Giornalismo

FORTE MONITO DEI GIUDICI SUPREMI AL MONDO GIORNALISTICO ITALIANO - a cura di Franco Abruzzo (www.odg.mi.it)

domenica 21 maggio 2006.
 

Sentenza 7607/2006.

“Sul n. 9/2000 del settimanale "Panorama", diretto da Roberto Briglia, veniva pubblicato - a firma di Marcella Andreoli - un articolo dal titolo "Il sacco, la carota e altre storie di nonni", nel quale veniva raccontata con dovizia di particolari una vicenda di angherie e violenze subita da un giovane aviere in una caserma del Padovano. A seguito di un esposto della famiglia dell’aviere, che lamentava la pubblicazione del nome e cognome e di altri particolari personali della vittima degli episodi di "nonnismo", sì da consentirne la "diretta ed esplicita identificazione", il Consiglio regionale dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia, con delibera 17 luglio 2000, ritenuta sussistente la violazione del Codice di deontologia sulla privacy e del dovere di attenersi alla verità sostanziale dei fatti, ha irrogato alla Andreoli la sanzione della sospensione della professione per due mesi ed al Briglia quella della censura”. Successivamente il Consiglio nazionale ha, invece, ridotto la sanzione a quella dell’avvertimento per entrami i giornalisti, confermato l’impianto accusatorio. La decisione è stata ribadita dal Tribunale e dalla Corte d’Appello di Milano e dalla Corte suprema con la sentenza 7607/2006.... Nel luglio del 2000 i direttori dei grandi giornali italiani lanciarono insulti contro la linea “calvinista” dell’Ordine di Milano......che, invece, in quell’occasione aveva difeso ancora una volta la legalità deontologica della professione di giornalista....

Anche la Cassazione afferma che il giornalismo deve osservare le regole fissate per legge. Non esiste la libertà di scrivere quel che si vuole o di pubblicare le generalità e le foto di persone che hanno subito violenze e che hanno subito gravi lesioni alla loro dignità personale.

Una lezione di civiltà per coloro che in questi giorni predicano un giornalismo senza vincoli in contrasto con il dettato dell’articolo 21 della Costituzione che, al comma 6, pone il limite del “buon costume” alla libertà di manifestazione del pensiero. Il “buon costume” coincide con il rispetto della dignità della persona (sentenza 293/2000 della Corte costituzionale).

Si legge nella sentenza 293/2000 della Corte costituzionale:

Con riguardo all’art. 21, sesto comma, della Costituzione, questa Corte non può non ricordare che tale articolo - nel vietare le pubblicazioni contrarie al buon costume - demanda alla legge la predisposizione di meccanismi e strumenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni del precetto costituzionale. L’art. 15 della legge sulla stampa del 1948, esteso anche al sistema radiotelevisivo pubblico e privato dall’art. 30, comma 2, della legge 6 agosto 1990, n. 223, non intende andare al di là del tenore letterale della formula quando vieta gli stampati idonei a “turbare il comune sentimento della morale”. Vale a dire, non soltanto ciò che è comune alle diverse morali del nostro tempo, ma anche alla pluralità delle concezioni etiche che convivono nella società contemporanea. Tale contenuto minimo altro non è se non il rispetto della persona umana, valore che anima l’art. 2 della Costituzione, alla luce del quale va letta la previsione incriminatrice denunciata. Solo quando la soglia dell’attenzione della comunità civile è colpita negativamente, e offesa, dalle pubblicazioni di scritti o immagini con particolari impressionanti o raccapriccianti, lesivi della dignità di ogni essere umano, e perciò avvertibili dall’intera collettività, scatta la reazione dell’ordinamento. E a spiegare e a dar ragione dell’uso prudente dello strumento punitivo è proprio la necessità di un’attenta valutazione dei fatti da parte dei differenti organi giudiziari, che non possono ignorare il valore cardine della libertà di manifestazione del pensiero. Non per questo la libertà di pensiero è tale da inficiare la norma sotto il profilo della legittimità costituzionale, poiché essa è qui concepita come presidio del bene fondamentale della dignità umana. Così intesa la figura delittuosa, si possono superare anche le residue censure. La descrizione dell’elemento materiale del fatto-reato, indubbiamente caratterizzato dal riferimento a concetti elastici, trova nella tutela della dignità umana il suo limite, sì che appare escluso il pericolo di arbitrarie dilatazioni della fattispecie, risultando quindi infondate le censure di genericità e indeterminatezza. Quello della dignità della persona umana è, infatti, valore costituzionale che permea di sé il diritto positivo e deve dunque incidere sull’interpretazione di quella parte della disposizione in esame che evoca il comune sentimento della morale. Nella stessa chiave interpretativa si dissolvono i dubbi sul fondamento della previsione incriminatrice. Onde non v’è lesione degli artt. 3, 21 e 25 della Costituzione”.

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Cass. civ. sez. III, 31 marzo 2006, n. 7607

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VARRONE Michele - Presidente

Dott. MAZZA Fabio - Consigliere

Dott. MASSERA Maurizio - Consigliere

Dott. MANZO Gianfranco - Consigliere

Dott. FRASCA Raffaele - rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sul ricorso proposto da:

Marcella Andreoli e Roberto Briglia, elettivamente domiciliati in ROMA VIA ORAZIO 3, presso lo studio dell’avvocato MALAVENDA CATERINA, che li difende, giusta delega in atti;

-  ricorrenti -

contro

CONS NAZ ORD GIORNALISTI, in persona del Presidente, Dott. Lorenzo Del Boca, elettivamente domiciliato in ROMA VIA PACUVIO 34, presso lo studio dell’avvocato ROMANELLI GUIDO, che lo difende unitamente all’avvocato GARANCINI GIANFRANCO, giusta delega in atti;

-  controricorrente -

e contro

CONS REG ORD GIORNALISTI LOMBARDIA, in persona del Presidente, prof. Franco Abruzzo, elettivamente domiciliato in ROMA VIA SISTINA 42, presso lo studio dell’avvocato GIORGIANNI FRANCESCO, che lo difende unitamente all’avvocato DANOVI REMO, giusta delega in atti;

-  controricorrente -

avverso la sentenza n. 25/05 della Corte d’Appello di MILANO, sezione prima civile, emessa il 18/05/05, depositata il 20/05/05, R.G. 230/05;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 13/02/06 dal Consigliere Dott. Raffaele FRASCA;

udito l’Avvocato Guido ROMANELLI;

udito l’Avvocato Francesco GIORGIANNI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. GOLIA Aurelio, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto Diritto P.Q.M.

Svolgimento del processo 1. Sul n. 9 dell’anno 2000 del settimanale "Panorama", diretto da Roberto Briglia, veniva pubblicato - a firma di Marcella Andreoli - un articolo dal titolo "Il sacco, la carota e altre storie di nonni", nel quale veniva raccontata con dovizia di particolari una vicenda di angherie e violenze subita da un giovane aviere della Caserma di (OMISSIS). A seguito di un esposto della famiglia dell’aviere, che lamentava la pubblicazione del nome e cognome e di altri particolari personali della vittima degli episodi di "nonnismo", sì da consentirne la "diretta ed esplicita identificazione", il Consiglio regionale dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia, all’esito di un procedimento disciplinare, con Delib. 17 luglio 2000, ritenuta sussistente la violazione del Codice di deontologia sulla privacy e del dovere di attenersi alla verità sostanziale dei fatti, irrogava alla Andreoli la sanzione della sospensione della professione per due mesi ed al Briglia quella della censura. Su ricorso dei sanzionati, il Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti, con delibera del 29 gennaio 2004, riduceva la sanzione all’avvertimento per entrambi.

L’ ANDREOLI ed il BRIGLIA ricorrevano L. 3 febbraio 1963, n. 69, ex art. 63, al Tribunale di Milano, chiedendo l’annullamento del provvedimento e, nella resistenza sia del Consiglio Regionale dei Giornalisti della Lombardia che di quello nazionale, ed in assenza di richieste del Pubblico Ministero, che si limitava a prendere "visione" degli atti, il Tribunale meneghino respingeva il ricorso con gravame delle spese sui ricorrenti con sentenza del 22 febbraio 2005. L’ ANDREOLI ed il BRIGLIA appellavano la sentenza e, nella resistenza dei due organismi di categoria e con la richiesta di conferma del Procuratore Generale, la Corte d’Appello di Milano, con sentenza del 20 maggio 2005 rigettava l’appello. 2. La sentenza, dopo avere dato atto dei motivi di doglianza proposti dagli appellanti e del contenuto della deliberazione del Consiglio nazionale dell’Ordine, afferma, innanzitutto, che in base all’iter argomentativo da essa seguito, doveva ritenersi che "ai fini dell’identificazione del contenuto e dei confini" della stessa, a carico dei due giornalisti fosse stata ritenuta la violazione dell’art. 8 del Codice di deontologia sulla privacy, per essere state pubblicate le generalità della vittima dell’episodio di "nonnismo", mentre l’accenno fatto dalla deliberazione alla circostanza che l’articolo era andato "sopra le righe" rispetto a quanto realmente accaduto doveva considerarsi "più un rilievo allo stile che un preciso addebito disciplinare, nè sembra(va) possibile leggervi l’accusa di travisamento del fatto storico". Dopo di che espone le seguenti ragioni: doveva ritenersi condivisibile la critica rivolta dai ricorrenti a quei passi della motivazione nei quali la sentenza del Tribunale aveva stigmatizzato la scorrettezza professionale per essere i giornalisti venuti meno alla verità sostanziale dei fatti, non essendo possibile, in mancanza di impugnazione del Pubblico Ministero una reformatio in pejus ampliativa degli addebiti; tuttavia, ciò risultava irrilevante ai fini della responsabilità disciplinare dei ricorrenti, in quanto la violazione dell’art. 8 bastava a sorreggere l’irrogata sanzione, in quanto "la pubblicazione del nome e cognome dell’aviere vittima, in particolare, del grave episodio di violenza ampiamente descritto nell’articolo, con l’indicazione dell’età, della città di provenienza e con l’aggiunta di una seppur sintetica descrizione fisica "alto e smilzo") e dei suoi problemi sanitari ("soffre di allergia da polline"), permettendone la facile identificazione aveva realizzato un’arbitraria e negativa interferenza nella sfera privata dello stesso e, di conseguenza, della sua famiglia", di modo che l’uno e l’altra erano stati esposti alla curiosità non tanto degli indeterminati e sconosciuti lettori, quanto della stessa comunità cui appartenevano, con la diffusione tra amici e conoscenti della notizia di una vicenda particolarmente dolorosa ed umiliante e lesiva della dignità personale dell’aviere; ciò contrastava con il citato art. 8, là dove esso prescrive, nel primo comma, che "salva l’essenzialità dell’informazione, il giornalista non fornisce notizie o pubblica immagini o fotografie di soggetti coinvolti in fatti di cronaca lesivi della dignità della persona, nè si sofferma su dettagli di violenza, a meno che ravvisi la rilevanza sociale della notizia o dell’immagine", poiché tale dizione andrebbe letta come divieto generale di pubblicazione riconoscibile di "soggetti coinvolti in fatti di cronaca lesivi della dignità della persona", divieto rispetto al quale l’ipotesi di essenzialità dell’informazione si porrebbe come eccezione; nella specie era evidente la sussistenza di detta lesività in ragione dell’episodio di cui trattasi, definito dalla stessa autrice dell’articolo "terribile" e "impartito dopo altre umiliazioni" ed anzi la lesività era accentuata dalle modalità narrative, che, come rilevato dal Consiglio regionale e dal tribunale permettevano di immaginare un epilogo ben più drammatico ed umiliante dello scherzo; il diritto di cronaca giudiziaria, invocato come scriminante dalla difesa degli incolpati, adducendo che all’epoca dell’articolo era già iniziato un procedimento penale avanti alla giustizia militare per i fatti in questione e che, quindi, in tale contesto il dato delle complete generalità della vittima sarebbe stato essenziale allo scopo informativo, anche al fine di denuncia di un fenomeno negativo quale il "nonnismo", non poteva dirsi rilevante giacché l’efficacia di detta denuncia o la completezza della cronaca non esigevano affatto l’indicazione delle generalità della vittima, che avrebbe potuto essere limitata alle iniziali, mentre l’aggiunta di altri particolari identificatori era del tutto irrilevante ed appariva motivata da esigenze di "colore", non certo di rango costituzionale; l’articolo, comunque, ben difficilmente si sarebbe potuto qualificare come di cronaca giudiziaria, "attesa la labilità dei riferimenti processuali, ridotti all’accenno ai verbali raccapriccianti (all’inizio), alla data (non esatta) in cui si aprirà il processo e alla enunciazione delle pene pecuniarie previste per le alternative possibili imputazioni (alla fine), senza neppure chiarire che il procedimento era ancora in fase preliminare e non dibattimentale"; viceversa, la struttura dell’articolo era piuttosto quella della dichiarazione resa dalla parte offesa, quasi come una sua intervista, mentre il contesto, rappresentato da fotografie, riquadri e dati, era quello di un servizio di attualità, come dichiarato in apertura, nel sovra-titolo; tali rilievi evidenziavano come nel bilanciamento fra il diritto all’informazione ed il diritto alla riservatezza, il primo avrebbe dovuto cedere al secondo, attesa la non essenzialità ai fini dell’esercizio del diritto di informazione della pubblicazione del nome e dei dati identificativi, sicuramente lesiva del diritto alla riservatezza del militare. 3. Contro la sentenza hanno proposto congiuntamente ricorso Marcella Andreoli e Roberto Briglia, affidandolo a tre motivi. Hanno resistito con separati controricorsi il Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti ed il Consiglio Regionale dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia. Quest’ultimo ha anche depositato memoria.

Motivi della decisione 1 Con il primo motivo di ricorso si lamenta "la violazione e/o la falsa applicazione delle norme di diritto e segnatamente dell’art. 21 Cost., D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 137 e art. 8 del Codice di deontologia professionale di cui all’art. 139 stesso D.Lgs.". Il motivo viene illustrato anzitutto assumendosi che la Corte territoriale avrebbe ritenuto che, dalla previsione con cui l’art. 8 del Codice deontologico impone al giornalista di non fornire indicazioni idonee all’identificazione dei soggetti coinvolti in fatti di cronaca lesivi della dignità della persona, salva l’essenzialità dell’informazione, discenderebbe un generale divieto di pubblicazione dei dati di soggetti coinvolti in fatti di cronaca lesivi della loro dignità, divieto rispetto al quale l’essenzialità dell’informazione si porrebbe come eccezione, di modo che, nel bilanciamento degli interessi contrapposti - cioè del diritto di informare, tutelato dall’art. 21 Cost., e dell’interesse del singolo a restare anonimo quando trovasi coinvolto in un contesto lesivo della sua dignità, tutelato dall’art. 2 Cost. - prevarrebbe sempre il secondo, salva quella eccezione. Siffatto principio risulterebbe per un verso indeterminato e, quindi, affidato alla mera discrezionalità di chi giudica e per altro verso eccessivamente restrittivo per il giornalista Andreoli. Esso sarebbe inesatto, in quanto sarebbe ovvio che chi è protagonista di un fatto di cronaca sia esposto alla curiosità di chi lo conosce e, dunque, lo riconosce nell’evento, onde non potrebbe essere questo l’elemento che distingue il lecito dall’illecito. Ad avviso dei ricorrenti, salvi i casi della vittima di reati sessuali e dei minori, per i quali opera un divieto di diffusione, le generalità di chi, suo malgrado, assurge all’onore delle cronache, sarebbero divulgabili, salvo che i fatti in cui è coinvolto siano tali da lederne la dignità, onde il principio operante sarebbe opposto a quello affermato dalla sentenza impugnata. Inoltre, se i fatti di cronaca potessero essere narrati anche omettendo le generalità dei protagonisti, in tale modo la cronaca mancherebbe di un elemento fondamentale. Quando poi si tratta di cronaca giudiziaria, qualora la vittima del fatto di reato lesivo della sua dignità abbia ritenuto di sottoporre il fatto all’autorità giudiziaria, chiedendo la punizione del responsabile e costituendosi parte civile, accetterebbe e non potrebbe evitare che le sue generalità possano essere diffuse legittimamente, salve le due indicate eccezioni. Poichè la dignità della persona sarebbe sempre offesa dal reato, se fosse corretto il principio affermato dall’impugnata sentenza la loro previsione resterebbe incomprensibile. Dopo tali assunti, si perviene alla conclusione che il principio sarebbe che i dati relativi a soggetti coinvolti in fatti di cronaca giudiziaria sarebbero divulgabili "con le sole limitazioni che il legislatore ha ritenuto di introdurre, per evidenti ragioni di opportunità". Da tanto si fa discendere che la informazione essenziale comprenderebbe le generalità dei protagonisti quando si riferisce ad un processo penale che ha superato la fase delle indagini preliminari. Resterebbe affidato alla valutazione del giornalista di vagliare l’essenzialità della indicazioni delle generalità e se il giudice non condivida tale valutazione dovrebbe motivare il suo dissenso in modo più ampio di quello fatto dalla sentenza impugnata. Non sarebbe "motivazione sufficiente affermare che lo scherzo del carotone, definito dalla stessa giornalista terribile ed impartito dopo altre umiliazioni, è di per sè solo lesivo della dignità della vittima, sicché l’averlo subito non consente la divulgazione delle generalità del protagonista". Inoltre, la sentenza non avrebbe motivato perché i particolari che hanno consentito l’identificazione della parte lesa sarebbero irrilevanti ai fini di una corretta cronaca e costituirebbero elementi di colore. La lettura dell’occhiello e del catenaccio dell’articolo dove si diceva "ecco i verbali che hanno portato in Tribunale i suoi superiori. Che raccontano una terribile cronaca di ordinaria violenza" e "Quattro militari sotto processo", avrebbe evidenziato la collocazione dell’articolo nella cronaca giudiziaria, donde la legittimità della condotta dei ricorrenti. Con un secondo motivo si denuncia "omessa, insufficiente e/o contraddittoria motivazione in ordine alla sussistenza dell’illecito disciplinare". Il motivo, in sintesi, viene illustrato adducendosi che per rispondere al quesito sul se sia stato violato il citato art. 8 non sarebbe sufficiente l’affermazione dell’impugnata sentenza che, per denunciare il fenomeno del nonnismo non era necessario indicare il nome dell’aviere, in quanto l’articolo non costituiva una mera e generica denuncia di quel fenomeno, ma era la cronaca di una vicenda precisa, sfociata in un processo nato dalla denuncia dell’interessato. Dalla cronaca della vicenda si sarebbe tratta la convinzione che solo parlando di vicende simili si assicura la possibilità che i responsabili vengano puniti ed in quest’ottica il nome di chi ha avuto il coraggio di rompere il muro d’omertà sarebbe stato essenziale, poichè diversamente si sarebbe potuto "pensare al caso emblematico, al limite inventato, per suffragare una rispettabile opinione". Si lamenta, poi, che la Corte territoriale, per suffragare la sua tesi dell’esclusione della qualificazione come cronaca giudiziaria, avrebbe richiamato solo alcuni passi dell’articolo del tutto inconferenti ed avrebbe omesso altri idonei a suffragare quella dei ricorrenti. Sarebbe certo, invece, che la ANDREOLI nell’articolo avrebbe riportato testualmente alcuni passi degli atti giudiziari seguiti alla denuncia del Bo., come emergerebbe già dall’occhiello con l’espressione "quattro militari sotto processo" ...."Ecco i verbali". Quest’ultima espressione lascerebbe chiaramente intendere che non si trattava di intervista al Bo., ma del contenuto di verbali trasposto nell’articolo. La Corte territoriale avrebbe, dunque, errato o non sarebbe stata leale nell’affermare che la struttura dell’articolo sarebbe stata piuttosto quella di una dichiarazione resa dalla parte offesa, quasi si fosse trattato di un’intervista ed il contesto fosse stato quello di un servizio di attualità. Viceversa, proprio perchè dall’incipit dell’articolo si evinceva che trattavasi di cronaca giudiziaria sarebbero prive di pregio le considerazioni in base alle quali la Corte, nel bilanciamento di interessi ha ritenuto soccombesse il diritto all’informazione, venendo, invece, in rilievo il solo limite della verità del fatto, peraltro rispettato in quanto la ANDREOLI avrebbe riportato brani dei verbali e non considerazioni proprie. Per tali ragioni si conclude affermando che la motivazione dell’impugnata sentenza non sarebbe idonea a sorreggere l’accusa. Con il terzo motivo si lamenta "violazione dell’art. 92 cod. proc. civ.", sotto il profilo che si sarebbe fatta applicazione del criterio della soccombenza, mentre la complessità delle questioni esaminate e la non manifesta infondatezza delle doglianze proposte dai ricorrenti, ben avrebbero potuto integrare i giusti motivi per una compensazione delle spese.

2. Il primo motivo è privo di fondamento. Le lunghe considerazioni con le quali viene articolato non appaiono in alcun modo idonee ad integrare la prospettazione della denunciata violazione di legge in relazione alla decisione impugnata. In particolare: a) le considerazioni svolte nelle pagine dalla sesta alla ottava circa l’avere la Corte territoriale considerato come regola il divieto di pubblicazione dei dati di soggetti coinvolti in fatti di cronaca lesivi della dignità dei soggetti coinvolti e come eccezione la pubblicabilità di tali dati ed il prospettato rovesciamento del rapporto fra questi due termini costituiscono una critica meramente astratta alla sentenza impugnata, alla quale non si fa seguire in alcun modo la spiegazione del modo in cui la sentenza impugnata sarebbe incorsa in questa pretesa violazione di legge nel decidere il caso di specie, sicchè per questa parte si è in presenza di un non- motivo di impugnazione, atteso che, in generale, il motivo d’impugnazione è rappresentato dall’enunciazione, secondo lo schema normativo con cui il mezzo è regolato dal legislatore, della o delle ragioni per le quali, secondo chi esercita il diritto d’impugnazione, la decisione è erronea, con la conseguenza che, in quanto per denunciare un errore bisogna identificarlo e, quindi, fornirne la rappresentazione, l’esercizio del diritto d’impugnazione di una decisione giudiziale può considerarsi avvenuto in modo idoneo soltanto qualora i motivi con i quali è esplicato si concretino in una critica della decisione impugnata e, quindi, nell’esplicita e specifica indicazione delle ragioni per cui essa è errata, le quali, per essere enunciate come tali, debbono concretamente considerare le ragioni che la sorreggono e da esse non possono prescindere, dovendosi, dunque, il motivo che non rispetti tale requisito considerarsi nullo per inidoneità al raggiungimento dello scopo. In riferimento al ricorso per Cassazione tale nullità, risolvendosi nella proposizione di un "non motivo", è espressamente sanzionata con l’inammissibilità ai sensi dell’art. 366 cod. proc. civ., n. 4 (Cass. n. 359 del 2005); b) il proposto rovesciamento del rapporto fra i due termini è, del resto, del tutto ingiustificato al lume del chiaro dettato della norma del codice deontologica invocata, la quale è chiaramente espressa con una formulazione che potrebbe essere enunciata, secondo la logica propria della norma impositiva di un comando o di un divieto o permissiva di un comportamento, nel senso che "v’è fatto divieto al giornalista di fornire notizie o pubblicare immagini o fotografie di soggetti coinvolti in fatti di cronaca lesive della dignità delle persone, salvo che si tratti di informazioni essenziali"; c) la norma deontologica del citato art. 8, dunque, pone in primo luogo un divieto quando le notizie, le immagini o le fotografie dei soggetti coinvolti in un fatto di cronaca siano lesive della loro dignità e solo in via di deroga ne consente il superamento, onde l’assunto dei ricorrenti - al di là della sua non caratterizzazione come denuncia di una violazione di norma sostanziale con efficacia causativa del tenore della decisione impugnata - è privo di fondamento, dovendosi l’astratta affermazione della sentenza impugnata di cui si duole il motivo ritenere pienamente fondata; d) a metà della pagina ottava e fino alla chiusura della esposizione del motivo vengono invece esposte considerazioni che astrattamente potrebbero integrare l’enunciazione della violazione di legge denunciata, ma esse vengono articolate sulla base di due presupposti che la sentenza ha negato e che nell’esposizione del motivo in esame non ci si preoccupa di dimostrare esistenti, l’uno essendo rappresentato dalla circostanza che nella specie si sarebbe trattato di cronaca giudiziaria e l’altro dal fatto che, a seguito della denuncia presentata dal militare coinvolto, il procedimento penale aveva già superato la fase delle indagini preliminari ed era sottoposto "alla prima valutazione del giudice di merito"; e) poiché la sentenza impugnata ha sostanzialmente escluso che si trattasse di cronaca giudiziaria (come emerge chiaramente dalle affermazioni alla pagina 8), l’enunciazione della violazione di legge sulla base del presupposto opposto, avrebbe implicato necessariamente il previo superamento dell’affermazione della sentenza, della quale, invece, il motivo in esame non si preoccupa, tant’è che se ne occupa - come si seguito si vedrà - il secondo; f) quand’anche si interpretasse la sentenza impugnata nel senso che si sia soltanto limitata a dubitare che nella specie ricorreva un caso di cronaca giudiziaria (come potrebbe trasparire dall’uso dell’espressione "ben difficilmente"), in ogni caso i ricorrenti avrebbero dovuto superare tale dubbio, che, per essere tale si è concretato - per la "contraddizione che non consente" - in un non convincimento e, quindi, nell’esclusione della ricorrenza di una cronaca giudiziaria; g) quando pure non sussistesse la segnalata inidoneità del motivo per non essersi fatto carico del presupposto dell’essere ricorso un caso di cronaca giudiziaria, resterebbe, ad evidenziare la sua inidoneità a rappresentare la dedotta violazione di legge, l’altro profilo, inerente l’affermazione che era stata superata la fase delle indagini preliminari: la sentenza impugnata ha, infatti, chiaramente affermato (pagina 8) che il procedimento era ancora alla fase preliminare e che anzi ciò l’articolo non avrebbe chiarito.

In forza di tali considerazioni il motivo dev’essere ritenuto, nella parte ora considerata, del tutto inidoneo a prospettare la denunciata violazione di legge, in quanto essa è basata su presupposti di fatto negati dalla sentenza impugnata. Nè il motivo potrebbe acquisire idoneità ove, rovesciando l’ordine di proposizione prescelto dai ricorrenti, si esaminasse prima il secondo motivo, che involge una critica alla sentenza proprio sotto l’aspetto della ritenuta insussistenza di una cronaca giudiziaria. Intanto, resterebbe fermo il rilievo di inidoneità fondato sullo stato del procedimento penale e, in ogni caso, il secondo motivo è inammissibile, come si passa a spiegare. Il secondo motivo, infatti, là dove vorrebbe dimostrare che il contenuto dell’articolo integrò cronaca giudiziaria è palesemente inosservante del requisito dell’autosufficienza dell’esposizione del motivo di ricorso per Cassazione. Infatti, il motivo si limita ad enunciare che nell’articolo sarebbero stati riportati testualmente alcuni passi dagli atti giudiziari seguiti alla denuncia del Bo., ma non li riporta ed indica soltanto che l’occhiello dell’articolo, di cui riporta l’intestazione, lo evidenziava, sostenendo che essa avrebbe rivelato che non si trattava di un’intervista, ma del contenuto dei verbali. In tal modo la Corte non è messa in grado di conoscere questo contenuto e dovrebbe automaticamente credere all’affermazione dei ricorrenti per relationem, senza poterne controllare (una volta, in ipotesi, ritenuta sussistente una idonea censura dell’art. 360 cod. proc. civ., ex n. 5, cioè un vizio motivazionale su un punto decisivo della controversia) la verità, prendendo eventualmente cognizione negli atti di causa del documento, che si assume mal valutato dalla sentenza di merito. Quanto appena osservato è sufficiente ad evidenziare che il secondo motivo per la parte ora detta è inidoneo a sorreggere l’impugnazione, in ragione dell’inosservanza del requisito dell’autosufficienza. Tale inidoneità rende infondato il motivo per la parte nella quale si censura la sentenza impugnata in ordine alla valutazione con la quale ha ritenuto che si sarebbero potuto omettere le generalità dell’aviere. Questo profilo del motivo è prospettato prima di quello carente di autosufficienza, ma, in realtà, è da esso dipendente, in quanto la (pretesa) essenzialità dell’indicazione delle generalità è fatta discendere dalla circostanza che si sarebbe trattato di cronaca giudiziaria Onde, una volta ritenuta l’inidoneità del motivo nella parte che dovrebbe evidenziare che si trattava di cronaca giudiziaria, appare di tutta evidenza che la parte del motivo di cui si discorre vede venir meno quello che era il suo presupposto. 4. Anche il terzo motivo è infondato, una volta considerato il principio di diritto, recentemente ribadito dalle SS.UU. di questa Corte ed al quale il Collegio presta ossequio, secondo cui in tema di spese processuali, la facoltà di disporne la compensazione tra le parti rientra nel potere discrezionale del giudice di merito, il quale non è tenuto a dare ragione con una espressa motivazione del mancato uso di tale sua facoltà, con la conseguenza che la pronuncia di condanna alle spese, anche se adottata senza prendere in esame l’eventualità di una compensazione, non può essere censurata in cassazione, neppure sotto il profilo della mancanza di motivazione (Cass. sez. un. n. 14989 del 2005).

5. Il ricorso è, conclusivamente, rigettato.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna i ricorrenti solidalmente alla rifusione al Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in euro cinquemilacento, di cui cento per spese, oltre accessori di legge e spese generali.

Condanna i ricorrenti solidalmente alla rifusione al Consiglio Regionale dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in euro seimilacento, di cui cento per spese, oltre accessori di legge e spese generali. Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile, il 13 febbraio 2006. Depositato in Cancelleria il 31 marzo 2006


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