L’amore debole vincerà
Ma chi l’ha detto che l’unica coppia legittima è quella che riproduce la vita umana? E che il mondo ha un suo ordine eterno? Cristo la pensava diversamente. Un grande filosofo contesta il papa.
di Gianni Vattimo (L’espresso, 8 giugno 2006)
Quando sembrava che il papa si fosse stancato di mulinare le sue armi contro i “relativisti”, comincia la campagna contro l’amore “debole”. Del relativismo ci stiamo felicemente dimenticando, con l’uscita di scena - parziale, e temiamo provvisoria - del senatore Pera. Il cui magistero filosofico-politico non è riuscito a cogliere, e a spiegare al suo illustre coautore, l’impossibilità logica della esistenza reale di un relativista; cioè di qualcuno che mentre dice una cosa affermi insieme che qualunque altra, contraddittoria con la prima, ha lo stesso valore di verità.
La questione dell’amore debole, sfortunatamente, non è riducibile e liquidabile con una elementare precisazione del senso delle parole. Qui siamo già più vicini al piano, pericoloso, dei contenuti. L’amore non riproduttivo è debole, sembra di capire, perché non frutta in termini di nuove vite messe al mondo. Preti, suore, religiosi con il voto di castità (ed eventuali parroci e vescovi pedofili) sono ovviamente esonerati da quest’obbligo di aiutare la vita a proseguire).
Non parliamo poi di Gesù stesso, che non solo nacque da una vergine (qui il massimo di “forza”: riproduzione senza amore, neanche quello forte che il papa privilegia), ma che non poté di sicuro mai essere sfiorato dall’idea di lasciare una discendenza (vade retro Dan Brown). Ma di dove mai, da quali pagine della Scrittura, trae la gerarchia cattolica questa frenetica volontà di sovrappopolare la povera terra, in via di esaurimento almeno fino a quando non si troveranno nuove fonti di energia e nuovi “spazi vitali”? Se c’è un segno di decadenza visibile nella Chiesa cattolica oggi è questa ripetitiva predicazione del valore della vita, qualunque essa sia , purché in grado di vegetare e di dar luogo a riproduzione.
Come se la creazione divina dell’uomo e della donna fosse principalmente un modo per non lasciare sfitta questa parte dell’universo. Non si può non ripensare a Pavese e alla pagina del suo diario: “Ha trovato uno scopo ideale nei suoi figli. E questi? Nei loro figli Ma a chi serve tutta questa fottitura generale?” Salveremo la civiltà cristiana garantendoci la superiorità numerica sui perfidi musulmani e gli orridi atei? Anche per la Chiesa il numero è potenza?
Ma perché allora non dovremmo “fortificare” i nostri amori con l’aiuto delle macchine, con la clonazione, magari sorvegliata da commissioni di chierici per garantire la qualità del (ri)prodotto? L’amore dei papi (e dei dittatori) per i bambini, il mito della famiglia numerosa, non saranno proprio il desolante segno di una vecchiaia che, essendosi vietate le gioie del sesso e della famiglia, se ne fa una sorta di immagine ossessiva? Quando il papa condanna l’amore debole e raccomanda quello forte e “fecondo” non starà facendo qualcosa di simile al Gustav von Aschenbach che a Venezia, morente di peste, si imbelletta per somigliare al suo Tadzio?
Si è osservato spesso che, dopo la domanda di perdono a eretici, scismatici, scienziati già perseguitati e scomunicati, la Chiesa non ha più nemici se non gli omosessuali. Il che certo si spiega con la necessità di combattere un vizio (per loro è tale) “interno” a seminari, conventi, parrocchie e vescovadi, Roma compresa. Ma una simile spiegazione non basta, vi si potrebbe persino leggere un segno di vitalità e di rinnovata volontà di riforma. Macché. Sembra molto più probabile che il culto della riproduzione sia un terribile segno di invecchiamento, come ripiegare su ciò che appare più naturale quando si è persa ogni speranza nella capacità di sopravvivere in nome di valori, di un progetto di vita capace di affascinare e suscitare impegno. Aristotele pensava che la riproduzione fosse il modo in cui l’umanità può imitare l’eternità dei cieli. Da buon pagano, però. Ma che ha da fare il Dio della Bibbia , e soprattutto quello del Nuovo Testamento, con questo biologismo naturalistico?
Non si tratta, qui, nemmeno del difendere la “natura” dalle minacce di distruzione che scienza e tecnica moderne, con il loro spirito faustiano , rappresentano per essa. Voler salvare e preservare l’ambiente perché possa ancora permettere la vita - non solo quella dei microrganismi e degli scarafaggi che, ci si dice, sopravvivranno anche dopo la nostra scomparsa - comporta ancora sempre un progetto. Ma quando proprio la riproduzione umana benedetta dal pensiero forte del papa è la massima minaccia all’ambiente planetario, la contraddizione diventa troppo palese perché la si possa ignorare.
E poi: l’opposizione tra forte e debole, con la preferenza per il primo termine, non sarà un segno (il Papa ripensi a Nietzsche...) che si sta abbracciando un insieme di valori “umani troppo umani”? In che cosa consiste la novità del cristianesimo se non nel rovesciamento di queste gerarchie? Il volto di Gesù sofferente serve solo per le parate doloriste del venerdì santo? Il Lutero che va a Roma e ne torna scandalizzato dal lusso e dalla lussuria imperanti nel centro della cristianità ormai non farebbe più notizia. E’ stato solo un uomo di poca fede, non ha resistito allo scandalo, mentre invece proprio questa è la prova che un buon credente deve saper superare. Sempre di nuovo “credo quia absurdum”?
E ancora: sarà pur vero che i gay che si sentono maltrattati dalla Chiesa oppositrice dei Pacs sono quattro gatti, prima o poi si quieteranno. Ma la questione omosessuale, che proprio il papa non fa che mettere sempre di nuovo al centro della sua predicazione, ha un senso molto più essenziale. Non per niente implica anche la messa in discussione di tutta la politica maschilista e sessuofobica che ha dominato la Chiesa specialmente nella modernità. Maschilismo e sessuofobia sono tratti non originalmente cristiani, che però si sono incrostati sul suo corpo come la donazione di Costantino. Lo scandalo, anche quello che ha svegliato Lutero, è la vera e propria “secolarizzazione” del Vangelo, nel senso peggiore della parola; l’assimilazione e consacrazione della pseudo-verità di un mondo che Cristo era venuto a cambiare. La questione omosessuale, dunque, è così drammatica nella Chiesa perché - in questo papi e vescovi hanno ragione - minaccia le stesse basi dell’insegnamento cattolico, della metafisica che esso presuppone e che non vuole mettere in discussione.
Ma sempre più, e agli occhi di sempre più numerosi credenti, anche seriamente impegnati, questa metafisica (Dio crea il mondo assegnando a ogni cosa una essenza che deve essere riconosciuta teoricamente e “osservata” praticamente: la teoria aristotelica dei “luoghi naturali”) appare una manifesta duplicazione ideologica delle cose “come sono” (o si crede, e si vuole, che siano). C’è la guerra? Devi andarci, sii uomo, sii un buon italiano... Ma perché devo essere tutto ciò? Perché lo sei. Bella risposta, se lo sono non devo sforzarmi di esserlo...E alla base di tutto, l’idea (tipica di chi comanda, dei vincitori: si ricordi Walter Benjamin) che il mondo com’è è “in ordine”, (Dio guarda la sua creazione e vede che le cose sono “valde bona”), va solo rispettato e conservato così.
Di qui anche la disinvolta ermeneutica che il Papa applica alla storia della creazione di uomo e donna. Sono fatti per essere una sola carne (già, perché invece l’amore omosessuale non “prevede” anche questo? Lo sapeva già Platone...), e dunque solo il loro amore è legittimo. Come dimostra il fatto che dà origine a nuova vita - verrebbe da dire, come tante forme di putrefazione da cui nascono quei vermi che, evolvendo evolvendo, popoleranno la terra del dopo disastro atomico. Ma non proseguiamo su questa via fantabiologica. L’altra, quella esplicita nella predicazione papale, si sviluppa così: l’amore forte del matrimonio è anche quello che garantisce ai figli di crescere in una famiglia, dove non può mancare un padre perché è quello che assicura l’educazione all’autorità e perpetua il meccanismo edipico (ricordate la “fabbrica della follia”? Non sarà ora di rileggerlo?). Per esercitare il suo ruolo, la famiglia ha bisogno di essere indissolubile, anche se piano piano la stessa Chiesa si è abituata al divorzio, purché i due che si separano siano rigorosamente maschio e femmina e sposati in parrocchia. E il povero Platone che aveva persino immaginato che i figli crescessero affidati alla comunità, sviluppando magari altre nevrosi ma non quelle dello “sporco piccolo segreto” di cui parlava Deleuze? E’ vero che i cristiani primitivi avevano tutto in comune, e in quell’orizzonte si potevano anche immaginare famiglie meno chiuse e “proprietarie”. Ma, “com’è naturale” (più o meno così la vede l’Enciclica sul Deus caritas), le forme del comunismo primitivo scomparvero presto.
Naturale? Sì, come tutto quello che la Chiesa ha trovato e trova nell’ordine terreno e che consacra e benedice senza batter ciglio (dalle guerre giuste alla pena di morte alle dittature sudamericane...) purché le siano assicurati “i mezzi per la sua missione”. Sembra un quadro troppo complicato per spiegare la “naturale” ripugnanza delle gerarchie ecclesiastiche nei confronti della (accettazione teorica della) omosessualità.
I gay hanno forse esagerato nel considerare la propria condizione come una vocazione profetica, sentendosi minoranza capace di suscitare (certo insieme a tanti altri esclusi ed escluse) una trasformazione. Ma con l’aiuto provvidenziale di queste gerarchie romane non si potrà sperare che si ripeta, in modo rovesciato, il miracolo di Sodoma, e cioè che il sassolino della ignobile minoranza gay diventi una valanga tale da travolgere, almeno in buona parte, la sacrilega istituzione?
Gianni Vattimo
Nei suoi sogni gay c’era Amsterdam, ora rimpiange l’America puritana
La storia autobiografica che l’americano Bruce Bawer, ex redattore di The New Criterion, racconta nel suo ultimo libro “While Europe Slept: How Radical Islam is Destroying the West from Within”, appena pubblicato dalla Doubleday, è quella di uno scrittore omosessuale che nel 1998 decide di trasferirsi definitivamente ad Amsterdam insieme al suo partner per sottrarsi alla “cappa opprimente” del fondamentalismo protestante americano: “Amavo il mio paese, ma desideravo andarmene per lasciarmi alle spalle l’idiozia, l’intolleranza e il puritanesimo. Sentivo di appartenere sempre più all’Europa”.
Ben presto però la realtà europea si rivela diversa da come sperava. La società olandese subisce sotto i suoi occhi un rapido mutamento, e invece di approdare nel paradiso della secolarizzazione e del libertinismo, si ritrova a convivere con un altro genere, ben più temibile, di integralismo: quello islamico.
Con onestà intellettuale, Bawer oggi riconosce che gli evangelici cristiani dai quali era fuggito, e che aveva duramente criticato nel suo libro precedente (“Stealing Jesus: How Fundamentalism Betrays Christianity”, Three Rivers Press, 1998), non sono neanche lontanamente paragonabili ai fondamentalisti islamici che, indisturbati, “stanno distruggendo l’occidente dall’interno”: “L’Europa sta cadendo preda di un fondamentalismo ancora più allarmante, al cui confronto i protestanti americani fanno la figura dei dilettanti. Come gay non posso chiudere gli occhi davanti a questa dura realtà. Pat Robertson vuole negarmi il matrimonio, ma gli imam vorrebbero lapidarmi. Non mi ha mai entusiasmato l’ipocrita posizione cristianoconservatrice di odiare il peccato e amare il peccatore, ma è di gran lunga preferibile alla concezione fondamentalista musulmana secondo cui gli omosessuali meritano la morte”.
Bawer rafforza le sue osservazioni riportando una serie di dati che testimoniano lo stadio avanzato della trasformazione dell’Europa in Eurabia. Oggi nei paesi dell’Europa occidentale la presenza musulmana varia dal 2 al 10 per cento della popolazione. Questi numeri, osserva Bawer, rappresentano però solo la punta di un iceberg demografico in via di rapida emersione, dato che la percentuale dei bambini musulmani raggiunge già una media del 16-20 per cento. I calcoli dimostrano che, se questi trend continuano, fra un paio di generazioni gli islamici potrebbero costituire la maggioranza degli abitanti del vecchio continente. I leader delle comunità islamiche ne sono consapevoli, come testimoniano le trionfali parole pronunciate da un imam danese nel 2000: “In Danimarca il sogno dei musulmani di vivere in una società islamica si realizzerà, perché diventeremo sicuramente la maggioranza”.
La legge islamica, di fatto, è già una realtà nelle “colonie” della diaspora islamica sparse per l’Europa, che spesso rivendicano una propria sovranità territoriale: in Francia un imam ha dichiarato che il distretto musulmano di Roubaix è territorio islamico, e che le autorità francesi non hanno diritto di accesso; i musulmani che vivono nel quartiere Sint-Jans-Moleenbeek di Bruxelles si considerano appartenenti a una giurisdizione autonoma, all’interno della quale la presenza di cittadini belgi non è gradita; in Gran Bretagna i capi islamici stanno facendo pressioni sul governo perché in alcune aree ad alta densità islamica sia introdotta la sharia al posto della common law, non solo per i musulmani ma per tutti i residenti; in Danimarca i leader musulmani stanno cercando di ottenere lo stesso tipo di controllo su parti di Copenaghen.
Bawer sottolinea inoltre l’abituale abuso dei benefici del welfare state da parte delle comunità musulmane. I musulmani danesi, ad esempio, pur essendo il 5 per cento della popolazione ricevono il 40 per cento dei sussidi pubblici. Perdipiù gli assistenti sociali vengono spesso tiranneggiati e intimiditi dai musulmani, che in questo modo sanno di poter ottenere quello che vogliono. Gli imam della Norvegia giustificano ideologicamente questo parassitismo estorsivo equiparandolo all’esazione della jizya, la tassa che tutti gli infedeli devono pagare ai musulmani: come se gli europei fossero già dhimmi, cittadini di seconda classe, in casa propria.
Nella parte finale del libro Bawer osserva che perfino le stragi di New York e di Madrid non sono state in grado di smuovere gli europei dalla rassegnata e autodistruttiva capitolazione di fronte all’islam. Non solo non si vedono segni d’europeizzazione dell’islam (il mitico euro-islam sognato da schiere di intellettuali e politici europei rimane ancora una chimera) ma, al contrario, alcuni segnali sembrano indicare una crescita dell’influenza culturale islamica nel vecchio continente, come la radicalizzazione dell’antiebraismo e antiamericanismo, la cancellazione dei riferimenti alla tradizione giudaico-cristiana, la denigrazione dell’intera storia europea. Per molti intellettuali progressisti il passato islamico, idealizzato in maniera romantica, è diventato un sostituto delle radici occidentali e cristiane che hanno da tempo rigettato.
Bruce Bawer racconta dunque una realtà preoccupante, che nei prossimi decenni potrebbe portare l’Europa alla libanizzazione o alla completa islamizzazione. Preferisce però non affrontare un interrogativo cruciale: l’estinzione non è forse il destino più frequente delle civiltà libertine, edoniste, relativiste e secolarizzate che egli difende ? Se si vuole salvare l’identità europea, forse ci sono altri valori per cui vale la pena di lottare.
Tratto da: IL FOGLIO del 22 marzo 2006, Guglielmo Piombini