Non c’è dubbio. In un baleno, deciso all’istante. Senza esitazioni o divisioni. San Giovanni in Fiore ha concesso all’unanimità la cittadinanza onoraria al telecronista cinese passato alla storia per la sua partigianeria verso l’Italia. La nazionale di calcio è il nostro più grande patrimonio: viene ancor prima del Colosseo, di Dante e della Carta Costituzionale. "Il calcio, scriveva il compianto Morrone in una sua lirica, est le roi", illuministicamente illuminandoci sulle implicazioni del giuoco, non solo sul piano agonistico-politico ma anche su quello epistemologico ed esistenziale. Purtroppo, le sue intuizioni rimangono incompiute. Ma la questione, ora, è altra. Con la riferita decisione, immediata, secca, subitanea, San Giovanni in Fiore s’è garantita un posto presso i posteri e, col poster della nazionale nella stanza del sindaco, assieme a quello dell’ormai italico commentatore televisivo, fa bella mostra della sua "logica delle anticipazioni", direbbe l’amico Santiago Zabala. Un plauso vivissimo al coriaceo e supersinaptico Federico La Sala, per la sua felicissima trovata, certo, però, anticipata dalla città di Gioacchino per l’intervento d’un tecnico comunale.
Nino Zappone
nel pallone
La nuova italianità vista da un mondo a parte
Veniamo percepiti come casinisti geniali, al fondo inoffensivi, ammirati ma non proprio stimati, però simpatici, vicini a tutti i Sud del mondo Sono i maxischermi i nuovi luoghi in cui si proietta la memoria collettiva, specialmente quelli che sono ripresi dalle televisioni prima e dopo la partita Abbiamo assistito a una duplice disfatta in quindici giorni della Lega Nord, sconfitta il 25 giugno sul piano sostanziale e il 9 luglio sul terreno simbolico
di Gianpasquale Santomassimo (il manifesto, 16.07.2006)
A distanza di una settimana siamo tutti molto contenti per la vittoria dell’Italia ai Mondiali, anche se non tutti siamo entusiasti per la qualità del gioco espresso. Nel 1982 fu molto diverso, anche da questo punto di vista, con la innegabile distanza che corre tra un Paolo Rossi e un Materazzi come goleador e hombre del partido. Sfumeranno col tempo tutti i dettagli, ma qualcosa resterà nella memoria collettiva: non solo il rigore di Grosso e la testata di Zidane, ma soprattutto la cornice che ha accompagnato e seguito l’evento. Perché ci siamo trovati di fronte alla manifestazione di patriottismo elementare più intensa nella storia della repubblica. Una partecipazione voluta, cercata, unitaria. Milioni di italiani (e di italiane) hanno voluto riversarsi nelle piazze e nelle strade, dove non si erano mai visti a memoria d’uomo (repubblicano) tanti tricolori. Nella storia nazionale si erano forse visti così numerosi e onnipresenti solo per la conquista dell’Etiopia e, per le zone interessate, in occasione della traslazione della salma del Milite Ignoto. Rispetto alla vittoria del 1982 ciò che ha fatto la differenza è stata la preparazione e l’attesa, l’organizzazione capillare, l’intervento delle istituzioni (maxischermi anche nelle piazze dei piccoli centri, sostitutivi del televisore nel bar di paese dove molti italiani in ferie avevano visto i mondiali precedenti), ma anche e soprattutto la scelta deliberata dei cittadini che hanno cominciato a esporre tricolori dopo le prime vittorie della squadra italiana.
Abbiamo visto cortei massicci perfino dopo la vittoria fortunosa sull’Australia, dilaganti dopo la semifinale con la Germania (la vera finale, dal punto di vista sportivo e simbolico) e già dal pomeriggio di domenica 9 luglio si vedevano girare per le strade automobili in piccoli cortei col tricolore al finestrino oppure motociclisti solitari con la bandiera. Questa forma corale di coinvolgimento «patriottico» applicata al calcio, che qualcuno si è spinto a definire grande religione popolare del mondo moderno - competitiva ma pacifica e non guerresca - non è stata solo degli italiani.
I francesi si sa come sono fatti, ma anche portoghesi inglesi olandesi e spagnoli hanno festeggiato le loro vittorie con la stessa partecipazione; e soprattutto la rinascita di un patriottismo mite dei tedeschi, che stempera e lascia alle spalle i sensi di colpa, e che è fatto anche di sportività e saper perdere, è stata segnalata da molti osservatori come la grande novità dell’estate 2006.
Una voglia di esserci, di testimoniare appartenenza, che nel nostro paese ha spinto oltre un milione di cittadini tra l’aeroporto di Pratica di Mare e le strade del centro di Roma fino alla bolgia del Circo Massimo, ma anche nelle altre città d’Italia davanti agli schermi giganti che trasmettevano l’evento. E proprio i maxischermi sono divenuti i nuovi luoghi simbolici della memoria collettiva, in particolare quelli che sono abitualmente ripresi dalle televisioni prima e dopo la partita. Intervistati in Piazza del Duomo a Milano gruppi di tifosi dicevano: siamo venuti apposta dalla Calabria. Una voglia di partecipare, riconoscersi in qualcosa, esultare malgrado tutto quando in tutti gli altri campi c’è ben poco da far festa.
Di fronte a questo sarebbe sbagliato iterare i sermoni che i giornalisti proponevano in altre occasioni, ai pastori sardi per lo scudetto del Cagliari di Gigi Riva, ai disoccupati napoletani che festeggiavano il Napoli di Maradona, invitando a riflettere sui gravi problemi della loro condizione, e per sentirsi rispondere giustamente che i problemi c’erano e rimanevano ma che almeno c’era una ragione di esultanza.
C’è stato un abuso di bandiere tricolori? Disturbano la suscettibilità dei giornalisti di sinistra? Fanno fascista? E perché mai? Molti tricolori in realtà si vedono appesi nuovi fiammanti su tanti balconi accanto a bandiere della pace logore e consunte dallo smog, che stanno lì da tre anni e non sono mai state tolte. E del resto va ricordato che proprio la nostra generazione, non sospettabile di culto nazionalistico della patria, ha inventato queste forme di esultanza nel 1970, alle tre di notte di Italia-Germania 4-3, in maniera del tutto spontanea e senza precedenti che muovessero a imitazione. Proprio quella vittoria, da parte di quella che rimane nella memoria la vera squadra azzurra, che sublimava perfettamente i canoni del gioco all’italiana, ha riconciliato con i simboli del tifo nazionale una generazione «disfattista» che aveva in parte tifato Corea nei mondiali precedenti.
Se assumiamo il calcio come metafora di qualcos’altro (ma lo fanno tutti ormai, soprattutto in un paese dove il maggiore partito ha usurpato l’incitamento dei tifosi alla nazionale, costringendo metà degli italiani a tortuose circonlocuzioni per dire Forza Italia) possiamo anche dire che abbiamo assistito alla seconda disfatta in quindici giorni della Lega Nord, sconfitta il 25 giugno sul piano sostanziale e il 9 luglio sul terreno simbolico. E nell’immaginario di una parte dell’elettorato di destra si è anche fatto strada il sospetto, che in quella particolare cultura vale più di un argomento critico, che a parità di situazione (come nel ’94 nazionale in finale e soluzione ai rigori) ci sia un presidente del consiglio che porta sfiga e un altro che porta fortuna.
Nella strumentalizzazione inevitabile da parte delle autorità di governo (ma proviamo a immaginare cosa sarebbe successo con Berlusconi a Palazzo Chigi) credo sia stato giusto sottolineare, come ha fatto Prodi, l’importanza dell’unità, della coesione e del gioco di squadra, rivolgendosi a un paese che probabilmente esprime con queste manifestazioni anche la stanchezza per una guerra civile fredda, quotidiana e permanente, che Berlusconi ha imposto dal ’94 come cifra del cosiddetto bipolarismo italiano. Apparentemente è stato il trionfo anche delle forme rinnovate di un nuovo «patriottismo» italiano. Oltre allo sventolio dei tricolori, abbiamo avuto sempre la citazione dell’inno di Mameli, non più «provvisorio» a norma di Costituzione ma acquisito ex lege in maniera definitiva come inno nazionale.
Sembrerebbe compiuto quel percorso, fortemente voluto da Carlo Azeglio Ciampi e Aldo Biscardi, per rendere obbligatorio il canto di un inno a cui si addice in realtà l’ascolto raccolto e pensoso. Se guardiamo da vicino a questa nuova forma di impulso patriottico dell’Italia quadricampeon ci accorgeremo però che da parte di tutti si ripete all’infinito la prima strofa, con molte licenze interpretative sullo stringiamci a coorte, e nessuno per fortuna si avventura fino al son giunchi che piegano le spade vendute, già l’aquila d’Austria le penne ha perdute e alle divagazioni vampiresche sul sangue cosacco e sangue polacco che bevuti bruciano il cuore dell’odiato pennuto. Un compromesso di buon senso, dove la buona volontà del patriota si rifugia infine nel parapà e poropò come del resto si è sempre fatto. Ma questa vittoria sportiva spinge anche a chiedersi quale sia il volto che l’Italia e gli italiani proiettano attraverso una contesa che forse vale davvero un punto di Pil, come assicurano gli esperti, in termini di immagine. I festeggiamenti ufficiali dell’organizzazione berlinese hanno mescolato marcia trionfale dell’Aida, We are the champions, Fratelli d’Italia, Funiculì funiculà, e in maniera irrevocabile e definitiva l’Italiano di Toto Cotugno (nei paesi dell’est si rimaneva interdetti quando ci dicevano amo l’Italia è il paese di Toto Cotugno e di Al Bano e Romina e nei juke-box si sentiva il nostro vero inno, che eravamo riusciti a scansare in Italia, e che parlava di spaghetti al dente, un partigiano come presidente, autoradio nella mano destra, buongiorno Italia buongiorno Maria). A Berlino mancava solo That’s Ammore e la luna like a big pizza-pie.
È questa l’italianità? Bisogna rassegnarsi al fatto che questa è comunque la forma in cui viene percepita. E che sembra essere ritenuta molto gradevole e accattivante. L’Italia è dopo il Brasile la squadra più amata nel mondo. Nei paesi arabi, e perfino in Cina, si fanno caroselli per le nostre vittorie. I palestinesi tifano per noi negli intervalli del coprifuoco e della sospensione dell’elettricità che gli israeliani gli concedono. Gli albanesi sbarcavano in Puglia con la maglia del Milan, i sequestratori di Giuliana Sgrena avevano la maglia di Totti e seguivano il nostro campionato.
Il calcio è un mondo a parte con gerarchie sue proprie, ma radicate e razionali pur nella imprevedibilità. Dove l’Argentina può essere al vertice e gli Stati Uniti una imbarazzante nullità (e l’estraneità yankee alla passione più diffusa nel mondo dice qualcosa anche sulla alienità degli statunitensi rispetto al mondo più vasto), e dove in Europa possono primeggiare con merito la Grecia e la Danimarca. Le reazioni di stampa e televisione di tutto il mondo, in genere ammirate al di là del merito per la nostra vittoria, dicono molto sulla nostra immagine così come sembra essersi definitivamente compiuta e stabilizzata. Veniamo percepiti come casinisti geniali, al fondo inoffensivi, ammirati ma non proprio stimati, però simpatici a tutti, vicini a tutti i Sud del mondo. Via satellite siamo percepiti (da una platea di due miliardi di spettatori) come persone di cui si ammira lo «stile di vita» e la capacità di far fronte alle situazioni più difficili: qualcosa che, inutile negarlo, assomiglia molto a quell’arte di «arrangiarsi» deprecata e deprecabile in tutto il nostro cammino unitario, limite culturale nelle situazioni «normali», risorsa a cui attingere in quelle eccezionali.
Del resto non possiamo nasconderci il fatto che la nostra immagine è ormai affidata essenzialmente a calcio e cucina. A cui si aggiunge forse qualche straccetto made in Ceylon con la firma di qualche sarto milanese. Ma non ci sono più le automobili e i frigoriferi, le radio e i televisori dal grande design, non esistono più le macchine da scrivere. Non più la cultura, non il grande cinema d’autore né il cinema commerciale, i romanzi da tradurre, né la musica popolare, mentre della musica colta rimane solo il lascito di due secoli fa. Lo stesso calcio a cui affidiamo la nostra immagine è un calcio corrotto e malato, che andrebbe rifondato alla radice.
Per Marcello Lippi è stata evocata l’immagine dell’eroe western che si allontana all’orizzonte a missione compiuta, ma ricordava soprattutto Lee Marvin della Sporca dozzina, il sergente di ferro versato, però, nella psicologia che riesce a motivare una masnada di psicopatici trasformandoli in un gruppo d’assalto. Che tuttavia si dissolve dopo il fischio finale, volgendo in pochi istanti dalla disciplina di gruppo alla esuberanza di tamarri tatuati, che più che festeggiare fanno casino in campo. Anche questa può essere una metafora dell’Italia di oggi, nel bene e nel male, e anche qui siamo molto lontani dall’esultanza composta e quasi ieratica di Zoff e Scirea.
Nel 1982 la nazionale italiana non era già più la squadra cara alle teorie antropocalcistiche di Gianni Brera, degli italianuzzi limitati nel fisico e nelle proteine che dovevano ricorrere all’astuzia dei deboli contro lo strapotere dei forti, catenaccio e contropiede degli umili che castigava panzer tedeschi e cicale brasiliane, ma una squadra di grande personalità e di gioco pratico ma bello. Anche la società italiana non era più miseria e arretratezza, terra di emigranti, ma l’Italia che aveva acquisito benessere e consumi e cominciava ad attrarre immigrazione, per la prima volta nella sua storia.
Tra il 1982 e oggi, nel quasi-quarto di secolo che ci separa, è avvenuta una mutazione non lieta ma che va comunque registrata e al fondo acquisita, perché non è possibile fare diversamente. L’Italia che usciva finalmente dagli anni Settanta esprimeva una maturità ritrovata attraverso prove terribili ma che erano ormai alle spalle, la nave sembrava avviarsi ad andare, in un clima ambiguo ma non ancora torbido, dove grandi speranze sembravano lecite. L’Italia che si è andata costruendo nella transizione infinita da allora ad oggi è una Italia peggiore, che per molti aspetti è regredita, che non esprime grandi speranze ma ha ancora grande vitalità, che sembra aver toccato il fondo ma di lì può rimbalzare, che ha conosciuto il peggio e che aspira a ritrovare tranquillità e un minimo di certezze. Certe caratteristiche sono ormai acquisite, nel calcio come nella società, e di qui bisogna ripartire senza illusioni. Siamo fatti così, ma possiamo migliorare, e possiamo ancora esprimere il meglio di cui siamo capaci.
Non si tratta più di fare gli italiani, gli italiani sono fatti, anzi strafatti per certi aspetti, si tratta semmai di ricavare quel che di buono si può estrarre dalla nostra identità incasinata. Obiettivo minimo ma essenziale.
E’ entrato nell’area di rigore. Passa a Morrone! È rigore! È rigore! È rigore! La Sala è grande! La Sala è grande! Non hanno più chance i Mammasantissimi!! E’ davvero un gran juaglione ! Lui è un vero italiano, ha il vero spirito da italiano. La Sala ora rappresenta tutta l’Italia. Non combatte da solo, mai da solo! Tutta l’Italia è con lui!La Costituzione è con lui! Il Presidente è con lui!Il Direttore è con lui ! Ora tocca a Tiano tirare il rigore. Tutti i tifosi italiani lo guardano. Tiano sa benissimo che Biasi nei playoff ha già parato 2 volte i calci di rigore e Tiano riesce anche a sorridere Che reazione avrà subito dopo Tiano? È Goal!! La partita è finita! L’italia ha vinto la partita, eliminando Città del Vaticano . Questa volta l’Italia non ha perso la partita contro una squadra guidata da Ruini !!
L’Italia è grande! L’Italia è grande. Oggi è il compleanno di Diana, un grande terzino anche lui, fra i migliori del mondo. Auguri Diana! Grande Italia! viva l’Italia!!W O ITALYA !!
N.B.: Ogni riferimento a fatti o persone NON è puramente casuale
W la Costituzione dei nostri padri e delle nostre madri, Freud e l’ermeneutica. W l’Italia e i padri costituenti. W, comunque, i mammasantissimi come Biasi e quel cattolico bigotto, pace al suo riposo, di Morrone, il quale fece dell’imperativo categorico la sua stessa ragione di vita. Negli ultimi tempi, Morrone lo si vedeva sempre più spesso in chiesa, assorto e isolato. Egli fu, prima ancora d’avventurarsi nell’impresa della Voce, un monaco florense. Spettinato, disordinato, dis-Adorno, Morrone contemplava francescanamente la bellezza del creato. Poi, dopo aver lungamente approvato una renovatio della Chiesa, mostrò, invece, d’essere perfettamente in linea con la sua parte più conservatrice. Prese le posizioni di Pera e del papa, cosa che Biasi si lasciò stranamente sfuggire. Meglio per lui - e per noi - che un vaso di fiori abbia levato Morrone di mezzo. E senza appello. W i vasi di fiori della nostra patria e i gatti sempre in piedi degli uffici tecnici.
Il nuovo Direttore, Oreste Artaserse Testelegildo Argonautico Procetti Carozzi Motta
Si racconta in giro di averlo visto (l’ex Direttore), errante, in uno sconosciuto villaggio palestinese, vicino a Betlemme, sfidare, con armi improbabili, i mastodontici e roboanti carri armati israeliani. Si racconta che Morrone, fra tutti quegli edifici martoriati, abbia anche scovato un teatro, l’INAD, frequentato da molti bambini dei villaggi vicini e di qualche campo profughi, e che ne sia diventato il Direttore !Nonostante tutto, nonostante i bombardamenti, nonostante le confische, nonostante i checkpoints, nonostante la morte di parenti e amici, anche in quel lembo di terra, come a San Giovanni in Fiore, si continua a sperare che le cose cambino.
L’ex-Direttore, si racconta in giro, ha trovato un modo elegante e discreto per sparire (vedi vaso di fiori e "gatto certosino"), per far perdere le proprie tracce. Ora preferisce spostarsi usando anche asino e carretto e tornare, imitando il popolo palestinese, al medioevo, pur di non piegarsi !!
Da in-vasa-to com’è, la sua più grande ambizione sarà forse quella di diventare un mito, una leggenda. Gli avranno spiegato che INAD in arabo significa TESTARDO, che INAD è una metafora, quella delle persone come lui, che non abbassano la testa, che non si arredono mai, che costruiscono reti invisibili di solidarietà e di rapporti autentici che nessuna granata, nessuna mitragliatrice, nessun missile potranno distruggere...
Apprezziamo, Biasi, il tuo tentativo di scongiurare la dipartita dell’in-vasa-to Morrone, che, a seguirti, potrebbe financo trovarsi, dopo peregrinazioni in terra santa e nelle regioni dello scontro, tra i monti di Celestino V. Mi duole disilludere la tua affettuosa insistenza. Egli non c’è più, finalmente. Lo abbiamo cacciato, eliminato, annientato. Perché era giusto che fosse così. In natura, ogni cosa segue il suo corso, la logica sua propria. Ora che sono io il Grande giornalista, proveremo solo a verificare se, per caso, fra quelle montagne silane si trovino dei rudi ribelli e, qualora ci fossero, li combatteremo col nostro treno corazzato. Non c’è alcuna speranza che i piccoli movimenti tellurici di quei posti producano un rovesciamento dei ruoli. D’altra parte, tutti sono felici e la ricchezza, ci ha assicurato il Dittatore, fra quattro anni sarà traboccante e collettiva. Ah, vedessi le piantagioni di tabacco, la prospera fertilità dei campi, la serenità pubblica! Tutto dissipa le menzogne che "la Voce di Fiore" aveva costruito e divulgato a regola d’arte. Noi ci siamo rinforzati, abbiamo costituito un nostro Minculpop e vinto ogni insana opposizione. Bando a quelle interpretazioni rivoluzionarie ed eversive del gioachimismo avanzate dal Morrone e dai suoi compari. Gioacchino, ce lo dice il Grande presidente, pensò unicamente alla tenuta dello statu quo. A pensarci, Biasi, tu sei un rivoltoso: non m’importa delle tue visioni in ambito nazionale o globale, tu parli di cambiamenti a San Giovanni in Fiore. Perché? Nulla si deve modificare. Nulla può andar meglio di così, a San Giovanni in Fiore. Amen.
Il nuovo Direttore, Grande giornalista
La ringrazio di cuore, Grande Inquisitore(...ehmmm...Grande Direttore/Giornalista) ! Finalmente farò felice il mio amico Federico e tornerò al più presto nel mio amato paese a respirare l’aria fresca e profumata dei Pisani.
Mi farò cullare dal vento e notti felici saranno le mie, senza più pensieri nè tormenti. Aspetterò solamente il sorgere del sole e, con incedere sicuro, felice e controvento, immerso nel silenzio, mi perderò poi nel tramonto, sognando, ancora per un istante, quel "pastore" errante, caduto in un istante (vedi sempre vaso di fiori, ecc. ecc..).
Finalmente non più gente bugiarda, falsa, malvagia, ma solo campi fertili e splendidi fiori, con filosofi veri, colmi di amore.
Con immensa gratitudine. Biasi
PS: Ma siamo sicuri di questo reddito minimo di "inserimento" ??? Non vorrei che i verdi pini si trasformassero d’improvviso in larici piangenti.....
Ella, Biasi, di bocca mi strappa le parole. Informandola, raccolgo l’occasione - e i fiori - per comunicare al grande e meraviglioso pubblico che ci legge trepidante che da oggi, proprio dalla data odierna, il Grande Dittatore ha ripristinato l’invidiato Reddito minimo d’inserimento. Chiunque voglia percepirlo è pregato di prometterci i voti per iscritto, nella forma, come dire, d’un contratto (sinallagmatico). Si parte dall’irrisorio assegno di euro 1000, per arrivare, nei casi più complessi, alla modica cifra di 3280 euro netti e tondi. Così è se vi pare, Also sprach il Grande Giornalista. Fidatevi di noi e di uno come Biasi, che ha deciso di rinunciare all’ostica Elvezia per approdare, assistito, nelle gloriose terre della Sila in Fiore. Poesia eterna alla vita, candore del losco collettivo, piacere dell’ingiuria al lavoro, enfasi dei sensi sopiti.
Il Grande Giornalista, direttore appena nominato della "Voce di Fiore", che, da qui, si chiama "la Voce del vaso di fiori".