una speranza dopo aver scritto questo libro? Cioè qualcosa che ti fa dire è stato così, è così, ma questa storia potrebbe cambiare, potrebbe riservare altro. Sul piano dell’analisi strettamente politica e sociale sono orientato al pessimismo. La legge sull’immigrazione è una brutta legge, e il clima politico nazionale, che tende sempre di più all’esclusione e all’esasperazione del tema sicurezza, non va verso l’emersione di queste nuove forme di schiavismo, ma va al contrario verso forme di ulteriore clandestinizzazione e di ulteriore aggiunta di ombra su ombra. Credo che le buone pratiche amministrative regionali siano state importanti ed efficaci ma in concreto bisogna vedere se reggono, se infatti non vengono sorrette sul piano nazionale ed europeo rischiano di essere sommerse. I segnali non sono buoni: nonostante l’attenzione posta sul fenomeno in Puglia esistono ancora,e non sembrano fermarsi, situazioni di sfruttamento e violenza che ho descritto nel libro.