Mangia e Manga

Poltrone a volontà nel governo Prodi. Rispettato il costume italico - l’articolo è di Gian Antonio Stella

Record sfiorato. Un posto anche a De Paoli, il leghista «taroccato» che fu determinante per l’Unione
venerdì 19 maggio 2006.
 

Meno uno. Ancora uno sforzo e il nuovo governo arriverà a battere il suo primo record: superare per numero di poltrone Giulio Andreotti, che con 101 troni, sedie e strapuntini distribuiti nel suo settimo esecutivo resiste da 15 anni e passa. Romano Prodi gli soffia sul collo: tra ministri, viceministri e sottosegretari ne ha già fatti (lui compreso) 99 ma il magico 100 è lì, a una pedalata. Sul più bello che la comitiva era già al Quirinale per giurare (visto che un tir poteva venir buono?) qualcuno si è battuto la fronte: «Ooops! Ci siamo scordati degli italiani all’estero!». Bella grana: a Palazzo Madama, senza i quattro senatori eletti in giro per il mondo dai nostri emigrati e senza l’ormai famoso Luigi Pallaro, l’«indipendente» di Buenos Aires che ha detto che non alzerà «mai la mano per far cadere il governo», la sinistra va sotto. E proprio oggi c’è il voto di fiducia al Professore.

Il quale, non bastasse la prima, ha fatto ieri mattina una seconda frittata. Ricordate cosa aveva tuonato dopo le elezioni vinte per un pelo? «Abbiamo avuto l’incarico di governare dagli elettori di cinque continenti!» Bene: nel discorso al Senato, su un totale di oltre novemila parole, si è dimenticato di usarne tre: italiani-nel-mondo.

Una svista seccante. Che sarà rimediata alla Camera (dove l’Unione è meno assetata di voti avendo già una maggioranza larga) ma che intanto ha fatto infuriare una parte dei preziosi rappresentanti delle circoscrizioni estere. I quali hanno scritto chiaro e tondo in una lettera inviata al capo del governo, D’Alema, Rutelli e Fassino, di essere rimasti sconcertati. E di aver trovato anche «nell’assenza di qualsiasi riferimento agli italiani nel mondo» la conferma che «né i leader di governo né quelli di partito hanno compreso la domanda politica dei nostri cittadini all’estero».

Ma le grane non finiscono qui. I cinque firmatari (Claudio Micheloni, Mariza Bafile, Gino Bucchino, Gianni Farina e Marco Fedi) se la prendono anche per il modo in cui ieri sera pareva avviata la scelta del viceministro che dovrebbe occuparsi delle nostre comunità sparse per il pianeta. Scelta caduta, dopo una consultazione dei soli senatori («della Camera che gli importa, con decine di seggi di margine?») su Franco Danieli. Il quale è figlio di emigrati in Svizzera, si occupa da anni del tema emigrazione e ha subito raccolto il plauso di Pallaro («E’ il nome che abbiamo fatto noi») ma non quello, anzi, degli autori della lettera.

I quali sono vicini ai Ds e denunciano senza sfumature, stracciando il «politichese» nostrano, di scrivere «con sommo disagio e profondo disgusto» e di essere rimasti «attoniti» nell’assistere «a comportamenti di altri eletti al Senato» nella lista unitaria sospinti «al ricatto verso il governo dalle mire governative del senatore Danieli». Traduzione: fanno viceministro lui sennò addio fiducia. E tanto per essere ancora più chiari, dopo avere ricordato di «aver sempre dato disponibilità a ricercare soluzioni condivise», mettono nero su bianco che «non è possibile che prevalgano logiche di ricatto che per noi tutti sono semplicemente inaccettabili».

Come finirà il braccio di ferro? Vedremo. Quel che è certo è che la risicatissima maggioranza al Senato, per l’Unione, potrebbe essere ancora più fragile del previsto. E che la novità della pattuglia di parlamentari italo-esteri, gestita disastrosamente dalla destra che si era presentata nei cinque continenti in ordine sparso uscendone tritata, rischia di scoppiare ora tra le mani della sinistra. Che dopo essere stata miracolata a Palazzo Madama dall’arrivo dei cinque senatori su sei favorevoli al governo, se n’è completamente dimenticata tornando a rimirarsi l’ombelico capitolino. A partire dalla decisione, scellerata sotto il profilo dell’ immagine, di abolire il ministero occupato fino a ieri da Mirko Tremaglia.

E sì che il caravanserraglio unionista non ha fatto lo sparagnino sulle poltrone. Ne ha trovata una anche per Elidio De Paoli «il leghista taroccato» (secondo il Carroccio) che coi suoi 45 mila voti è stato determinante. Risultato: con 26 ministri più Enrico Letta al posto di suo zio Gianni più 63 sottosegretari più 9 viceministri, è già a quota 99 incarichi governativi. Uno in più del Berlusconi Ter e solo due in meno, come dicevamo, del famigerato Andreotti settimo che pareva irraggiungibile. Sommiamo il vice-ministro per gli italiani all’estero in arrivo e resterà da aggiungere una sola casella per brindare al governo più coriandolato della storia patria. E forse del mondo. Divertente. Anche perché nel 2001, davanti al Berlusconi Bis che aveva distribuito una enormità di poltrone ma comunque 14 in meno rispetto ad oggi, si era levato un coro scandalizzato non solo dei giornali come il nostro che tentano inutilmente di morder le chiappe a questa deriva clientelare, ma anche dei protagonisti della «man bassa» di oggi. Coro sul quale svettò una battuta della quale Pierluigi Bersani sarà oggi pentito: «Complimenti per la fantasia, manca solo il ministero per la Felicità!» Sono anni, in realtà, che torna e ritorna il tormentone dei tagli dei ministeri. Cominciò Giovannone Spadolini e da allora non c’è stato candidato, capopartito o brindellone, per dirla con Luciano "Boss" Moggi, che non abbia giurato che lui sì, avrebbe ridotto le poltrone. L’ha promesso Berlusconi (Grande Opera fallita sia nel ’94 sia nel 2001), l’ha promesso Prodi, che nel programma dell’Ulivo del ’96 l’aveva fatto mettere come tesi numero nove: «Ridurre i ministeri e i ministri».

Riuscì perfino a farla, l’Ulivo, la riforma. Bella pronta per il Cavaliere avviato a vincere le elezioni e già perplesso. Franco Bassanini, che firmò quella svolta istituzionale mai applicata, ridacchiava: «Capisco che chi ha fatto troppe promesse preferirebbe avere molte più poltrone da distribuire. Ma con la riforma il numero dei ministri sarà dimezzato rispetto ai governi degli anni Settanta e Ottanta di cui Pisanu ha forse nostalgia». E aggiunse esaltando il Giappone: «Li hanno ridotti da 23 a 13!» Evviva. Il Giappone, però.

Gian Antonio Stella

19 maggio 2006

www.corriere.it


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