Cittadini-Sovrani (don Milani)!!!

NOI E IL MONDO: PER UN GOVERNO DEI BENI COMUNI. Una indicazione-proposta di Riccardo PETRELLA.

giovedì 7 settembre 2006.
 
[...] Questo lavoro di Riccardo Petrella parte dall’analisi dei beni comuni per arrivare a delle proposte che saranno sottoposte, come abbiamo già annunciato, al dibattito in occasione di una tavola rotonda conclusiva, tra una decina di persone, ma aperta al pubblico. Si terrà a Roma a fine settembre. La sfida sta nella convinzione che esistono oggi condizioni favorevoli, a livello mondiale, europeo e nazionale per perseguire il progetto di costruire in Italia, nel corso dei prossimi dieci/quindici anni, una nuova «res publica» fondata sui beni comuni [...]

Beni comuni. Una proposta al governo Prodi *

Res publica, libera dal capitale

Le ricette del capitale: mercificazione di ogni forma di vita, liberalizzazione totale dei mercati, privatizzazione della proprietà comune Smantellato il welfare europeo, lo Stato si è ritirato dal campo dell’economia e il valore di scambio ha travolto il valore d’uso

di Riccardo Petrella [Professore , Università Cattolica di Lovanio, Belgio] (il manifesto, 27.08.2006)

In un senso strettamente letterale, res publica sta ad indicare lo Stato, il governo, ed anche l’insieme dei beni che sono di proprietà di tutti i cittadini. In un senso più generale, si intende con res publica una società fondata sullo Stato di diritto ed i principi di cittadinanza, di libertà e di uguaglianza, mirante a promuovere la giustizia sociale, la fraternità e la pace.

Per tutto il XIX secolo e buona parte del XX, la res publica si giocò - in congiunzione con la questione della autodeterminazione dei popoli e del riconoscimento del cittadino - attorno alla soluzione dei rapporti tra capitale e lavoro. Da un lato, i detentori del capitale privato, proprietari della terra, delle materie prime e, soprattutto delle «macchine», che pretendevano di essere i proprietari dei frutti del lavoro umano, cioè della produttività. Pertanto rivendicavano di essere il soggetto principale delle decisioni in materia di produzione e di distribuzione della ricchezza disponibile e prodotta. Dall’altro i lavoratori, «braccianti» e/o «manodopera», possessori unicamente di forza lavoro (le braccia, le mani....), che rivendicavano anch’essi, legittimamente, di essere proprietari della ricchezza e quindi, soggetti partecipanti alle decisioni, grazie anche ad uno Stato che sarebbe dovuto essere garante dei diritti di tutti i cittadini ed operante nell’interesse generale. In realtà lo Stato fu più sovente dalla parte dei proprietari di capitale.

Lo Stato del welfare

Dopo circa cento anni di lotte sociali, lo Stato del welfare europeo, specie nella versione scandinava e tedesca (molto meno in quella americana) ha rappresentato la vittoria del lavoro sul capitale, esplicitata, tra l’altro, dopo la seconda guerra mondiale, dalla politica dei redditi. Questa è stata fondata su una concertazione a tre - imprese, sindacati e Stato - sulla ripartizione degli incrementi di produttività. Cosi, la produttività era diventata una «res» comune, la collettività essendone proprietaria e responsabile. Nei rapporti di forza tra lavoro e capitale, lo Stato del welfare ha costituito la forma di società che il lavoro è riuscito ad imporre al capitale come limite alla pretesa del capitale privato di governare la società ed il divenire delle comunità umane. Tuttavia, il welfare non ha dato vita, in nessun luogo, ad un sistema non-capitalista, anti-capitalista, o post-capitalista.

Negli ultimi trent’anni, il capitale è pervenuto a far compiere alle nostre società un’inversione strutturale di tendenza riuscendo a smantellare lo Stato del welfare. Il capitale privato è diventato il soggetto unico proprietario della produttività. Il lavoro ha perso la sua forte soggettività economica, sociale e politica nei confronti del capitale. Ridotto alla categoria di «risorsa umana», il lavoro è nuovamente considerato una merce, un «prodotto», il cui mercato è sempre più deregolamentato e liberalizzato. Il lavoro, precario, flessibile, aleatorio, fa sempre meno parte del campo dei diritti.

Lo Stato, dal canto suo, non ha fatto altro in questi anni che ritirarsi dal campo dell’economia e dalle decisioni in materia di allocazione delle risorse produttive lasciando al capitale privato, in nome dell’imperativo della competitività mondiale delle imprese «nazionali», il compito «politico» della regolamentazione finanziaria, tecnologica e commerciale della ricchezza. Avendo preso il comando sullo Stato e «rimesso al suo posto strumentale» il lavoro, i detentori del capitale privato hanno spostato sul fronte della vita la loro strategia di conquista e la pretesa al diritto di proprietà e di governo della società. In questo nuovo secolo, la partita della res publica si gioca - in stretto legame alla questione del rafforzamento o, all’opposto, dell’indebolimento delle dinamiche imperiali mondiali americane e della militarizzazione del mondo - sulla soluzione dei rapporti tra capitale e vita.

Al momento, il capitale è vincente grazie principalmente a tre dinamiche operanti in tutto il mondo: la mercificazione di ogni forma di vita; la liberalizzazione di tutti i mercati; la privatizzazione del potere di proprietà sulla vita. I processi di mercificazione della vita sono favoriti dalla tesi secondo la quale nulla ha valore senza scambio, senza relazioni di vendita/acquisto le quali fissano il prezzo dei beni e servizi scambiati. Anche la stragrande maggioranza dei beni e dei servizi comuni pubblici (l’acqua, la salute, l’educazione, l’alloggio, i trasporti, l’ambiente...) è stata ridotta a merce sulla base di due argomenti (molto discutibili), fatti diventare «leggi» dai gruppi dominanti. Il primo consiste a sostenere che anche questi beni e servizi sarebbero l’oggetto di domande individuali (una persona utilizza X metri cubi d’acqua, «consuma» X quantità di medicine, utilizza X ore di trasporti pubblici...) e, quindi, sarebbero oggetto di rivalità fra venditori ed acquirenti e fonte di utilità individuali. Sarebbero quindi dei beni economici privati, di cui solo i meccanismi di mercato consentirebbero di ottimizzarne la produzione e l’uso. Il secondo argomento dice che l’accesso ai beni e servizi comuni implica necessariamente un costo economico che non può essere coperto che da un prezzo in funzione del consumo.

I soldati mercenari

Nemmeno l’esercito sta sfuggendo alla mercificazione. Parecchie migliaia di militari delle forze occidentali in Iraq sono composti da soldati mercenari «venduti» agli Stati uniti ed al Regno unito da società private specializzate in attività di guerra. Lo stesso dicasi dei saperi. Ancora decenni or sono la Chiesa cattolica «vendeva» le indulgenze, oggi i nuovi dei del mercato vendono le conoscenze.

Una volta avvenuta la mercificazione, è particolarmente difficile frenare, o vuoi impedire, la deregolamentazione e la liberalizzazione dei mercati. Decine di istituzioni nazionali ed internazionali sono state create apposta, con forti poteri di intervento e di pressione, per promuovere quella che è considerata dai turiferari della liberalizzazione «la missione civilizzatrice della libertà dei mercati» e della costruzione del grande mercato libero mondiale.

Parlo, innanzitutto, del Gatt (General Agreement on Trade and Tarif), diventato il Wto (World Trade Organisation) nel 1995 che da 10 anni sta tentando di imporre al mondo, attraverso il Gats (General Agreement on Trade of Services), la pretesa ineluttabilità della liberalizzazione dei servizi. Penso anche all’Ocse, il grande laboratorio ideologico economico dei paesi occidentali, ed alle varie zone di libero scambio promosse in tutte le regioni del mondo e di cui l’Unione europea, con il suo mercato unico interno, rappresenta il modello da seguire. Non per nulla uno dei più grandi dibattiti politici e culturali degli ultimi anni sull’integrazione europea è stato quello centrato sulla direttiva Bolkenstein che mira, anche se in una versione «addolcita», alla liberalizzazione di tutti i servizi di rilevanza economica. Con i tempi che corrono, i servizi considerati di non rilevanza economica sono rimasti in pochi!

Terza dinamica, la privatizzazione.

Fortemente aiutato, anche in questo, dallo Stato, il capitale è riuscito ad impadronirsi della proprietà di tutto ciò che fino a poco tempo fa era stato considerato come «proprietà comune, pubblica» vuoi come bene «sacro». Dai semi di riso indiani od asiatici, «liberati» dalle regole statali e dalla proprietà collettiva dei villaggi o delle cooperative, all’acqua, anch’essa trattata come «bene libero», passando attraverso le piante ed i microrganismi alla base della farmacopea mondiale. Gli algoritmi, senza i quali nessun software esisterebbe, l’energia eolica, l’energia solare, l’educazione... qualsiasi espressione di vita può/deve diventare oggetto di appropriazione privata e di capitalizzazione finanziaria.

Lo strumento principe utilizzato dal capitale privato, che legalizza ciò che si deve invece definire come un vero furto o atto piratesco, è il diritto di proprietà intellettuale concretizzato nell’ottenimento di un brevetto. Il brevetto garantisce al suo proprietario il diritto esclusivo di uso del bene o del servizio brevettato per un periodo di 18 a 25 anni, con possibilità di rinnovo. Le principali proprietarie di brevetti al mondo sono le grandi imprese multinazionali private occidentali, specie statunitensi.

Cosi, il capitale biotico del pianeta è in via di crescente brevettazione. Inoltre, dal 1994, il Congresso degli Stati uniti ha autorizzato la brevettabilità di geni umani, in ciò seguito nel 1998 dal Consiglio europeo e dal Parlamento europeo per paura che l’industria biotecnologia europea perdesse competitività e mercati a vantaggio di quella statunitense.

Alla luce di quanto precede, la principale sfida globale e planetaria attuale consiste nel liberare la vita dall’appropriazione e dal controllo da parte del capitale privato affermando il primato dei diritti della vita ed alla vita sugli interessi dei proprietari del capitale finanziario delle grandi imprese globali .

Questa sfida può essere raccolta e vinta partendo dalla riaffermazione dell’essenzialità e dell’indispensabilità dei beni comuni, dal livello locale al livello mondiale. La salvaguardia e la promozione dei beni comuni rappresentano la condizione fondamentale di partenza, necessaria ed indispensabile, per la lotta alle nuove pretese del capitale privato. Considerare l’acqua, l’aria, la terra, l’energia solare, la conoscenza, la salute, l’educazione, la sicurezza collettiva, la pace, la protezione civile... come beni comuni significa riconoscere, nella storia della condizione umana la centralità dell’altro come bene comune essenziale ed insostituibile alla propria esistenza. L’altro nella duplice realtà di «altro» come essere umano, e «altro» come «natura», la «madre di vita».

Il dominio del capitale

Per il capitale privato l’altro è da rigettare o da sfruttare. La sua visione del mondo, dell’alterità, è una visione antagonistica ed utilitarista. Nella chiave antagonista, l’altro è soprattutto un nemico, un contendente nella lotta, con vincitori e vinti, per la sopravvivenza, la potenza, la ricchezza. Nella chiave utilitarista, la natura, l’ingegnere informatico di Bangalore o il risparmiatore di Recife, sono visti come uno strumento, una «risorsa» che vale fintantoché è utilizzabile al fine dell’ottimizzazione della creazione di valore per il capitale. Non c’è possibilità di alcuna solidarietà economica con l’altro, ma, al massimo, solo una convergenza temporanea di interessi.

La visione antagonistica ed utilitarista dell’altro è all’origine di tutte le guerre per e sulle risorse, a partire dalle guerre economiche, commerciali e, oggi, tecnologiche. Per questa ragione il capitalismo è incapace di pace, di solidarietà, di condivisione, di giustizia sociale. Coloro che pensano che non vi sia più storia possibile al di fuori del capitalismo, sono convinti che non sarà mai possibile costruire una società fondata sulla pace, la solidarietà, la giustizia sociale.

Il riconoscimento dell’esistenza di beni comuni è, invece, alla base di una visione cooperativa e solidale della società, del mondo. Impedendo al capitale di impadronirsi del potere di controllo sulla vita, si contribuirà altresì ad un riequilibrio di fondo nei rapporti tra lavoro e capitale.


beni comuni Seconda puntata della proposta al governo Prodi

Scusi, sa dirmi di chi è quella foresta?

Lo scontro comincia dalla definizione di base. Cerchiamo quindi di analizzare il concetto generale di bene comune. Si tratterà di capire poi quali sono le dinamiche sociali reali in Italia e nel resto del pianeta terra

Si fa un polverone Negli ultimi anni è cresciuta una certa confusione su ciò che riteniamo pubblico. La nazionale di calcio? Le note dello spartito Ecco i punti principali per definire una nuova scaletta di bene pubblico che sia davvero universale e condivisa

di Riccardo Petrella (il manifesto, 30.08.2006)

Senza beni comuni che società è? Parlando di un bene è uso intendere una sostanza, un oggetto, un servizio, una maniera di essere e di comportarsi, cui si dà un valore positivo. Non tutto, quindi, è suscettibile di essere considerato un bene. Lo stesso dicasi per comune. Con questo termine si vuole indicare ciò che è relativo ad una comunità di persone socialmente organizzata. In via generale, il concetto di beni comuni è assimilato a quello di beni - e servizi - pubblici, il che è largamente giustificato essendo definito pubblico tutto ciò che è relativo ad un attributo di appartenenza e/o di riferimento allo Stato, alle istituzioni di governo, al popolo. Beninteso, non tutto ciò che è comune, per esempio ai membri di una cooperativa od ad un condominio od ad una società sportiva, è pubblico.

In ogni caso, non esiste una società (da «socio») senza beni comuni. Una società che non ha una cultura ed una pratica dei beni comuni non è una società, una comunità. L’Italia sta sempre meno funzionando come una comunità, una società. Al di là dell’impennata identitaria nazionale provocata dal Mondiale di calcio e dalla vittoria degli Azzurri, è diventato alquanto problematico identificare i beni comuni. Si ha l’impressine che l’Italia sia diventata negli ultimi anni un insieme di soggetti/proprietari, un sistema di territori e di città in concorrenza fra loro per lo sfruttamento delle risorse locali e degli altri territori.

Il fondamento storico del fallimento dell’integrazione politica europea, avvenuto nel corso degli anni ’80 e ’90, sta per l’appunto nel fatto che l’Europa ha cessato di rappresentare una «comunità» da costruire nell’interesse di tutti. Secondo molti analisti in auge, queste tendenze rappresenterebbero dei processi positivi. In particolare l’emergenza di un nuovo capitalismo molecolare, locale, municipale, innovativo, operante in rete, flessibile, culturalmente libero dai vincoli di condivisione e di solidarietà territoriali, capace di misurarsi con i migliori e competere sulle scene mondiali, soprattutto per vincere.

Non è su queste basi che le nostre società potranno ricostruire il vivere insieme dopo l’esperienza dello Stato del welfare. Finora i beni comuni/pubblici sono stati definiti attraverso due caratteristiche principali: la non esclusione, un bene è comune/pubblico perché nessuno può esserne escluso (uno studente che frequenta la scuola non impedisce ad altri di andarvi, mentre se io acquisto un bene privato come una casa, gli altri sono privati della proprietà e del potere di decisione ed uso su questo bene); la non rivalità, non bisogna entrare in competizione con altri per avervi accesso (mentre per appropriarsi di un bene - o servizio - a titolo privato bisogna competere con altri).

C’è perciò bisogno di una definizione basata su una serie di criteri più precisi: 1) essenzialità ed insostituibilità per la vita, individuale e collettiva, indipendentemente dalla variabilità dei sistemi sociali, nel tempo e nello spazio. L’acqua è stata essenziale ed insostituibile 6 mila anni or sono in Egitto od in Cina come lo è oggi in Lapponia o in India, e lo sarà ancora tra milioni di anni; 2) pertinenza ed indissociabilità dal campo dei diritti umani e sociali. Il parametro di definizione del valore e della utilità di un bene comune pubblico è la vita, il diritto alla vita, e non il costo associato alla sua disponibilità ed accessibilità. Non si tratta di beni e di servizi rivolti alla soddisfazione di domande/bisogni individuali (o collettivi di gruppo) mutevoli perché dipendenti dal loro valore/costo di accesso e dalla loro utilità commerciale; 3) responsabilità e proprietà collettive in una logica di solidarietà pubblica. Lo Stato, rappresentante la collettività dei cittadini, la comunità politica, è e deve essere il responsabile dei beni comuni, di cui i cittadini sono solidariamente proprietari attraverso lo Stato e le altre collettività pubbliche (locali, regionali....); 4) l’inevitabilità dell’integrazione delle funzioni di proprietà, di regolazione, di governo/gestione e di controllo sotto la responsabilità di soggetti pubblici: Principio del carattere pubblico sia della proprietà del bene (acqua, foresta, piante, fonti energetiche...) e delle infrastrutture (reti idriche, energetiche, di trasporti, di informaziojne e comunicazione...) che della gestione dei servizi corrispondenti. Vista la finalità/funzione di un bene comune pubblico che è quella di essere al "servizio" dell’ interesse collettivo della comunità e di operare nel campo dei diritti, v’è netta incompatibilità tra interesse pubblico e gestione affidata a soggetti portatori di interessi privati. Non v’é giustizia sociale nel contesto di una separazione tra proprietà pubblica del bene e "gestione" privata del servizio. 5) la partecipazione reale, indiretta e diretta, dei cittadini al governo dei beni comuni /pubblici. La democrazia è estranea al funzionamento di una società a capitale privato, anche se parzialmente e minoritario. Non v’é democrazia possibile in una SpA anche se a capitale pubblico. I limiti seri da me incontrati, tra gli altri, in quanto presidente dell!Acquedotto Pugliese SpA sono a conferma di questo principio. In una logica mercantile, quello a cui il capitale può/deve fare attenzione è il cliente, il consumatore, ma non il cittadino. Non per nulla il produttore/venditore ricorre alla pubblicità la cui finalità non é di informare il cliente ma di manipolarlo anche per sconfiggere il concorrente.

Non v’é spazio per un approfondimento delle questioni relative alla «territorialità» geopolitica e geosociale dei beni/servizi comuni pubblici: locali, comunali, regionali, nazionali, internazionali, mondiali. Le questioni sono assai complesse e diversificate. Semplificando al massimo, é importante, pero’, sottolineare il fatto che non vi é un bene che, a priori, abbia una specifica connotazione territoriale, salvo certi beni «culturali» . Il caso dei servizi é leggermente differente: la loro configurazione é legata in maniera diretta alla comunità umana di cui sono parte intrinseca.

Con questo voglio attirare l’attenzione sulla «anomalia» storica, se si può dire, rappresentata dalla specifictà data ai beni/servizi detti «nazionali». Con l’avvento e la diffusione in Occidente, e poi attraverso il mondo, dello Stato-nazione sovrano, la storia ha introdotto un forte elemento di frammentazione e di distorsione nel campo della «res publica» costituito dal duplice principio della nazionalità (applicata alla cittadinanza, all’appartenenza identitaria ed alla proprietà dei beni/servizi pubblici) e della sovranità nazionale sui beni comuni. Cosi, l’acqua o la sicurezza di vita, non sono considerate , a priori, dei beni comuni appartenenti all’umanita ed alla vita sul pianeta ma, innanzitutto, dei beni nazionali. Questa anomalia sottolinea un dato fondamentale per la politica attuale e futura dei beni comuni: allo stato attuale di istituzionalizzazione del potere politico legittimo , solo gli Stati hanno il potere sovrano di governo. La statualità diventa un elemento centrale della partita dei beni comuni pubblici.

Questo spiega perché i beni e servizi comuni pubblici sono e devono essere sanciti, salvaguardati e socializzati attraverso: leggi che stabiliscano i principi ispiratori di base; regole che applichino i principi; istituzioni che controllino l’applicazione dei principi; mezzi per allocare le risorse necessarie; meccanismi di valutazione collettiva sul governo dei beni e servizi comuni.

L’insieme di questi elementi forma il governo pubblico dei beni/servizi comuni e marca culturalmente la progettualità statuale di un Paese. Il nuovo governo Prodi non puo’ sfuggire al dovere di esercitare il proprio potere di statualità nel campo dei beni/servizi comuni, salvo accettare l’abbandono della propria sovranità e responsabilità a vantaggio di soggetti privati, locali, nazionali ed internazionali, sprovvisti di legittimità statuale, od ad organismi intrernazionali intergovernativi la cui capacità di statualità é il risultato di rapporti di forza ineguali tra gli Stati membri formalmente sovrani.

Fino ad ora, dunque, le nostre società sono state capaci di concepire e di definire dei beni comuni pubblici, al massimo, a livello delle comunità "nazionali", degli Stati. Nessun bene è stato riconosciuto dalla comunità inter-nazionale degli Stati come bene comune mondiale, tanto meno come bene comune pubblico mondiale. Tutt’al più è stata riconosciuta l’esistenza di beni mondiali non appartenenti a nessuno ( il caso dell’Antartide, degli oceani, dei fondi marini extraterritoriali....)

Il che significa che nel mentre il capitale si sta mondializzando sempre di più, i poteri pubblici restano organizzati su basi "nazionali" e non riconoscono alcun bene comune pubblico mondiale. Anzi, hanno fatto e fanno di peggio con la liberalizzazione e la privatizzazione dei beni e servizi in passato pubblici. Stanno dando il potere politico al capitale mondiale.

Siffatta situazione rende conto della criticità della sfida attuale della "res publica". In effetti, il diritto alla vita per tutti gli abitanti del pianeta ed il divenire pacifico e solidale dell’umanità dipendono dal riconoscimento dell’esistenza di beni comuni pubblici mondiali, dalla loro promozione e salvaguardia. Qual’é la concezione e le scelte politiche strategiche proposte dal governo Prodi in materia? Ho l’impressione che esse siano solo parzialmente formulate ed esplicitate. Una ragione di più per promuovere il dibattito con l’intenzione di far operare scelte visibili e coerenti con la cultura dei beni comuni e del diritto alla vita per tutti gli esseri umani.

Molti pensano che si giungerà difficilmente e molto tardi al riconoscimento di beni conuni pubblici mondiali. Hanno probabilmente ragione, ma sono convinto che avranno sicuramente ragione qualora l’attuale mobilitazione sociale, culturale e politica in Italia in favore di tale riconoscimento dovesse indebolirsi nel corso di questi cinque prossimi anni.

Come definire un bene comune pubblico mondiale? E quali beni potrebbero essere considerati tali?

Un bene comune pubblico è mondiale quando rappresenta risorse e risponde a necessità/diritti che riguardano il "vivere insieme, le condizioni di vita" e l’avvenire dell’umanità e del pianeta. In questo senso, anche se un bene comune è "locale" ma l’uso che se ne fa ha effetti e ripercussioni di rilevanza inter-nazionale, mondiale, esso deve essere considerato di interesse pubblico mondiale.

Per rissumere, senza pretendere alcuna completezza, dovrebbero essere considerati come beni comuni pubblici mondiali: l’aria; l’acqua come insieme dei corpi idrici partecipanti al ciclo dell’acqua, e, in questo quadro, gli oceani; la pace; lo spazio, ivi compreso lo spazio extraterrestre; le foreste come luogo in cui si trova più del 90% delle specie microbiche, vegetali e animali del pianeta; il clima globale; la sicurezza, nel senso della lotta contro le nuove e vecchie forme di criminalità mondiale (traffici di armi, droghe, immigrazione landestina organizzata, proliferazione dei paradisi fiscali...); la stabilità finanziaria; l’energia per ciò che riguarda lo sfruttamento delle risorse rinnovabili e non rinnovabili a livello internazionale; la conoscenza, in particolare per ciò che riguarda il capitale biotico del pianeta e la sua diversità; l’informazione e la comunicazione.

Su un piano più generale, il pianeta Terra e l’esistenza dell’altro sono i primi due beni comuni pubblici mondiali. L’uomo non esisterebbe se non ci fosse il pianeta. Questo, invece, è esistito anche senza gli esseri umani, e qualora questi ultimi scomparissero per autodistruzione od altre cause, il pianeta - ancorché trasformato - continuerebbe ad esistere, almeno per altri 4 miliardi di anni, fintantoché il Sole non si «spegnerà». D’altra parte, ognuno di noi non esisterebbe se non ci fosse l’altro, il differente (l’uomo per la donna, la donna per l’uomo, il vecchio ed il giovane, il familiare e l’estraneo, il presente e il passato...).

Si tratta di due beni reali ma che hanno rilevanza e spessore solo se - e a partire dal momento in cui - sono pensati. Da qui l’importanza e la criticità dell’immaginario umano, sociale, e della cultura collettiva, e della proposta ABC - "Tutti a scuola", relativa .alla politica generale di Alfabetizzazione ai Beni Comuni, che sarà dettagliata nel prossimo articolo.

Solo negli ultimi decenni, gli esseri umani hanno cominciato a pensare al pianeta Terra come un bene comune mondiale, di cui prendere cura nell’interesse dell’umanità e di ciascun essere umano. Lo stesso dicasi dell’esistenza dell’altro. La percezione dell’altro come «bene» resta un fenomeno incipiente, debole, specie in Italia, dove la presenza dell’altro (per esempio le popolazioni extracomunitarie all’Europa dei 15) è recente e si traduce sovente in forme forti di rigetto. La percezione del pianeta come «bene comune» è, invece, per il momento, più matura e diffusa.

A prima vista, questa differenza di percezione potrebbe significare che è più realista pensare di costruire una società dei beni comuni partendo dal governo dei beni «naturali», legati alla gestione delle risorse del pianeta Terra, anziché partire dalla concezione dell’altro. Si tratta di una «falsa» evidenza perché come dimostra, per esempio, il rigetto del Protocollo di Kyoto da parte degli Stati Uniti, non vi sarà mai un governo condiviso dei beni comuni pubblici "naturali" in assenza di una visione cooperativa e solidale dell’altro, visione oggi sostanzialmente assente nell’immaginario e nella cultura degli Stati Uniti. È anche vero che attraverso nuove politiche economiche, tecnologiche e commerciali di utilizzo e valorizzazione dei beni «naturali» (aria, acqua, terra, energia, ....), si può giungere ad una società dei beni comuni fondata sul rispetto e la promozione del diritto di tutti gli esseri umani alla vita, all’uguaglianza nella cittadinanza. Si deve pertanto partire simultaneamente da entrambi versanti. (2.continua)


beni comuni Primi passi di un percorso nuovo. Terza puntata

Il sapere scorre come l’acqua

Nonostante il crescente andazzo individualistico, ci sono le condizioni culturali, sociali e politiche per costruire una nuova cultura della «res publica» Alla base della nuova cultura dei beni pubblici ci sono le matrici filosofiche della politica italiana e soprattutto l’esperienza recente dei movimenti

di Riccardo Petrella (il manifesto, 01.09.2006)

Ri-costruire la società italiana ed il paese partendo dai beni comuni è possibile? La domanda é plausibile: come si può sostenere che è possibile in Italia progredire verso un governo dei beni comuni quando il quadro italiano che abbiamo in altri articoli precedenti già descritto mostra che le dinamiche dominanti, anche quelle promosse dal neogoverno Prodi nei suoi primi mesi di attività, vanno in direzioni opposte? Per due ragioni principali.

La prima è legata al fatto che l’Italia è il solo paese dell’Europa dei 25 ad avere un governo di centro-sinistra che copre l’intera gamma delle posizioni di sinistra, dalla radicale alla moderata, di natura social-comunista, cattolica e liberal-radicale. Il che significa che la classe politica ora al governo, se vuol fare storia e non finire ingloriosamente nel bidone delle cose inutili, deve inventare un suo modello di ricostruzione sociale. Deve ricostruire l’Italia dallo spappolamento sociale: non si puo’ parlare altrimenti del sesto paese economicamente più potente al mondo nel quale, secondo i dati dell’Istat di agosto 2006, la povertà concerne di nuovo il 25% della popolazione. Deve anche risanare il Paese, urgentemente, dal dissesto ecologico operato in tutte le regioni dopo cinnquanta anni di «sviluppo» predatorio.

No alla grande coalizione

A tal fine, il governo Prodi non può seguire il modello della grande coalizione tedesca : i contesti nazionali sono molto differenti. Non può nemmeno seguire il modello blairiano della «terza via» miseramente fallito, né quello francese orientato com’è oggi alla rincorsa a chi più propone scelte politiche di destra. Per evidenti ragioni, non può pensare di prendere come riferimento il modello norvegese o danese. Quello spagnolo di Zapatero può essere, per certi versi, attraente per il governo Prodi ma non su tutti, specie per la componente cattolica. Potrebbe pensare a seguire le direttive dell’Unione europea cercando di diventarne l’allievo più obbediente, ma condurrebbe tale scelta ad una buona scelta per la ricostruzione della società italiana? La stessa domanda vale qualora il governo Prodi decidesse di contare per il futuro dell’Italia sul capitalismo molecolare socialmente aggressivo e sul federalismo antisolidale delle regioni del Nord, fenomeni che sono precisamente alla base della decomposizione individualista e corporativa della società italiana.

La cultura dei beni comuni pubblici è invece parte integrante, storica, della cultura cattolica, socialdemocratica e comunista, cosi come di quella del liberalismo politico illuminato (alla Schumpeter ed all’Einaudi, per intenderci)

La seconda ragione sta nell’esistenza in Italia di un insieme di movimenti sociali a tendenza contestatrice, innovativa, libertaria, ambientalista, "comunalista", piuttosto forte sul piano della mobilitazione sociale e politica della popolazione, a mio parere comparativamente più forte dei movimenti analoghi negli altri paesi europei. Ora, i membri di questi movimenti sono presenti trasversalmente in area cattolica, laica, socialdemocratica e comunista.

Voglia di futuro

Se l’Italia ha tuttora voglia di futuro ed ha il piacere e la forza di innovare nell’interesse generale ( non solo nell’interesse individuale, privato) lo deve all’energia creatrice, alla fantasia ed all’impegno di movimenti come I Nuovi Municipi, la Tavola della Pace, ARCI, Mani Tese, i Comitati Territoriali dell’Acqua, AltroConsumo, Sbilanciamoci, AltraEconomia, Legambiente, Emergency, la Rete Lilliput, ATTAC, le numerose associazioni operanti in seno al Forum Sociale, il CIPSI, Finanza equa, WWF,,,,,tanto per citarne alcune fra le più note, i cui membri, ogni giorno , a decine di migliaia, alimentano la critica, il dibattito, le proposte, la ricerca di soluzioni positive nel campo della salute, dei trasporti, dell’immigrazione, del governo del territorio, delle energie rinnovabili, dell’educazione, della finanza, della salvaguardia dell’ambiente, della cultura, del fare città.....

Non sarò certo io - anche alla luce dell’esperienza personale pugliese - a sottovalutare la forza, molto grande in questa "nuova" Italia, degli interessi corporativi e della miopia del moderatismo riformista aderente alle scelte economiche e sociali del capitalismo competitivo globale .

Il fatto però che il governo Prodi abbia deciso, malgrado il decreto Bersani ed il decreto Lanzillotta, di escludere il settore idrico dall’ondata di liberalizzazioni e di privatizzazioni è un piccolo segno, limitato, ma simbolicamente forte a sostegno della validità delle due ragioni sopra menzionate. La sensibilità alla cultura dei beni comuni in seno alla compagine governativa attuale non è cosi debole come certi pretendono che sia e vorrebbero che fosse.

Aprire una strada nuova

La mia proposta è di scommettere su questa sensibilità, battendoci per ottenere l’apertura di un percorso innovativo di sperimentazione.

Per aprire il percorso ed iniziare i primi passi, è necessario ed indispensabile che in occasione del dibattito e dell’approvazione della nuova legge finanziaria il Governo approvi la costituzione di un Segretariato di Coordinamento Nazionale per i Beni Comuni, organismo di utilità pubblica localizzato presso la Presidenza del Consiglio. Inizialmente composto da una dozzina di persone, il Segretariato dovrebbe essere dotato di risorse finanziarie adeguate grazie all’uso di una parte del gettito ricavato dal prelievo di un centesimo di euro per bottiglia prodotta di acqua minerale, prelievo che la finanziaria 2006 dovrebbe approvare.

L’Iva sull’acqua minerale

Ricordo al lettore che lo Stato preleva il 20% di IVA sulle acque minerali imbottigliate. Il prelievo di un centesimo addizionale - in attesa di una nuova legge quadro sull’acqua che ridia al pubblico la gestione della valorizzazione delle acque minerali - mi sembra giustificato anche dal fatto che il capitale del principale gruppo italiano di acque minerali, il Gruppo San Pellegrino ( marche San Pellegrino, Panna, Levissima, San Bernardo, Vera , Lora di Recoaro, Sorgenti Trione, Claudia...), quasi 25% del fatturato nazionale, è da anni passato sotto il controllo della multinazionale svizzera Nestlè. E’ giusto che una piccola parte dei profitti ricavati dallo "sfruttamneto" mercificato - grazie anche a permanenti e massiccie campagne pubblicitarie - di acque di proprietà pubblica italiana sia destinata al finanziamento di iniziative in favore dei beni comuni, anziché continuare ad ingrossare il capitale posseduto dagli azionisti di Nestlè. Quali sarebbero, secondo il presidente del Consiglio ed il ministro Padoa Schioppa, le ragioni che ostacolerebbero tale misura? La paura dell’abbandono del controllo azionario del Gruppo San Pellegrino da parte di Nestlé?

Il principale compito del Segretariato sarà quello di promuovere, sostenere e coordinare le iniziative prese da parte delle istituzioni, in particolare Comuni, Province, Regioni e da parte degli operatori economici e sociali (imprese pubbliche , imprese di economia sociale, sindacati, movimenti ed organizzazioni associative..) rivolte alla salvaguardia e sviluppo di un governo pubblico e cooperativo dei Beni Comuni. A tal fine, toccherà al Segretariato di identificare e proporre gli strumenti giuridici e finanziari più idonei alla realizzazione delle iniziative.

Tra le prime iniziative da prendere ad opera del Segretariato dovrebbero figurarne due, strettamente collegate:

a) l’organizzazione nelle varie regioni del Paese di Conferenze Programmatiche sui Beni Comuni, destinate ad essere degli "ateliers di progettazione"della politica nazionale per un governo dei beni comuni. Previste su un periodo di 24 mesi, esse dovrebbero permettere ai cittadini ed alle istituzioni/organizzazioni interessate di elaborare una proposta di legge quadro sui beni comuni, da discutere e approvare entro il 2008. Penso al 2008 perché ricorrerà in quell’anno il 60° anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.L’Italia potrebbe proporre, in tale occasione, agli altri governi occidentali , di seguire il suo esempio;

b) promuovere una Campagna nazionale "Tutti a scuola di ABC - Alfabetizzazione ai Beni Comuni". Come le Case del Popolo, i Circoli di Cultura, le Università Popolari sono stati nel passato, su basi diverse, un poderoso strumento di alfabetizzazione sociale e politica della popolazione italiana nel XIX e XX secolo, cosi si deve pensare alla campagna ABC. Si potrebbe affidare all’Università del Bene Comune, che negli ultimi tre anni ha accumulato una piccola ma solida esperienza in materia, grazie in particolare ai lavori della Facoltà dell’Acqua, il compito di mettere insieme le organizzazioni ed i movimenti attivi sui beni comuni al fine di realizzare la campagna sulla base di un programma elaborato ed eseguito in comune.

Beni per la vita

Come fatto notare nel secondo articolo, tutti i beni comuni pubblici sono relativi alla vita. Sono oggetto diretto della sfida che il capitale mondiale ha lanciato alla vita. Le iniziative sopra proposte sono necessariamente orizzontali e a carattere nazionale. Esse servono come quadro d’orientamento generale alle iniziative più specifiche che devono essere intraprese nei vari campi dei beni comuni.

Fra i beni emblematici sul versante del pianeta Terra, l’acqua mi pare il bene che consente di approfondire al meglio le opportunità reali di lotta contro le pretese del capitale. Sul versante dell’esistenza dell’altro, il ruolo emblematico è rappresentato dalla conoscenza. Propongo pertanto di approfondire l’esame delle priorità e delle vie da seguire per un governo dei beni comuni concludendo con due esempi, dapprima quello dell’acqua (prossimo articolo) e poi quello della conoscenza ( quinto ed ultimo articolo).

(3.continua)


Beni comuni Noi e il mondo, gli obiettivi sull’acqua. Quarta puntata Oro bianco, la fonte del potere

Bisogna sottrarre il potere sulla vita al capitale privato, partendo dal governo dell’acqua come bene comune pubblico. Perché negli ultimi trenta anni il capitale privato si è impadronito del governo di questa risorsa assolutamente primaria un po’ dappertutto nel mondo. A partire dalla fine degli anni ’70, approfittando delle politiche dette di aggiustamento strutturale imposte dal Fmi e dalla Banca Mondiale ai paesi «in via di sviluppo», fino alla presenza delle grandi aziende private nel sistema idrico i

di Riccardo putrella (il manifesto, 03.09.2006)

Negli ultimi trenta anni, il capitale privato si è impadronito del governo dell’acqua un po’ dappertutto attraverso il mondo. A brevi schizzi, eccone le tappe principali.

A partire dalla fine degli anni ’70, ha approfittato delle politiche dette di aggiustamento strutturale imposte dal FMI e dalla Banca Mondiale ai paesi "in via di sviluppo" bisognosi di ingenti risorse finanziarie per i loro investimenti in infrastrutture. L’aggiustamento strutturale implicava, per la concessione dei prestiti, la condizione dell’apertura dei mercati dei paesi beneficiari alla concorrenza via gare di appalto internazionali. Le imprese idriche francesi - fortemente spalleggiate dallo Stato francese - cosi come quelle statunitensi, inglesi, svizzere, tedesche, sono riuscite ad accaparrarsi della stragrande maggioranza dei lavori di costruzione di dighe, acquedotti, serbatoi, pozzi e dei servizi di gestione corrispondenti. Alla fine (1991) del Decennio Internazionale dell’Acqua promosso dalle Nazioni Unite (1981-1991), le imprese private del mondo occidentale sono emerse come i soggetti più diffusi ed influenti in materia di utilizzo delle risorse idriche dei paesi d’Africa, dell’America latina e di parte dell’Asia.

Le tappe dell’aggressione

1992, Dublino, Conferenza internazionale dell’Onu in preparazione del primo Vertice Mondiale sull’Ambiente a Rio di Janeiro: per la prima volta il capitale privato riesce a fare accettare dai poteri pubblici il principio che l’acqua deve essere considerata come «bene economico», e non più principalmente come un «bene sociale», e quindi sottomessa alle regole del mercato.

1993: confermando il principio di Dublino, la Banca Mondiale pubblica il manuale di testo, ad uso degli Stati beneficiari degli «aiuti» dei paesi occidentali, su cosa debba essere una politica integrata delle risorse idriche e come gestirla a livello nazionale. La Banca riconosce esplicitamente di essersi ispirata ai principi promossi dalla «scuola francese dell’acqua», cioè dalle grandi imprese multinazionali idriche francesi.

1994: approvazione in Italia della legge sull’acqua (la legge Galli) la quale riprende largamente i principi francesi e della Banca Mondiale.

1995: il capitale privato riesce a far inserire i servizi idrici nelle discussioni sulle trattative sui servizi nel quadro del Gats (Accordo Generale sul Commercio dei Servizi) proposto nell’ambito del Wto. Fra i più convinti ed accaniti sostenitori dell’inclusione figura l’Unione Europea. Su pressione del fortissimo lobby delle imprese idriche europee (9 sulle 10 principali imprese idriche al mondo sono europee, cioè francesi, inglesi e tedesche), l’Unione europea ha in questi anni mantenuto, fino al recente fallimento dei negoziati di Doha, la richiesta di liberalizzazione dei servizi idrici indirizzata a 102 paesi del mondo di cui 72 fra i più poveri.

1996: le imprese private creano il Consiglio Mondiale dell’Acqua con il sostegno entusiasta della Banca Mondiale, di molte organizzazioni specializzate dell’Onu e di governi quali quello francese, canadese, svedese, giapponese, egiziano. olandese, marocchino. In questo contesto lanciano nel 1997 il primo Forum Mondiale dell’Acqua a scadenza triennale. In 10 anni sono riuscite a far credere anche a molti dirigenti politici ed ai media del mondo che il Consiglio Mondiale dell’Acqua rappresenta un’iniziativa internazionale pubblica legata alle Nazioni Unite. Il che è falso. In realtà essa è un’ organizzazione privata di diritto francese con sede a Marsiglia, presieduta dal presidente di una filiale congiunta delle due principali imprese idriche mondiali (le francesi Ondeo e Veolia). Non solo, ma grazie al successo delle varie edizioni del Forum Mondiale dell’Acqua, sono pervenute a diffondere e fare accettare come cultura mondiale dell’acqua oggi dominante i loro principi, cioè: l’acqua deve essere trattata come un bene economico il cui prezzo deve coprire i costi totali ivi inclusi il profitto e la remunerazione del rischio; la gestione privata dei servizi è più efficiente, efficace ed economica di quella pubblica; i servizi idrici devono essere liberalizzati; il capitale privato deve essere il principale finanziatore dei costi di gestione dei servizi, nel mentre gli investimenti nelle infrastrutture devono seguire il Ppp (partenariato pubblico-privato, di cui il Project Financing dovrebbe essere lo strumento privilegiato).

2000: la banca svizzera privata Pictet, lancia il primo Fondo internazionale d’investimento sull’acqua. Oggi il Fondo Pictet vale 3,9 miliardi di dollari. Altri fondi sono stati creati nel frattempo Secondo il Bloomberg World Water Index pubblicato fine maggio 2006, il livello dei profitti degli investimenti nelle imprese idriche negli ultimi tre anni è stato superiore a quello nelle imprese petrolifere e meccaniche. 2005, ottobre: su iniziativa ancora una volta delle imprese francesi, nasce AquaFed, la federazione internazionale delle imprese idriche private, il cui scopo esplicito è di operare a tutti i livelli nazionali ed internazionali per la difesa e la promozione degli interessi delle imprese associate (più di 200, fra le quali l’italiana Acque Toscane).

Il capitale privato è sempre più corposamente presente nel settore idrico italiano, ivi compreso il servizio idrico integrato. Al maggio del 2006, più della metà delle Autorità d’Ambito Territoriale Ottimale (Ato) hanno assegnato il servizio ad imprese aperte al capitale privato fino al 49%., a seguito di una gara pubblica internazionale. Il capitale privato non è costituito solo da banche ma anche da grandi imprese di costruzioni come Caltagirone, Impregilo...Importante é anche la presenza di imprese idriche francesi, tedesche, inglesi e di fondi d’investimento europei e nordamericani. L’internazionalizzazione finanziaria del settore idrico ha cessato di essere uno spauracchio annunciato dagli oppositori alla globalizzazione attuale. Che fare, a partire dal piccolo segno di speranza dato dal governo Prodi con l’esclusione del settore idrico dai decreti Bersani e Lanzillotta?

Che cosa vuol dire «gestione pubblica»

Due cose, rapidamente e a breve termine. La prima consiste nel precisare cosa si deve intendere per gestione pubblica dei servizi idrici. Se con essa il governo Prodi intende anche una gestione assicurata da un’impresa SpA con capitale misto pubblico e privato, operante in zone al di fuori della propria area di origine e titolata ad acquistare partecipazioni di capitale in altre imprese idriche vuoi in altri settori in Italia ed altrove nel mondo, questo significa che l’esclusione dei servizi idrici dalle liberalizzazioni è, come minimo, una presa in giro dei cittadini. Nel caso citato, l’impresa non è pubblica, per cui tocca al governo di precisare come conta, rapidamente, mettere a norma dell’impegno preso nel Progamma dell’Unione, e confermato in occasione dei decreti Bersani e Lanzillotta, le imprese non pubbliche di gestione dei servizi idrici che non solo sono numerose ma anche importanti (vedi Hera, Acea...).

Per quanto riguarda il caso di un’impresa SpA a capitale interamente pubblico e vincolata ad agire unicamente nel settore del servizio idrico integrato e sul territorio del suo Ato, si tratta di una situazione anomala (cosa c’entra in queste condizioni una SpA?) da considerare provvisoria e da trasformare in un’azienda pubblica /ente economico pubblico ( a statuto regionale; speciale....) con una nuova legge quadro nazionale e nuove leggi regionali conformi alla legge quadro.

Il caso in esame permette anche di illustrare l’utilità della costituzione immediata del Segretariato di Coordinamento Nazionale dei Beni Comuni .Il Segretariato dovrebbe elaborare una proposta precisa in materia, a seguito di uno spedito tavolo di lavoro nazionale.

La seconda cosa da fare è l’adozione di una nuova legge quadro nazionale sull’acqua. Alcuni percorsi possibili per realizzare tale obiettivo sono già stati aperti: Mi riferisco all’iniziativa in corso del Forum Italiano dell’Acqua per una proposta di legge di iniziativa popolare sull’acqua. Penso anche all’intenzione espressa dall’associazione «AcquaPubblica» di lavorare su una proposta di legge che tenga conto delle esperienze e delle prospettive delle imprese pubbliche di gestione dell’acqua potabile e delle AATO che hanno optato per un governo pubblico dell’acqua. Infine, riferimento va fatto alle intenzioni del Ministro dell’Ambiente di lavorare su un progetto di legge sulla tutela delle acque in Italia alla luce anche delle direttive europee. E’evidente che la saggezza vuole che queste iniziative trovino il più presto possibile l’alveo idoneo per un percorso in comune.

Allora ecco che fare. Subito

Come precisato, si tratta di cose urgenti da fare. Esse non possono essere eluse e/o procrastinate anche perché da esse dipende il resto, cioé:

a) il riconoscimento effettivo come diritto umano - universale, indivisibile ed imprescrittibile - dell’accesso all’acqua potabile nella quantità e qualità considerate necessarie ed indispensabili per la vita da parte dell’Organizzazione Mondiale della Salute. L’Oms fa riferimento a 50 litri al giorno per persona. I governi svizzeri e tedeschi hanno tentato nel passato di prendere un’iniziativa in questo senso, A mio parere, il governo Prodi potrebbe riprendere la proposta fatta dal Parlamento europeo nel marzo 2006 di riconoscere il diritto umano all’acqua. L’approvazione a scadenza ravvicinata della nuova legge sull’acqua e, entro il 2008, della legge quadro sui beni comuni, come prima indicato, darebbe forte legittimità e credibilità all’iniziativa italiana;

b) l’adozione del principio che i costi relativi all’accesso all’acqua potabile come diritto umano debbono essere presi a carico della fiscalità generale e specifica. L’adozione di tariffe speciali per certe fasce disavvantaggiate della popolazione deve essere considerata una soluzione parziale e provvisoria;

c) il governo pubblico dell’acqua significa il governo di tutte le acque. Si tratta cioè di mettere fine alla persistente separazione e frammentazione, in termini di assetti legislativi, regolamenti, istituzioni responsabili, soggetti gestori, sistemi di finanziamento, organi di controllo e di valutazione, coinvolgimento dei cittadini (se praticato). Non propongo, evidentemente, di eliminare le diversità tra gli usi idropotabili (incluse le acque minerali in bottiglia), usi irrigui, usi energetici, usi industriali ed altri usi vari (esempio delle acque termali, usi turistici..) e, quindi, le differenze intrinseche a livello delle funzioni, dei ruoli, delle condizioni locali. Si tratta di pervenire, su basi precise e rigorose, ad un governo pubblico integrato delle acque e delle differenti attività corrispondenti secondo principi ed obiettivi comuni e coerenti.

d) nel contesto delineato sotto c) dare la priorità ad una politica di risparmio, di uso sostenibile e di riuso delle acque, mirando a promuovere una cultura della gestione delle acque centrata sulla manutenzione e l’ammodernamento permanente graduale, anziché continuare sulla via delle grandi opere idriche, dei grandi sistemi idrici e, quindi, dei grandi investimenti che hanno largamente dimostrato finora di essere soprattutto fonte inevitabile di sprechi, di ritardi, di corruzione, di inefficienze dovute al gigantismo dei sistemi, di trasferimento di potere alle imprese costruttrici ed al capitale privato

e) la valorizzazione efficace a medio e lungo termine, in una prospettiva nazionale ed europea, a livello italiano, della tenuta degli Stati Generali delle Acque delle Regioni Meridionali (fine settembre/inizio ottobre 2006) e degli Stati Generali delle Acque delle Regioni del Po (primavera 2007)

La sete dei continenti da noi depredati

f) infine, last but not least, concretizzare nella nuova politica della Cooperazione in fase di approvazione e di messa in opera, i principi di solidarietà e di pace ponendo fra le 3-4 priorità dell’Italia il contributo alla soluzione della drammaticità dell’acqua per le popolazioni africane, asiatiche e dell’America del Sud. E’ certamente un fatto positivo che tutte le forze dell’Unione, e del Polo, abbiano aderito rapidamente e massicciamente alla presenza di truppe italiane nel Libano Mi domando, tuttavia, perché queste stesse forze non hanno finora messo, né danno l’impressione di volerlo fare, altrettanto entusiasmo ed energia in favore di un’iniziativa italiana per l’accesso all’acqua di milioni di Africani?

Propongo che la prossima finanziaria, nel confermare le risorse finanziarie per i militari italiani in Libano, decida di allocare una somma addizionale pari al quarto di quanto destinato all’intervento nel Libano, per l’azione che chiamerei «Un Acquedotto per l’Africa...» E’ mai possibile che una rapp-star americana Jat-Z rischia, in questo campo, di far meglio del governo italiano di centro-sinistra? In effetti Jay-Z ha annunciato che il tour di concerti in Africa che inizierà il 9 settembre prossimo si chiamerà «The Diary of Jay-Z Water for Life» e destinerà una buona parte dei milioni di dollari di profitto attesi al finanziamento di 1000 centri di pompaggio d’acqua.

Partendo dall’acqua, è il governo del diritto alla vita ed alla salute di tutti i cittadini e del patrimonio eco-ambientale del Paese, nell’interesse anche delle generazioni future, che è in causa. Partendo dall’acqua, è altresì il governo giusto ed efficace del denaro della collettività e del funzionamento partecipato delle istituzioni rappresentative e dirette che è in gioco. Partendo dall’acqua è il governo dei processi culturali di visione e percezione del valore della vita e della correlata dimensione della sua sacralità, nelle espressioni le più emblematiche come quella dell’acqua, che si comincia a costruire.

In breve, partendo dall’acqua - e dalla conoscenza - bene comune pubblico, un’altra Italia è possibile.

(4.continua)


Beni comuni Una proposta al governo Prodi. Ultima puntata

La strategia della tartaruga saggia

La conoscenza, come l’acqua, è biologicamente essenziale. E’ lo spirito della vita. Ma la sua mercificazione è a una fase molto avanzata: cacciamo i mercanti dal tempio. La strategia della lepre tecnologica porta in un vicolo cieco

di Riccardo Putrella (il manifesto, 05.06.2006)

E’ora che l’equipe Prodi, che non é l’equipe Berlusconi, «cacci i mercanti dal tempio» della conoscenza e dell’educazione. Come l’acqua, la conoscenza é biologicamente essenziale ed insostituibile per la vita. In più, essa ne rappresenta «l’anima». La conoscenza é lo spirito della vita, non solo delle singole persone ma soprattutto della comunità umana. L’educazione é lo strumento attraverso il quale le comunità umane cercano di comunicare questo spirito collettivo, facendone una memoria sociale non da conservare come fosse un oggetto in un museo all’antica, ma come forza creatrice per pensare e progettare il divenire comune.

La mercificazione della conoscenza e dell’educazione é in una fase molto avanzata. I mercanti si sono impossessati del potere di controllo sulla conoscenza in maniera cosi forte da fare di essa il paradigma narrativo sia dell’economia che della società. Allorché, per secoli, in tutte le civiltà, la conoscenza é stata identificata alla divinità, a Dio come espressione massima della conoscenza, oggi il capitalismo non esita ad autodefinirsi il sistema di economia della conoscenza e di società della conoscenza. Il passaggio é considerevole. Bisogna riconoscere che mai finora «il potere» ha avuto siffatto «coraggio».

Una matrice manageriale

Si fa risalire ai lavori di Peter Drucker, il più noto e rispettato «padre» delle teorie manageriali dell’impresa capitalista di mercato americana, il concetto di «economia della conoscenza». La matrice culturale é strettamente manageriale. La tesi sull’economia della conoscenza afferma che nell’economia dei paesi «sviluppati» la principale fonte di creazione di ricchezza sarebbe diventata la conoscenza, la sua produzione (attività di ricerca ed esperienze sul terreno imprenditoriale...), la sua sistemazione scientifica e il suo utilizzo/applicazione (knowledge management), il suo trasferimento, valorizzazione e diffusione. La gestione efficace ed efficiente dell’insieme dei saperi interni ed esterni all’impresa, strettamente relazionata ai processi di informazione e di comunicazione, sarebbe il principale fattore di produttività. La conoscenza sarebbe dunque diventata il capitale di base dell’economia sviluppata. Da lì a fare della conoscenza anche la base di una «nuova» società che il sistema capitalista avrebbe generato, il passo é stato piuttosto rapido.

Il modello americano

In questo senso, le università e i media americani hanno teorizzato e diffuso nel mondo l’idea della nascita nella seconda metà del XX secolo di un nuovo capitalismo - e quindi nel loro sentire di una nuova società - in relazione alla «rivoluzione scientifica e tecnologica» rappresentata dalle nuove tecnologie di automazione, informazione e comunicazione. Non a caso le scuole di business e di management americane hanno propagandato in simultanea il paradigma narrativo dell’economia dell’informazione e della società dell’informazione.

Ci sono riusciti, visto che i loro paradigmi narrativi fanno parte integrante della «vulgata» scientifica mondiale. Si pensi che l’Unione europea ha incentrato la sua strategia per il XXI secolo (la famosa strategia di Lisbona del 2000) sull’obiettivo di fare dei paesi dell’Unione «l’economia della conoscenza la più competitiva al mondo al 2010»! Le tesi sull’economia della conoscenza sono state anche fatte proprie in molti ambienti culturali di sinistra. Non ci sarebbe nulla di male in ciò, se esse non fossero la narrazione proposta dai dominanti per legittimare i cambiamenti di società in corso nella logica dell’economia capitalista di mercato globale.

Il capitale ha avuto gioco facile

A partire dall’accettazione, da parte dei poteri politici e del mondo della scienza e dell’educazione, della tesi sul ruolo fondamentale della conoscenza per la creazione della ricchezza, é stato facile per il capitale privato fare accettare altre tesi, presentate come «verità», quali:
-  l’impresa, specie privata, é il soggetto principale, chiave, della produzione e dell’uso delle conoscenze che contano per produrre ricchezza. In effetti, per «conoscenza», i promotori della società della conoscenza intendono i saperi teorici, pratici e manageriali di natura tecnica, scientifica, finanziaria ed imprenditoriale «prodotti» nei paesi «sviluppati». E’raro trovare nei milioni di articoli e libri apparsi sull’economia e la società della conoscenza il principio che studiare la letteratura bizantina del XIII secolo farebbe parte dell’economia della conoscenza;

-  la conoscenza é un capitale strategicamente decisivo per la competitività delle imprese e per la sicurezza dell’economia di un paese. Essa é un bene economico di cui l’impresa, specie privata, deve assicurarsi il potere di accesso e di uso, nell’interesse della competitivtà dell’economia nazionale. Ciò, sia direttamente tramite l’appropriazione privata (vedi la centralità del brevetto/proprietà intellettuale), sia attraverso il controllo dell’uso ( vedi norme, standards Iso, accordi tra imprese in materia di R&S...), sia attraverso il finanziamento (il capitale privato é riuscito ad imporre in seno all’Unione europea l’idea che la ricerca europea deve essere finanziata a due/terzi dal capitale privato);

-  il sistema educativo di ognipaese,in particolare quello delle università e degli istituti superiori, deve esssere principalmente orientato a formare le «risorse umane» altamente qualificate nelle conoscenze che contano per l’imprese, al servizio del miglioramento delle capacità competitive delle imprese nazionali;

-  c’é poco da fare contro l’inevitabile knowledge divide che sempre più separerà nel mondo le persone, i gruppi sociali, le città, le regioni, i paesi tra coloro che «sanno» perché posseggono la proprietà e/o il controollo delle conoscenze tecnico-scientifiche-manageriali e quelli che «non sanno». Gli sviluppi odierni e futuri nei settori della matematica, della fisica, dell’ingegneria genetica, dei materiali,della ricerca spaziale, sono considerati come fattori «naturali» aggravanti del fossato sociale tra «poveri» e «ricchi».

Per un’altra Italia

Il geverno di cui Fabio Mussi é ministro dell’università e Patrizia Sentinelli è vice-ministro agli Affari esteri responsabile per la cooperazione, non può restare su queste posizioni.E’ imperativo che tutte le forze che si battono «per un’altra Italia», per un’«Italia con futuro», riescano a far compiere al governo Prodi un atto di rottura nel campo della conoscenza consistente nella redazione di un Libro bianco governativo dal titolo La rivoluzione della conoscenza in Italia. Vie e mezzi per mettere la scienza, la tecnologia e l’educazione al servizio di un migliore vivere insieme, solidale e sostenibile. Oltreché precisare in modo netto, al momento della decisione di procedere all’elaborazione del Libro bianco, che il nuovo governo considera la conoscenza come un bene comune pubblico e che si impegna a rivedere la legislazione in materia di diritto di proprietà intellettuale, si tratterà di affidare al Segretariato di coordinamento per i Beni comuni il compito di redigere la prosposta di Libro bianco.

Le nuove risorse

Il compito dell’esercizio consisterà nell’analizzare in maniera sitematica e rigorosa, in stretta cooperazione anche con i rappresentanti del mondo delle imprese desiderosi di associarsi all’iniziativa, quali risorse nuove e quali processi innovativi possono e debbono essere pensati, inventati, sperimentati secondo una visione nazionale coerente a medio e lungo termine per risolvere i problemi cronici italiani del vivere quotidiano. A tal fine, si potrebbe pensare ad una decina di «Ateliers della conoscenza».

L’urgenza riguarda la messa in opera di una ingegneria sociale della conoscenza, cioè l’identificazione dei mutamenti profondi da portare, grazie anche ad una conoscenza poliedrica e non esclusivamente tecnico-reddditizia, al sistema energetico, alla gestione del territorio, ai trasporti urbani, ferroviari, al rinnovo dei trasporti fluviali e marittimi, alla soluzione dei problemi della casa e dell’abitato urbano, all’organizzazione della salute, ai problemi degli anziani, alle questioni dei bambini, della loro educazione e socializzazione, dei loro media, cosi come degli adolescenti. In molti casi ci si accorgerà che é meno un problema di risorse finanziarie che un problema di cambio nei modi di fare, nei processi di produzione, nei sistemi d’informazione e di comunicazione, nei modi di consumo, di sprecare, di risparmiare, di organizzare le finanze locali, di cooperare. Altro che conoscenza per la competitività guerriera!

Come la Rivoluzione francese

E’ urgente domandare al mondo dell’educazione di rivoltarsi contro l’asservimento distruttore dell’educazione alla sola funzione della formazione delle risorse umane. Come la Rivoluzione francese condusse a far scrivere sui portoni dei municipi e delle scuole i concetti di Libertà, Uguaglianza e Fraternità, propongo che il Governo Prodi adotti una semplice misura simbolica in favore della conoscenza come bene comune mondiale facendo scrivere Vivere insieme sui frontoni di tutte le istituzioni educative italiane. Forse, se ciò fosse stato scritto negli ultimi cinquant’anni sui frontoni di tutte le scuole e università degli Stati uniti, ci sarebbero ora meno guerre nel mondo.

L’esempio di Slow Food

La strategia della lepre tecnologica, seguita finora dalla stragrande maggioranza dei paesi «sviluppati» e fatta propria anche dai partiti del Programma dell’Unione, secondo la quale ogni lepre (Paese) deve utilizzare le conoscenze e sfruttare le risorse naturali ed umane per correre sempre più velocemente con salti tecnologici sempre più grandi al solo scopo di arrivare prima delle altre, non contribuerà alla costruzione della res publica né a livello nazionale, né europeo, né mondiale. Propongo che il governo Prodi adotti la strategia della tartaruga saggia, secondo la quale il Paese decide di non scegliere le vie da seguire nell’urgenza dell’ordine del giorno a corto termine stabilito dai mercati finanziari o dalle guerre commerciali.

Al contrario, prendendo anche spunto dall’esperienza di Slow Food che meriterebbe di essere più sostenuta e conosciuta dal grande pubblico, il Paese decide le scelte secondo la saggezza dell’ordine del giorno a lungo termine stabilito dalla priorità di (ri)imparare a vivere insieme sulla base dei principi di precauzione, prevenzione, gioia, sobrietà, solidarietà, bellezza, partecipazione.(5/fine) ________________________________________________________________________________________________________________________

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Cinque articoli qualche suggerimento alla politica e un incontro aperto a tutti

I cinque articoli proposti ai lettori del «manifesto» (i primi quattro sono usciti il 27 e il 30 agosto e l’1 e il 3 settembre) e di «Carta» (che li ha pubblicati nel numero del settimamanale in edicola) puntano sulle ragioni che militano in favore di «un governo dei beni comuni» in Italia e sulle vie da seguire per riuscire a dar vita a un tale governo. Già il primo articolo è stato in sostanza una rassegna del concetto stesso di bene comune.

Questo lavoro di Riccardo Petrella parte dall’analisi dei beni comuni per arrivare a delle proposte che saranno sottoposte, come abbiamo già annunciato, al dibattito in occasione di una tavola rotonda conclusiva, tra una decina di persone, ma aperta al pubblico. Si terrà a Roma a fine settembre. La sfida sta nella convinzione che esistono oggi condizioni favorevoli, a livello mondiale, europeo e nazionale per perseguire il progetto di costruire in Italia, nel corso dei prossimi dieci/quindici anni, una nuova «res publica» fondata sui beni comuni.


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